Cultura & Società

Cesare Pavese, tre giorni da star

di Sara D’Oriano«Facciamo 10 minuti di pausa e poi ricominciamo», informa il relatore dal microfono. È così che ci si rende conto della fiumana composta da ottocento ragazzi che riempiono il grande anfiteatro del Palacongressi di Firenze. Ottocento ragazzi che si sgranchiscono, chiacchierano, si alzano alla ricerca di qualcosa da sgranocchiare o per fumare. Ma non solo. Qualcuno rimane seduto, gli appunti sulle gambe, a intavolare discussioni su quanto è stato appena detto dal relatore; altri ancora, invece, si proiettano sul palco per chiarire con i docenti qualche dubbio non spiegato o mal capito.

Sono giovani dai 14 ai 18 anni, appartenenti a 57 istituti superiori italiani, che sono venuti a Firenze per l’annuale appuntamento de «I colloqui Fiorentini – Nihil Alienum». Per prepararsi a questi 3 giorni di convegno, che ogni anno permette loro di confrontarsi con i grandi scrittori del Novecento italiano, gli studenti hanno lavorato per quasi un anno, presentando tesine, elaborati letterari e artistici quest’anno dedicati a Cesare Pavese, ad un anno dal centenario della nascita. «Qualcuno ci ha mai promesso qualcosa? E allora perché attendiamo?»: queste le parole dell’autore, sottotitolo dei «Colloqui» e argomento del confronto, condotto da docenti delle Università di Roma, Milano e Bari.

«Noi abbiamo presentato una tesina sul tema del male – spiega Francesco, 16 anni, del liceo scientifico di Campi Bisenzio –. È stato difficile riuscire a capire un autore per noi sconosciuto e anche complesso, però ci ha affascinato l’idea di poterlo avvicinare senza la fretta del programma didattico da finire. Il male in Pavese è stato l’argomento che ci ha più colpito, perché l’ha invaso talmente da condurlo al suicidio, e così abbiamo deciso di affrontarlo insieme».

«Di Pavese, non mi aspettavo questa enorme fragilità, e la malinconia con la quale ha affrontato tutta la sua vita, continua Duccio, 15 anni. «E anche la sua solitudine – gli fa eco Veronica –. Il suo diario, le sue poesie, tutto richiama e riporta una grande solitudine. Nonostante riuscisse a percepire la bellezza del mondo, si sentiva solo e non in grado di godersi le gioie della vita».

Ci spostiamo nell’immenso auditorium, e troviamo due ragazzi intenti a scambiarsi e rileggere appunti: «Abbiamo deciso di affrontare il tema del Mito e di farlo raccontando una storia. Abbiamo lavorato per circa 3 mesi – descrivono con sicurezza e padronanza Simone e Beatrice, 18 anni, del liceo classico di Montepulciano. La loro scioltezza ci spinge ad azzardare la domanda se si possa parlare di un Pavese religioso. È Beatrice a prendere la parola: «Indubbiamente in Pavese c’è una spinta religiosa notevole. Parla di Dio in molte occasioni, e io penso che volesse anche credere, forse sarebbe stata la sua salvezza, ma in realtà non è mai stato convinto che la fede potesse aiutarlo, la religione non gli ha mai dato risposte certe, e lui alla fine si è persuaso che Dio fosse solo una bella invenzione e che l’aldilà fosse solo un’incognita, niente di più».

Poco più in là troviamo una professoressa. Si chiama Francesca, è una prof. di lettere dell’Itc Sarrocchi di Poggibonsi e al convegno ha portato una seconda: «Una cosa che non mi aspettavo è la grande voglia dei ragazzi di mettersi in gioco, di implicarsi. Hanno letto Pavese chiedendosi il perché di certe sue scelte e fragilità, interrogandosi e confrontandosi. Nonostante le difficoltà iniziali (che hanno riguardato anche me in verità!), sono molto contenta di come il lavoro sia stato portato avanti». Confermano anche Valentina, Silvia e Claudia, 19 anni, del Liceo scientifico Redi di Arezzo: «Il lavoro che abbiamo presentato riguarda il tema del destino, però mentre leggevamo i suoi scritti, ci siamo resi conto che Pavese era un uomo incompreso e ne abbiamo parlato in classe. La scrittura e la poesia erano il naturale sfogo di una persona sola e fragile».

I dieci minuti di pausa terminano, i ragazzi rientrano a sedere, il relatore richiama al silenzio. Rimane il tempo per un’ultima domanda che rivolgiamo a due professoresse del Liceo classico di Montepulciano: «Qual è la cosa che i giovani vi hanno chiesto con maggiore insistenza mentre preparavano i loro lavori?». «Sicuramente i motivi del suicidio di Pavese. I ragazzi non riuscivano a spiegarsi come mai una mente in grado di cogliere con straordinaria sensibilità la bellezza della vita, potesse poi decidere di rinunciarvi».

La lezione riprende, un gruppo di ragazzi sale sul palco per presentare il proprio lavoro. La massa festante si ricompone e se ne percepisce la concentrazione. Chissà se Pavese si sarebbe sentito solo anche tra questi giovani che cercano di comprenderlo con straordinaria semplicità….

La schedaIl successo di un’idea per avvicinarei giovani a una lettura autenticadei letterati del NovecentoEducare il cuore al paragone con scrittori che del paragone con il proprio cuore hanno fatto la loro vita». Pietro Baroni, docente di lettere nella scuola secondaria di primo grado e responsabile della progettazione culturale ed organizzativa de «I colloqui fiorentini – Nihil alienum», riassume con queste parole l’intento con il quale, sei anni fa, è nato il progetto. Lo scopo, avvicinare i giovani ad una lettura più attenta e introspettiva degli autori italiani del Novecento, troppo spesso strizzati nei programmi scolastici tradizionali: «Socrate sosteneva il “conosci te stesso” e così noi vorremmo innovare la didattica ritornando allo scopo originale della scuola: educare i giovani alla scoperta di se stessi attraverso l’arte e le scienze».

Organizzate da Diesse Firenze (Didattica e innovazione scolastica) in collaborazione con l’Ufficio scolastico regionale per la Toscana, la provincia di Firenze e l’Itt Marco Polo di Firenze, le sei edizioni dei «Colloqui» hanno visto la partecipazione di numerose scuole superiori provenienti da tutta la Toscana (27 quest’anno) e da tutta Italia, e il loro confronto sugli autori italiani del Novecento. Nelle varie edizioni si sono succeduti: Montale, Ungaretti, Pirandello, Pascoli, Svevo, e quest’anno Cesare Pavese (1908-1950). Numerosi docenti universitari provenienti dagli atenei di tutta Italia si sono alternati sul palco del Palacongressi, dove ogni anno le presenze hanno oscillato tra le 500 persone delle prime edizioni e le 800-1000 delle ultime. Novanta gli insegnanti coinvolti solo nella ultima edizione.

La partecipazione dei ragazzi si esprime ogni anno attraverso tesine, creazioni letterarie e vere e proprie opere artistiche (quadri, fumetti, fotografie e musiche) tra cui vengono scelte le vincitrici, premiate al termine dei tre giorni di convegno. La partecipazione dei ragazzi è molto entusiasta, ed è anche un’occasione per numerose scolaresche provenienti da tutta Italia di visitare, a volte anche per la prima volta, la città di Dante, Michelangelo e Brunelleschi. Un’occasione, ormai divenuta consuetudine, che con sempre maggiore passione vede il coinvolgimento degli insegnanti e delle loro classi.

A colloquio con Gilberto BaroniUn uomo in perenne conflittotra la formazione cattolica e l’adesione all’ideologiaCon Gilberto Baroni, presidente di Diesse Firenze e principale promotore de «I colloqui fiorentini», ci confrontiamo sul tema della fede e della religione in Cesare Pavese.

Per questa edizione dei «Colloqui fiorentini», lei ha scritto un’introduzione che sostiene la presenza di una visione spirituale e religiosa in Cesare Pavese, vissuta in antitesi con le sue scelte politiche. Com’è possibile parlare di fede per Cesare Pavese, alla luce della fine tragica che il poeta e scrittore ha deciso di darsi?

«Pavese ha ricevuto fin da piccolo un’educazione religiosa, che poi però è entrata in conflitto con gli incontri e le amicizie che ha intessuto in particolare durante gli studi superiori. L’ammirazione che nutriva per Monti, suo professore al liceo e le amicizie della “confraternita” (tra cui Ginsburg, Bobbio, Mila e Einaudi), lo allontanarono progressivamente dalla formazione cattolica che aveva ricevuto. Tuttavia, vivrà sempre dentro di sé la profonda scissione tra questi due mondi e non riuscirà mai a trovare una conciliazione in grado di soddisfarlo».

Leggendo alcune delle opere di Pavese, si coglie molto forte questo anelito all’oltre. Pavese percepisce la bellezza della vita e del mondo che lo circonda, capisce che il mistero che si cela dietro la realtà è l’unica chiave per la felicità, ma si sente incapace di afferrarlo per sé, di cogliere l’idea di un Dio infinito. E si sente anche molto incompreso e solo…

«Infatti. Pavese non riuscì mai ad abbandonarsi alla fede perché in fondo nutriva il dubbio lacerante: e se poi fosse tutto sbagliato, tutto finto, un racconto che gli uomini hanno creato per afferrare questa speranza di infinito e eterno? Non a caso, nell’ultima pagina del suo diario, pochi giorni prima di suicidarsi, annoterà: “Scrivo: o Tu, abbi pietà. E poi?”. Nessuno, in questa sensibilità che non riusciva a trovare sfogo, lo comprese fino in fondo, e la solitudine, non per mancanza di rapporti, ma per incapacità e impotenza sua, è un tema che ricorre spesso nei suoi scritti. Sarà proprio questa solitudine che lo porterà a percepire come inutile la sua identità: “se si è soli, non c’è chi: anche l’io se ne scompare”».

Pavese era quindi incapace di comunicare?

«Sì. Incapace di trasmettere le sue fragilità e le sue difficoltà agli altri. Vivere era per lui uno sforzo, una difficoltà incessante. Non a caso il suo diario si intitola “Il mestiere di vivere”. La scrittura, era per lui unico sfogo, unica via di fuga, che però si esaurirà nel momento in cui non lo aiuterà più ad affrontare questa sua solitudine pressante. Scrive Pavese nel “Mestiere di vivere” (10 novembre 1938): “La massima sventura è la solitudine, tant’è vero che il supremo conforto – la religione – consiste nel trovare una compagnia che non falla, Dio. La preghiera è lo sfogo come con un amico. L’opera [letteraria] equivale alla preghiera, perché mette idealmente a contatto con chi ne usufruirà […]”».

I Colloqui fiorentini nel sito dei Diesse di Firenze