Cultura & Società

Il priore di Barbiana, un prete «esagerato»

di Andrea Fagioli

Arrivare oggi a Barbiana, in una bella giornata di primavera, ha il sapore della gita domenicale. Le vecchie stanberghe dei contadini sono state trasformate in lussuosi agriturismi. «Le case dei poveri sono diventate le case dei ricchi», avrebbe detto don Lorenzo Milani, almeno stando all’interpretazione di Michele Gesualdi, che ci accompagna in questa visita ai luoghi milaniani: la chiesa, la canonica, la scuola, il laboratorio, la pergola, la piscina…. Questi sì rimasti com’erano, anzi: recuperati quasi com’erano dopo alcuni anni di abbandono.

Gesualdi, uno dei primi sei ragazzi della scuola di Barbiana (abitava accanto alla chiesa), è oggi presidente della Fondazione don Lorenzo Milani, che ha in cura i locali e che «è riuscita a fronteggiare ogni tentativo di stravolgimento di questi luoghi rimasti poveri e austeri come ai tempi del Priore. Una povertà che di per sé rappresenta un messaggio che non deve essere distrutto. Questi muri – spiega – trasmettono sofferenza e idee. Sofferenza di chi la storia voleva emarginato e negato agli studi, e idee capaci di formare uomini liberi».

Certo che salire a piedi quassù nell’autunno del 1954 dev’essere stata dura. Fra l’altro, erano due giorni e due notti che pioveva. Anche se non è vero che don Lorenzo, quel 6 dicembre di 53 anni fa, una volta entrato nella chiesetta di Sant’Andrea, si sia messo a piangere. «Ci sono i testimoni – spiega Gesualdi –. Non è vero nemmeno che il giorno dopo sia andato a comprarsi un posto nel minuscolo cimitero della parrocchia, per il semplice fatto che quella terra non si poteva comprare. Certo che un segnale in questo senso l’avrebbe dato volentieri». La parrocchia, del resto, era rimasta aperta solo per lui, altrimenti sarebbe stata soppressa affidando a don Renzo Rossi, allora a Vicchio, la sola celebrazione della Messa la domenica. Da sfatare anche il fatto che sia stato Florit, appena arrivato a Firenze in quel 1954, a mandare don Milani a Barbiana. La decisione l’aveva già presa Elia dalla Costa.

Percorso didattico unico al mondo Prima di entrare nella stanza della canonica adibita ad aula scolastica, Gesualdi si ferma sotto la pergola: «Questa è stata la scuola all’aperto. Non era facile tenere i ragazzi montanari al chiuso e poi qui c’era il contatto con l’ambiente vivo. Quella dentro era per noi l’aula magna, ma questa era l’aula magnissima». Poco più in là la piscina. «Ma è una vasca!», ebbe a dire un’insegnante in visita con la sua scolaresca. «Per noi è stato l’Oceano», ribattè secco Gesualdi. «Bisogna sapere – dice oggi il presidente della Fondazione don Milani – che i montanari temono due cose: l’acqua e il fuoco. Qui abbiamo superato la paura dell’acqua, qui abbiamo imparato a nuotare». Quello di Barbiana è attualmente un percorso didattico vero e proprio, mantenuto però «al di fuori di ogni logica museale», perché vuole che sia «quella scuola a continuare a parlare e a insegnare». «Era una scuola unica al mondo e diversa da tutte le altre – spiega ancora Gesualdi –: diversa negli orari, diversa negli obiettivi, diversa nei metodi, diversa nei contenuti. Qui tutto era scuola e scuola esigente. Erano scuola le visite, era scuola la lettura della posta e del giornale, era scuola l’osservazione delle stelle, la lavorazione del legno e del ferro…. Era una scuola a tempo pieno, dalle 8 del mattino fino alle 7 di sera. Vi era sempre corrispondenza fra lo studio teorico e la pratica».

Una volta all’interno dell’aula, Gesualdi ci spiega i grafici sulla composizione del Parlamento («mesi e mesi di approfondimento per sapere tutto dei partiti, degli elettori, dei governi, dei regolamenti della Camera e del Senato…»), gli schemi per lo studio delle lingue; fa calare uno schermo bianco per dire che i ragazzi studiavano anche il linguaggio cinematografico («abbiamo visto e rivisto in 13 anni tre soli film: Roma città aperta, Ladri di biciclette e La corazzata Potemkin); ci mostra il Padre nostro in cinese, ma soprattutto l’astrolabio, costruito pezzo pezzo dai ragazzi tanto da marchiarlo, scherzosamente ma non senza orgoglio, «Officina astrofisica di Barbiana».

E proprio nelle stanze a piano terra adibite a officina, fanno ancora bella mostra di sé il banco da falegname, la morsa, il tornio, ma anche gli sci fatti a mano tra cui quelli dell’allora piccolo Michele ricavati da un tronchetto di acacia dalle mani abili di Beppone, un pastore del posto. In un rientro del laboratorio, l’ultima novità del percorso didattico: una mostra fotografica permanente, dal titolo «Il silenzio si fece voce» («per dire che il Priore ha dato voce alla cultura dei poveri»), che sarà inaugurata questa domenica 6 maggio, all’indomani del convegno a Firenze su don Lorenzo Milani e la Costituzione, in Palazzo Medici Riccardi. Il percorso si conclude con uno sguardo al Mugello che si apre davanti al visitatore di Barbiana mentre si avvia al piccolo cimitero, qualche metro più in basso della chiesa e della canonica. Tra le mura in pietra che circondano un fazzoletto di terra riposa don Lorenzo Milani, «priore di Barbiana dal 1954» (nato il 27 maggio 1923 e morto il 26 giugno 1967). Poco più in là le tombe di Giulia Lastrucci e Eda Pelagatti, madre e figlia, che «seguirono don Lorenzo da Calenzano nell’esilio di Barbiana e condivisero con lui la parola di Dio e l’amore per i poveri». Il libro che impone una conversione A distanza di 40 anni da quel 26 giugno, la Libreria Editrice Fiorentina ristampa, a cura della Fondazione don Lorenzo Milani, la Lettera a una professoressa in un’edizione speciale contenente «uno spaccato del dibattito sui giornali e delle tante attestazioni arrivate negli anni», ma anche la prefazione mai pubblicata dell’architetto Giovanni Michelucci. A chiedergliela fu lo stesso don Milani e «Michelucci, sia pure tra qualche incertezza, accolse l’invito e scrisse una bozza di prefazione che però – spiega Sandra Gesualdi nell’introduzione – fu giudicata dai barbianesi troppo difficile nel linguaggio per il libro. Tentarono di semplificare il testo secondo il loro stile, ma non se la sentirono di proporlo all’architetto e preferirono rinunciare alla prefazione. La Lettera fu consegnata alle stampe nel maggio 1967. Don Lorenzo moriva un mese dopo».

laquo;In questa Scuola – scrive Michelucci ai “cari amici di Barbiana” – avete capito che il valore di un’opera sta nella sua umana (e poetica) verità, nella efficacia con la quale essa riesce ad interessare ad una effettiva partecipazione ai piccoli e grandi fatti della vita (da quelli quotidiani e a portata di tutti, fino a quelli che riguardano la cultura e lo spirito), come sta nella valutazione obbiettiva del rapporto esistente fra quei fatti stessi e la considerazione che essi trovano – o non trovano – nella società».

Certo colpiscono ancora oggi, nella Lettera, affermazioni del tipo: «Le maestre son come i preti e le puttane. Si innamorano alla svelta delle creature. Se poi le perdono non hanno tempo di piangere». Ma ciò non toglie che, come scrive l’editore Giannozzo Pucci, «chiunque si sia avvicinato a questo libro con un minimo di mancanza di pregiudizi non è rimasto immune da un bisogno di conversione personale”, anche perché “nel classismo di don Milani schierato coi poveri, c’è qualcosa di più di una teoria sociale o politica, qualcosa di più di una riforma istituzionale, c’è la radicalità dell’appartenenza a un Sovrano che ha emanato un decreto incancellabile secondo cui tutto ciò che sarà fatto a uno dei più piccoli sarà fatto a Lui».

Tempra d’acciaio e povertà radicale Ma com’era don Lorenzo Milani? Lo chiediamo al cardinale Silvano Piovanelli, oggi ottantatreenne, l’unico ancora vivo degli undici seminaristi fiorentini che cantarono Messa il 13 luglio 1947. «Quando lui entrò in seminario, nel novembre 1943 – racconta Piovanelli –, ci accorgemmo subito che entrava come convertito. La sua tempra era d’acciaio e il suo atteggiamento era radicale soprattutto nella povertà. Al posto del letto volle una branda. Le scarpe se le fece da solo ritagliandole da un fascione di motocicletta. Lui entrava dopo aver fatto un anno di università, mentre alcuni di noi erano lì già da 8 anni. Lui ne aveva 20, uno più di noi, ma soprattutto aveva un’esperienza diversa che si rifletteva anche nello studio. Il suo metodo era quello della ricerca mentre noi, al suo confronto, eravamo tutto sommato solo dei liceali. Un’altra cosa che ci colpì subito fu la sua sincerità spudorata, a partire da se stesso. Mi ricordo, ad esempio, che quando dette l’esame di Sacra Scrittura, non sapeva rispondere ad una domanda della commissione. Allora, il nostro professore, che era monsignor Bartoletti, gli suggerì la risposta. E lui: “Il professore mi ha detto cos셔. Era la verità. Perché non si deve dire la verità? Un altro episodio che testimonia la radicalità della sua scelta è quando morì suo padre. Il rettore lo mandò a casa e lui, la sera stessa, tornò in seminario. “Questa è la mia famiglia”, disse citando il Vangelo “Chi non lascia sua padre e sua madre…”. Al nostro interno lo apprezzavamo molto. Siamo stati sinceramenti amici. Certo ci appariva un po’ esagerato nelle sue posizioni. Ma poi, crescendo, acquisendo esperienza nella vita e anche assumendo delle responsabilità, mi sono sempre più convinto – ammette il cardinale – che l’esagerazione è la misura giusta. Noi siamo amati da Dio in modo esagerato e quindi la nostra risposta non può che essere esagerata. Mi sono accorto quindi che la sua esagerazione era solo coerenza evangelica. E mi sembra un esempio importante in questo nostro tempo in cui siamo chiamati a passare da un cristianesimo di tradizione a un cristianesimo di convinzione».

E oggi, in estrema sintesi, cosa rimane di don Milani? «Rimane – risponde Piovanelli – l’esempio di una scelta alta dei mezzi migliori per promuovere l’uomo affinché l’uomo sia libero di scegliere. Rimane la scelta dei poveri. Rimane la sua tensione pastorale alla missione. Rimane la sua fede, perché non si spiega don Milani se non come un prete che ha fede».

IL LIBRO

Il 26 giugno 1967, ad appena 44 anni, moriva don Lorenzo Milani. A 40 anni dalla morte, Edoardo Martinelli, suo allievo alla scuola di Barbiana dal ’64 al ’67, riporta alla luce i nuclei fondanti la pedagogia del priore attraverso la pubblicazione del libro (nella foto piccola sotto, la copertina) «Don Lorenzo Milani, dal motivo occasionale al motivo profondo» (Società Editrice Fiorentina, pp.166, euro 14), che riporta anche il testo integrale della «Lettera ai giudici». Don Milani adottò un metodo d’insegnamento nuovo, così come emerge dai ricordi del suo allievo, un metodo che ha nell’aderenza alla realtà e nel rapporto «maestro-allievo» il suo fulcro vitale. Una concezione rivoluzionaria della pratica d’insegnamento, che sostituiva al rigido nozionismo dei programmi ministeriali, all’ansia da prestazione, un modello di scuola libera e partecipata ma comunque fondata su regole rigorose nei metodi e nei comportamenti. Il racconto si fa angosciante, quando ci si chiede cosa resta oggi di tutto questo, oggi che la perdita di punti di riferimento insieme a modelli culturali di competitività e di consumo non lasciano posto se non raramente a quei valori di forte appartenenza tanto cari a don Milani e ai suoi allievi. Il maestro, il rivoluzionario, il figlio, l’amico, don Milani era tutto questo: toccante nel libro l’intervista alla madre che all’eventualità di una possibile canonizzazione del figlio risponde:«Non importa, altari o no, Lorenzo resta quello che è, e io non lo vedo diversamente da come l’ho sempre visto». Lorenzo, che sacrificò «senza sacrificio» la passione per l’arte per un’improvvisa vocazione, fu animato dal fuoco del suo amore per chi non aveva voce, ma anche dall’insofferenza verso le gerarchie e i formalismi. Come conclude Antonio Avitabile nella sua introduzione al libro, con l’amore e l’impegno don Milani tentò di rendere visibili sulla tela del creato anche coloro che non avevano gli strumenti e le opportunità di esprimersi. Fu questa forse la sua più concreta opera d’arte.

LE CELEBRAZIONI

I 40 anni dalla morte di don Lorenzo Milani la Fondazione omonima ha organizzato una serie di celebrazioni, precedute da un’edizione speciale della «Lettere a una professoressa» (Libreria Editrice Fiorentina, pp.166, euro 12). Questo sabato 5 maggio, dalle 9,30 alle 13, è in programma a Firenze (Palazzo Medici Riccardi) un convegno su «Don Lorenzo Milani e i valori costituzionali nell’educazione dei giovani» con gli interventi, di Matteo Renzi, di Michele Gesualdi, di Giulio Conticelli su «Don Lorenzo Milani e la Costituzione Repubblicana» e di Beniamino Deidda, procuratore generale di Trieste, su «Don Lorenzo Milani e i valori costituzionali come fondamento morale e civile nell’educazione dei giovani». Alle 13 le conclusioni del Ministro per i rapporti con il Parlamento,Vannino Chiti. Domenica 6 maggio, inaugurazione a Barbiana della mostra fotografica permanente «Barbiana: il silenzio diventa voce». Mercoledì 23 giugno convegno in Palazzo Vecchio su don Lorenzo e la comunicazione. La conclusione delle celebrazioni il 26 giugno a Barbiana con la Messa celebrata dal cardinale Ennio Antonelli.