Cultura & Società

L’«Acqua cheta» compie  un secolo

 

Tra gli anniversari che si festeggiano nel 2008 uno sta particolarmente a cuore a chi ama il teatro in generale e quello vernacolo in particolare. Compie cento anni L’acqua cheta, la commedia di Augusto Novelli che rinnovò profondamente il teatro fiorentino, portando sulla scena la vita di tutti i giorni e relegando in soffitta la maschera ormai consunta di Stenterello.

Tutto ebbe inizio la sera del 31 dicembre 1907. Al Teatro Alfieri di Firenze la cena di San Silvestro di quell’anno aveva un significato speciale: il capocomico Andrea Niccòli e la moglie, Garibalda Landini Niccòli, figlia di Raffaello Landini e di Anna da Caprile, anch’essi attori, stavano salutando tutti a causa della loro imminente partenza per il Sud America. Passò Augusto Novelli, già noto autore di teatro, direttore di giornale, socialista e letterato, e si unì alla allegra compagnia. Qualche bicchiere di troppo ed il sor’Augusto confessò: «Come ben sapete da anni coltivo e accarezzo l’idea di un teatro schiettamente fiorentino». «Gli è anche i’ mi’ sogno» pare abbia risposto Andrea Niccòli, Dreino per gli amici. Niccòli aveva già interpretato due commedie di Novelli scritte anni prima, ma con esito incerto. Augusto si infiammò: non più Stenterelli e Stenterellate, «ma una forma di arte vera, materiata col profumo delle nostre donne e dei nostri fiori». Il pubblico presente gli chiese in coro, applaudendo: «La commedia! La commedia tutta nostra!». Novelli promise allora a breve scadenza un atto unico, da collaudare in città e da esportare poi all’estero come biglietto da visita di Firenze nel mondo attraverso la sua vita quotidiana ed i suoi personaggi reali.

Dreino rimandò la partenza, il Novelli parve impazzito. Scriveva giorno e notte, pronto a cogliere quella che sapeva essere l’occasione della sua vita. Scrisse dovunque, perfino sui tavoli unti del vinaio Panerai in Piazza del Mercato Centrale; riesumò antichi ricordi per creare i suoi personaggi e girò con occhi attenti per le strade della città. Nacque così L’acqua cheta. La sora Rosa, la madre di famiglia, ebbe tratti della sua mamma, che era stiratrice; Cecco, il legnaiolino, che non nasconde le sue idee socialiste e che parla di Lega e di Camera del lavoro, richiamava il padre di Augusto, artigiano, ed era anche un po’ autobiografico, perché il futuro commediografo nella sua prima giovinezza aveva lavorato nella bottega paterna. L’«acqua cheta», l’Ida, richiama una cugina di questo nome, la «tattamea», quella che sta sempre zitta e non si sa mai ciò che pensa. Ulisse, il fiaccheraio di San Niccolò, Giovanni Cui, detto Stinchi, il bacalaro, l’avvocato e il reporter (tradotti in fiorentino: il «cavalocchi» e «i’ reporterre») facevano parte di «Firenze presa sul serio», un libro nel quale Novelli raccontava un giorno in città. Erano tre atti, non uno, come promesso; i Niccòli non fecero una piega e gli attori della compagnia, anche quelli che nelle commedie in lingua italiana parevano onesti teatranti, divennero bravissimi. Cominciarono a vivere la loro parte, non a recitarla.

Il 29 gennaio 1908 la commedia andò in scena: fu un successo clamoroso, travolgente, soprattutto per Garibalda Landini Niccòli, sora Rosa impagabile. Le repliche consecutive furono ventisei. La critica si divise. Ci fu chi approvò l’esperimento, chi lo accolse con garbato distacco, chi addirittura bollò come indegne della dignità del palcoscenico le vicende rappresentate – un fiaccheraio ed una stiratrice sulla scena – ; addirittura venne definito scurrile il linguaggio usato. Soprattutto una fu la battuta incriminata. Ida dà da mangiare alla cavalla del padre il radicchio posto nella tuba del medesimo; l’animale morde il cappello, parte essenziale della tenuta da lavoro dell’uomo. Il disastro è grande. Quando Rosa vede la tuba del marito mangiata esclama: «Vergine!» come invocazione alla Madonna. E questi replica: «La unn’era vergine, ma nemmen rovinata così». Fu uno scandalo, così come di profanazione si parlò per la lettura del Canto di Paolo e Francesca, fatta dal sor’Alfredo a Ida, Anita e Rosa e punteggiata dai commenti delle medesime. Il tempo ha dato ragione a Novelli e a cento anni di distanza, benché invecchiato, il testo mantiene il suo fascino di specchio di una Firenze scomparsa. È soprattutto importante sul piano della lingua, perché molto di quel linguaggio saporito, popolare è andato perduto.

Tutte le compagnie dialettali fiorentine, dirette dai Focardi, dalla Pasquini, dalla Checchi, dal Nannini, dalle Cei hanno messo in scena L’Acqua cheta, manifesto del teatro «nostrale», oggetto anche di una riduzione cinematografica. Dopo la Garibalda Niccòli, la sora Rosa migliore probabilmente è stata quella dell’indimenticabile Cesarina Cecconi, così come Alvaro Focardi è stato il «reporterre» per antonomasia. In una edizione televisiva del 1967 si ricorda addirittura Arnoldo Foà come sor’Ulisse: era fiorentino, Foà, e benché il suo repertorio consueto fosse tutt’altro, fu un fiaccheraio indimenticabile.

Il testo della commedia fu ridotto in versi dallo stesso Novelli nel 1920 e con la musica di Giuseppe Pietri, altro toscano dell’isola d’Elba, divenne l’operetta celeberrima, che si chiude con «Ona, ona, ona, oh che bella rificolona». Fu un parto travagliato, con problemi di alta «filologia fiorentina». In «Come è bello guidare i cavalli», si dice: «Poi dal taverniere, bevi un buon bicchiere, e col pien di Chianti, su a cassetta avanti, fila via cocchier». Novelli aveva scritto altro: «E poi da i’ vinaio, di bicchieri un paio…», perché a Firenze nessuno ha mai usato la parola taverniere. Pietri non si dette per vinto: di fronte ad un’altra proposta di Novelli: «poi dal vinattiere, bevi un buon bicchiere», sostenne il suo «taverniere» ed ancora oggi si canta così. Buon compleanno, dunque, Anita e Ida, Ulisse e Rosa, Stinchi e sor’Alfredo, buon compleanno Cecchino, legnaiolino socialista, amante della Bohème, sindacalmente impegnato, rappresentanti di una Firenze che ancora oggi ricordiamo con nostalgia. E grazie a lei, sor’Augusto!