Cultura & Società
Pilato, l’uomo che non fu salvo né dannato
di Carlo Lapucci
Dante, che pur ci tenne nel suo viaggio ultraterreno a incontrare un po’ tutti i maggiori esponenti dell’Umanità, non trova in nessuno dei tre regni Ponzio Pilato, se non si identifica nel procuratore romano l’ignavo che fece per viltade il gran rifiuto (Inferno III, 60), che si ritiene con più probabilità Papa Celestino V. Comunque Dante di Pilato non ebbe un gran concetto, se chiamò Filippo il Bello nuovo Pilato (Purgatorio XX, 91) per aver lasciato Bonifacio VIII in balìa dei Colonna che lo insultarono ad Anagni. Ciò è segno che non è facile giudicare Pilato, un uomo, se si vuole, che fu posto di fronte alla difficile prova di riconoscere Dio stesso sotto le misere vesti di un perseguitato. Ma è la prova che prima o poi aspetta tutti gli uomini e forse per questo è difficile in giudizio.
A ben guardare il Vangelo non dedica che poche righe alla figura di Ponzio Pilato, pure, da non molte parole, quest’uomo è diventato una delle figure più conosciute della storia dell’umanità, il personaggio sul quale si sono rivolte un’infinità di riflessioni, di ipotesi, di giudizi, di rappresentazioni artistiche. E tuttavia il suo mistero ha resistito e ancora nessuno può dire chi sia stato Pilato, cosa c’era nella sua anima. Su questo problema giova considerare quello che ci ha visto la tradizione popolare, traducendo il pensiero in simboli, leggende, narrazioni.
Ma la voce più antica lo dice di Bisenti, presso Teramo, dove c’è anche un antico e profondissimo pozzo che si chiama Pozzo di Pilato, e Pilato fu un tipo che di pozzi, di laghi e di monti se ne intendeva. Anche a Roma si mostrava nel Medio Evo un palazzo che si diceva casa, torre o palazzo di Pilato. Altrove parecchie località hanno fama d’aver dato i natali a colui che rimise Cristo alla sua sorte: diversi luoghi in Spagna, a Lione o Vienne in Francia, a Magonza, presso Bamberga, o a Forchheim.
Divenuto uno dei principali responsabili, se non il primo, della Crocifissione, altre leggende illuminarono di foschi bagliori per così dire la sua vita in preparazione al grande misfatto: giovinezza scellerata, vita di peccatore, misfatti d’ogni genere come fratricidi e omicidi, finché ottenne il posto di governatore della Palestina e, per sua sventura, la carriera lo portò davanti al più atroce dei dilemmi.
Non c’è nelle Sacre scritture personaggio che interpreti meglio l’uomo moderno e il suo dramma: dall’inerzia pigra, all’egoismo e all’individualismo, dal relativismo alla cinica accettazione passiva dell’ingiustizia o dell’infamia in nome d’un tranquillo benessere e della carriera. Le tre posizioni che abbiamo indicato inquadrano tre atteggiamenti più frequenti del mondo contemporaneo davanti a Cristo, e Pilato, col suo gesto di lavarsi le mani, le sintetizza tutte senza rivelare il suo mistero.
La leggenda più diffusa, la Mors Pilati, seguita anche dalla Leggenda aurea, narra che il pretore viene chiamato a Roma dall’imperatore Tiberio, il quale, malato, ha saputo che un uomo della Palestina compie straordinari miracoli. Poiché Pilato lo ha fatto morire, lo fa condannare a morte da un tribunale e il disgraziato preferisce uccidersi la morte spontaneamente. Storicamente Pilato fu richiamato a Roma per una strage da lui ordinata contro i Samaritani, ma da quel momento in poi la storia di lui non dice più nulla. Tuttavia sembrò che il malvagio col semplice suicidio se la fosse cavata troppo a buon mercato e altre leggende rincararono la dose. Secondo una di queste Pilato, fiutando il vento infido, invece d’andare a Roma si rifugiò a Fontecchio (L’Aquila) in un enorme castello del quale si vedono ancora i resti su una collina vicino al paese, ed è detto Castellone o Castello di Ponzio Pilato. Qui, fortificate le mura, adunato un numero immenso di armigeri, il fuggiasco stava sicuro nella sua fortezza ritenuta imprendibile. Tiberio assediò il castello e una notte le statue della grande dimora presero a sudare sangue, le donne partorirono torme di topi che rosero le fondamenta delle mura e all’alba tutto crollò tra schianti e polvere, mentre i diavoli, impadronitisi del corpo di Pilato lo precipitarono in un fiume distante cento miglia.
Altre storie dicono che invece di morire a Roma il prigioniero fosse relegato nella città di Vienne, dove si uccise e il corpo gettato poi nel Rodano. Altre riferiscono invece che fu relegato a Damasco, come si legge nella Vindicta Salvatoris, mentre la Cura sanitatis Tiberii dice che finì in una città della Toscana non ben definita: Arezzo e la più gettonata, Ameria (oggi Amelia dove un edificio viene detto comunemente il Palazzo di Pilato), Amerina, Timernia, Arimena, Cimerina. Riprendendo il filone principale della leggenda Pilato, datosi la morte a Roma, viene gettato nel Tevere, legato a un enorme macigno, sperando d’averla fatta finita. Ma qui ogni notte comincia una tremenda sarabanda di demoni che portano con sibili e scoppi e saette il corpo di Pilato nell’aria, sollevano immense ondate, scatenano fulmini, tempeste e grandine grossa come mattoni.
La salma viene allora tratta dall’acqua e scaraventata nel mare. Peggio: tutti i pesci del pelago muoiono, tempeste e venti si scatenano affondando le navi e devastando le coste. Il cadavere viene ripescato e portato a Vienne dove la tomba lo vomita ogni notte, per questo quei poveri cittadini lo gettano nel Rodano. Qui si ripeté la stessa musica che sonava nel Tevere, con boati, lampi e inondazioni, per cui, zitti zitti i concittadini del reo lo scaricarono occultamente a Losanna, dove la sarabanda cominciò da capo. Ma gli abitanti di Losanna mal sopportarono tutta quella confusione, per cui lo portarono a Lucerna, dove ancora il monte che sorge vicino alla città si chiama Monte di Pilato.
Un’altra versione della leggenda dice che, ripescato dal Rodano, il corpo fu portato in mezzo alle montagne e gettato in un profondissimo pozzo in mezzo a una palude spettrale. Altri sostengono che invece i poveri resti finirono sul Monte Septimer, non lontano da Chiavenna. Altre tradizioni narrano che sia finito invece nel Reno non lontano da Costanza, altre nel Canton Ticino, nella Val Bavona, presso Locarno, in un laghetto che ancor oggi si dice rigurgiti acque limacciose e relitti durante improvvise tempeste.
Con queste favole si torna in Italia, dove Pilato deve essere passato per forza dopo il famoso giudizio, se nell’anno 1664, scavando nelle rovine di un palazzo antichissimo dell’Aquila, fu trovata una cassetta di ferro contenente una piccola urna di marmo nella quale, su una pergamena era scritta la sentenza di condanna di morte di Cristo emessa da Pilato. Il documento contiene anche i nomi dei giudici, dei testimoni e dei notai che vi parteciparono. Purtroppo se ne conosce solo una copia, che tuttavia fu venduta a un’asta libraria del 1898, per chi fosse curioso dalla ditta Franchi di Firenze che la pose nel suo catalogo. L’antiquariato a sostegno della fede o la fede a sostegno dell’antiquariato?
In Italia non pochi specchi d’acqua un po’ strani hanno fama di ospitare nel fondo l’anima di Pilato. Il più noto in Toscana è il lago appenninico detto Scaffaiolo: un abisso del quale nessuno per tradizione ha visto mai il fondo, con punto dove svaniscono tutte le sonde. Dalle acque si sentono venire urli, gridi, voci, lamenti; poi si scatenano improvvisamente mirabili tempeste, senza che si muova il vento, senza che nessuna causa si avverta. Così è di tutti gli specchi d’acqua che sono detti di Pilato. Nel Lago Scaffaiolo se vi si getta una pietra Pilato risponde con terribili muggiti, rumori sinistri e una tempesta improvvisa delle acque, senza un filo di vento.
In particolare vi è un lago dove si vuole che Pilato errando si gettasse per finire i suoi giorni, ovvero vi fu trascinato dai diavoli in forma di tori furiosi. Questo si dice del più noto tra i laghi, quello per eccellenza: il Lago di Pilato che si trova in quel di Norcia, ma molto in alto sul monte Vettore, a 1940 m. sul livello del mare. Sta in una valle brulla, è a forma di occhiali, con la stagione estiva si divide in due laghetti, non molto grande, misura circa 300 m. per 100 m. e 9 di profondità massima. È alimentato da un ghiacciaio perenne. Qui convennero per secoli in lunga fila, da tutta Europa, coloro che praticano la magia, per i loro incantesimi. Nei pressi c’è l’antro della Sibilla Appennina, dove chi entra ritorna fuori giovane, per aver bevuto alle acque della fonte d’eterna giovinezza… Oppure non torna, ammaliato dalle grazie, orride e seducenti, delle donne serpenti che vi abitano…
È un piccolo, limpido specchio montano, accessibile solo a piedi, singolare per la fauna ittica, in cima ai due versanti appenninici, per cui i venti vi scatenano furiose tempeste. Là i maghi tuffavano Il libro del comando, che stregoni e negromanti usarono per avere al proprio servizio i demoni: dentro il cerchio magico lo stregone invocava il demonio che, uscito dal pelago, veniva a consacrare e sottoscrivere il libro di formule. Allora nella notte si muovevano le onde e una palla di fuoco sorgeva in mezzo alle acque sconvolte, finché un corpo gigantesco appariva camminando sulle onde, con piedi grandi come barche, sollevando marosi a ogni passo, allorché appoggiava il piede sull’acqua. Col corpo ardente il demonio avanzava sprigionando vapore d’acqua bollente, come se il corpo fosse ferro rovente e giunto a riva poneva il suo suggello sul libro che il negromante firmava col suo sangue. Tale impegno dava al diavolo potestà sull’anima del suo accolito e, di contro, al mago la potestà sui demoni della terra.
In questa farragine di storie e di fantasie si può seguire una linea chiara di pensiero: quella di una triste storia senza perdono. Nel cuore di Pilato l’umanità semplice ha trovato il punto essenziale della sua anima complessa: non l’egoismo, non la paura, non la pigrizia, ma la negazione che si possa giungere alla verità, che valga la pena vivere per questa, che possa esistere un valore per il quale impegnare, sacrificare la vita. Chi salva la sua vita la perderà: il Pilato della leggenda con il suo cinico scetticismo l’ha perduta, pensando alla sua carriera. Il suo relativismo in cui tutto è buono e cattivo, omologando bene e male, non desidera e non vuole perdono, non sa cosa farsene perché non crede che a quello che vede e la sua regola è l’utile. Di fronte a questo, dice il pensiero della leggenda, non c’è redenzione: finito il suo corso vitale la natura inorridita lo rifiuta: la terra non lo accoglie, l’acqua ribolle e si agita, la gente non ha pace. Non rimane che sparire, nascondersi negli abissi dei laghi, delle paludi, nelle desolazioni delle montagne, nel buio dei pozzi e delle voragini: dimenticare, se mai è possibile.
Un tempo le anime usavano prendere la forma di uccelli e svolazzare a stormi sulle acque e lungo le rive fino a farsi inghiottire di nuovo dalle onde. Ora questi uccellacci sono scomparsi, o se ne trovano solo raramente. Se una mano battezzata getta una pietra nel lago, proprio in quel punto dove il fondo s’apre sull’inferno, si scatenano spaventose burrasche improvvise, con venti capaci di sradicare querce centenarie e sollevare onde spaventose: sono i demoni e i dannati che si agitano e ululano per l’arrivo in mezzo a loro d’una pietra che non è maledetta. Quando i dannati sono chiusi nell’Inferno, l’anima di Pilato fa buona guardia nel fondo del lago e avverte cupi muggiti chi s’avvicina ad allontanarsi subito.
Il lago Scaffaiolo è nella dorsale appenninica tosco-emiliana e si trova proprio sul confine toscano. Intorno non c’è vegetazione. Alla credenza fa riferimento anche il Boccaccio: De montibus, silvis, fontibus, lacubus, fluminibus, stagnis seu paludibus et de nominibus maris. Giuseppe Tigri, abate pistoiese (1806-1882), descrive la tempesta improvvisa del lago nel poemetto: Le selve della montagna pistoiese, Canto V, Firenze, Felice Paggi Libraio-editore 1869, e annota: «È simile a un parallelogrammo della lunghezza di m. 200 circa, e di larghezza m. circa 60. Gli è uno di più notevoli tra gli Appennini. Lo alimentano le piogge e qualche sorgente, e la neve che gli scola dai poggi che da un lato gli sorgono più prominenti, e donde ti si porge a vedere la superficie dei due mari Mediterraneo e Adriatico, e gli alti monti di Verona e que’ del Tirolo biancheggianti di neve».
Il carrettiere, che era un uomo coraggioso, credendo che ci fosse un tesoro, si fece calare con una fune nell’antro e, arrivato in fondo, a tentoni trovò una porta e l’aprì. Dentro c’era un vecchio, davanti a uno scrittoio con carta, penna e inchiostro, che stava leggendo uno scritto e, come finiva, ricominciava da capo. Lo stette un po’ a guardare e alla fine gli chiese:
Chi sei?
Vieni qua che te lo scrivo.
Il carrettiere s’avvicinò e il vecchio, alzandogli la camicia, gli scrisse qualcosa sulla schiena e poi gli disse:
Addio!
Quando fu tornato sulla terra, il carrettiere era divenuto come un vecchio e i capelli per la paura erano tutti bianchi. Non disse nulla e volle essere portato dal Papa al quale chiese di leggere cosa gli aveva scritto il vecchio sulle spalle. E il Papa lesse:
Io sono Pilato.