Cultura & Società
Toscani di mare: i grandi viaggiatori/3
Continua il nostro viaggio tra i grandi navigatori toscani. Questa settimana ci occupiamo di Filippo Sassetti, di origine tedesca, ma stabilitosi nel castello dei Sassetta, in Maremma, e Francesco Carletti, grande navigatore fiorentino del Cinquecento.
di Francesco Giannoni
FRANCESCO SASSETTI, il navigatore amante del Sanscrito
La famiglia Sassetti aveva il «viaggio» nel sangue. Dalla Germania giunse in Toscana stabilendosi nella Sassetta, castello della Maremma pisana, da cui nel XIV secolo si trasferì a Firenze. Qui i suoi membri, accesi ghibellini, parteciparono alle lotte politiche dell’epoca.
In seguito si affermarono negli ambienti mercantili e finanziari: curarono gli interessi dei Medici, ne riceverono favori e ne divennero amici. Infatti Francesco, illustre, ricco e colto banchiere, è ritratto accanto a Lorenzo il Magnifico negli affreschi di Domenico Ghirlandaio nella cappella Sassetti in Santa Trinita a Firenze.
Come mercanti i Sassetti furono attivi a Lisbona, Barcellona, Montpellier, Avignone, Lione, Bruges, oltre che a Roma e a Milano. Alcuni divennero anche soldati: Tommaso militò per la regina d’Inghilterra; Carlo e Piero prestarono soccorso a Malta assediata dai turchi nel 1565. Entrambi morirono nel corso di quell’evento.
Giambattista (nipote di Francesco) era uomo di grande apertura mentale e di molteplici interessi: dai viaggi alle navigazioni, dalle indagini sulla lingua toscana alle dotte riflessioni sulle cause delle piene del Nilo. Da questo «terreno fertile» nel 1540 nacque Filippo, il navigatore.
Divenuto maggiorenne, si recò a Siviglia e a Lisbona per affari. Non ebbe fortuna. Affascinato dall’India, vi si recò all’inizio degli anni ’80, anche per incarico del granduca Francesco I che gli fornì capitali e gli impartì istruzioni per acquistare semi e oggetti preziosi.
Si stabilì a Goa, allora residenza del viceré delle Indie per il re del Portogallo. Filippo ebbe il «carico di assistere a tutto il negozio de’ pepi che d’India si navicano in Portogallo; negozio principalissimo di quel traffico, e tale che, doppo il viceré, lui era il primo uomo di quel reggimento».
Oltre a essere uomo d’affari (con interessi anche in estremo oriente), fu intellettuale e scrittore: fra le sue opere, una Vita di Francesco Ferrucci, un Percorso sulla Divina Commedia, una Poetica di Aristotele, tradotta e commentata in lingua toscana. Da «avventuroso giramondo» qual era, nelle lettere «racconta con curiosità quelle terre nuove: le stagioni e i colori dell’India, la scelta dei semi e delle piante da inviare al Granduca, l’elogio del cinnamoro».
Fra i primi a studiare il sanscrito, notò somiglianze tra vocaboli dell’antica lingua indiana e dell’italiano: per esempio deva con dio, sarpa con serpe, sapta con sette, ashta con otto, nava con nove. Le sue osservazioni hanno anticipato la scoperta del gruppo linguistico indoeuropeo.
Non amò solo la cultura letteraria ma anche quella scientifica: compì studi di carattere geografico, possedette preziosi strumenti matematici e astronomici che per testamento lasciò ai gesuiti, l’ordine colto e intellettuale per antonomasia.
Ebbe molti schiavi (ma d’altra parte allora era così) che tutti liberò alla sua morte, avvenuta a Goa nel 1588. A una schiava, Grazia Bengala, con cui aveva convissuto e da cui aveva avuto un figlio, lasciò 200 serafini (moneta portoghese); altri 1000 furono destinati all’educazione e alla formazione del bambino.
In quelle terre lontane, ancora da vivo, era conosciuto dagli indigeni come uomo tollerante e di larghe vedute. Una toccante testimonianza in merito ce la consegna Luigi Alamanni: Filippo era «amato e venerato sin tra barbare popolazioni, al punto che depredando alcuni corsari una nave portughese, domandarono se vi aveva sopra facultà alcuna di Filippo Sassetti e veduto che ve ne aveva, le rilasciarono, e commisero che gli fossero restituite, siccome furono, dicendo che portavano sopra la testa loro l’onore e la reverenza del suo nome».
Francesco Carletti: tre lustri di viaggi fantastici
Francesco Carletti nacque a Firenze nel 1573 da una ricca famiglia mercantile che ricoprì importanti ruoli nell’amministrazione pubblica. Ricevette una buona formazione culturale e morale. Ancora ragazzino, per farsi le ossa nel mondo del commercio, fu mandato dal padre, Antonio, a Siviglia dove da tempo vivevano e operavano mercanti e banchieri fiorentini. Il genitore lo raggiunse nella città spagnola da cui, nel 1592, partirono insieme per un quindicennio di viaggi d’affari in giro per il mondo.
Francesco si recò in Messico, Perù, Giappone, Cina, India, paesi di cui raccolse schizzi, impressioni e ricordi in un libro dedicato al granduca: «I Ragionamenti sopra le cose vedute nei viaggi delle Indie occidentali ed altri paesi».
Cerchiamo di immaginare quale fu lo stato d’animo di Francesco e quali emozioni provò. Un’avventura del genere, questa sorta di «grandissimo Tour», non toccava a molti sul finire del XVI secolo: era cosa rara. Lui non lo scrive chiaramente ma si intuisce la consapevolezza di aver goduto di cose straordinarie.
Si notano momenti di mestizia nella narrazione, soprattutto nei passi scritti nel periodo successivo alla morte del padre, avvenuta nel 1598. Però tutto quello che Francesco vedeva e viveva era «troppo eccitante e bello» per abbandonarsi alla tristezza e alla malinconia. O alla paura. Nonostante fosse normale che un viaggiatore su tre non tornasse, e per quanto grandi fossero i pericoli a bordo di una navicella di 20 metri, in balia delle onde dell’Oceano Indiano e del Mar cinese meridionale, forse Francesco non aveva timore, «stregato da mondi e da atmosfere ammalianti, incantato dalle donne giapponesi o da quelle indiane E Carletti era un ragazzo».
Oggi le imprese paragonabili a un viaggio del genere sono poche: non c’è più il fascino dell’ignoto, si conosce quasi tutto. È raffrontabile semmai a una sorta di «viaggio fantascientifico»: oggi dobbiamo andare al cinema per «provare un tipo di evasione che allora non era finzione, ma esisteva concretamente, ed era lì, davanti a un giovane di vent’anni» che fino al momento della partenza era andato a scuola o quasi. Probabilmente insieme a ogni alba sorgeva una nuova meraviglia, e il pericolo era dimenticato o messo da parte, di fronte a questo «cinema continuo».
L’atteggiamento del Carletti nei confronti degli indigeni è consono alla mentalità e alla cultura dell’epoca, e all’educazione ricevuta: li chiama «gentili» (cioè pagani), considera i giapponesi «selvaggi» per la pratica del suicidio; tuttavia in trecento pagine ci saranno sì e no cinquanta di righe di questo tenore. D’altra parte era un libro destinato al granduca, «doveva» avere una visione del mondo eurocentrica e cristiano-cattolica, non poteva essere un’opera di rottura. Ma di quei mondi affascinanti è così attento e preciso osservatore che pur criticandoli a tratti, ne è palese l’amore e il riguardo.
Questo sentimento e questo modo di comportarsi costituirono per Francesco una sorta di scudo nel suo lungo peregrinare: ebbe maniere educate e signorili, che si intonavano a quelle dei giapponesi, dei cinesi, degli indiani; non era un intemperante, rispettava le regole. In quei viaggi si moriva o perché si incorreva nelle tempeste o perché non ci si sapeva adeguare alle abitudini degli altri assumendo magari provocatori atteggiamenti di superiorità: scoppiava una rissa e ci scappava il morto. Carletti si distinse da tanti altri per questo: sapeva osservare, si comportava di conseguenza, evitava guai.
Nonostante ciò, quando finalmente decise di tornare a casa, durante il viaggio fu rapinato di quasi tutti i suoi averi da pirati olandesi. Rientrò povero, dunque. Ma il granduca, per tutte le fatiche sopportate e le traversie subite, ricompensò Francesco con un buon impiego a corte che però lo fece scivolare nell’anonimato fino alla morte, sopraggiunta nel 1636.