Cultura & Società

Padre Piccirillo, l’archeologo francescano del monte Nebo

di Franco Cardini

Non c’è nulla che sia meno obiettivo e più disomogeneo del tempo. Fernand Braudel ha detto una volta che se uno sostiene che il tempo è un’entità omogenea, obiettiva, perfettamente misurabile significa che non ha mai fatto all’amore e non è mai stato dal dentista. C’è gente che campa mille anni e più ed è come se non fosse mai esistita, come se fosse nata morta. E gente che vive pochissimo e che sa riempire la sua vita di tante di quelle cose da renderla lunghissima. C’è una longevità spirituale che, quando la incontri in un familiare o in un amico, illumina anche la tua vita, per sempre.

Michele Piccirillo se n’è andato a sessantaquattr’anni, e le necrologie dei giornali hanno sostenuto concordi che la sua è stata una scomparsa “immatura”. La vita si è senza dubbio allungata di parecchio, negli ultimi tempi: e tuttavia, si può davvero sostenere che un ultrasessantenne sia poi così giovane per morire?

Stando alle statistiche, sì. Ma qui le statistiche non c’entrano. Il fatto è che Michele ha riempito la sua vita di tante cose, di tanti tesori, di tanta luce, che tutto sembra esser passato in un attimo. E non ci si rassegna all’idea che sia morto. E pensando a quel che ha realizzato, a quel che ha scritto, a quel che ha scoperto, a quel che ha vissuto, si ha la sensazione che sia ancora tra noi, che non posssa andarsene, che non sia morto. Che non morirà mai. Che sia imortale.

E’ questa la sensazione che ho provato lunedì pomeriggio, il 27 ottobre, nella chiesa livornese della Madonna – la chiesa dei francescani e della Custodia di Terrasanta -, mentre assistevo alle esequie di Michele. Quando è entrata la sua semplice bara di legno chiaro, ho avuto una stretta al cuore. Mi è dispiaciuto di non poterlo vedere un’ultima volta, di non poterlo sfiorare in un estremo saluto. Avevo rimandato di giorno in giorno un incontro con lui: in fondo, la distanza tra Firenze e Livorno è breve. Così, rinviavo all’occasione di poterlo vedere più a lungo, di poterci parlare con calma: si hanno sempre tante cose da fare. E, nell’attesa, lui se n’è andato. Inaspettatamente, certo: sapevamo che la sua malattia era grave, ma nessuno prevedeva una fine tanto rapida. In fondo, è stato meglio così, hanno detto i medici: ma di non averlo abbracciato un’ultima volta, io non potrò mai perdonarmi.

Eppure, mentre l’ufficio funebre procedeva, sentivo la tristezza gradualmente attenuarsi: non dico certo fino a scomparire, tuttavia una progressiva calma m’invadeva. Ho ripensato alla bellezza della liturgia latina, a quell’altissimo, trionfale In Paradisum deducant te angeli, e me lo sono quasi figurato, padre Michele, il mio fratello Michele, nella gloria di Dio. Il Cristo ha sconfitto la morte; e nel Cristo anche Michele l’ha sconfitta. In quella bara non c’è altro che una povera spoglia che un giorno risorgerà trasformata in un Corpo di Gloria. Non dobbiamo più cercare tra i morti chi vive e vivrà per sempre. Non dobbiamo più avere paura.

Michele Piccirillo era nato a Carinola di Caserta, nel 1944. Era legatissimo al suo bel paese natale, alla sua numerosa e rumorosa, cordialissima famiglia: e, quando tornava da Carinola a Gerusalemme, al suo convento della Flagellazione dove aveva sede lo Studium Biblicum Franciscanum, non mancava mai di portarsi dietro una bella valigiata di mozzarelle fresche del suo paese. Ma non dimenticava mai di essere uno studioso: e, per meglio onorare Carinola, le dedicò la preziosa edizione del diario di viaggio che alla fine del Trecento era stato scritto da un suo concittadino, il notaio Nicola Martoni, che aveva peregrinato fino a Gerusalemme.

L’interesse per la storia del pellegrinaggio alla Città Santa e per gli edifici sacri di essa, a cominciare dalla basilica gerosolimitana della Resurrezione e per l’edicola del Santo Seplocro ch’essa custodisce, era una parte cospicua del suo lavoro di storico, di filologo e di archeologo; aveva mutuato tale interesse dal suo Maestro, padre Bellarmino Bagatti, attento editore di testi trecenteschi di pellegrinaggio come quello del suo confratello francescano, Nicolò da Poggibonsi. E allo studio della storia della basilica affiancava anche quello della devozione dei Luoghi Santi in Occidente, dove la grande chiesa detta “del Santo Sepolcro” era stata più volte riprodotta, specie in età medievale, in più modi e fatta oggetto di un culto sostitutivo del pellegrinaggio. Questo specifico aspetto della spiritualità cristiana occidentale lo aveva molto attratto specie negli ultimi tempi: e in tale studio lo aveva affiancato una sua brillante allieva italiana, Renata Salvarani. L’ultimo libro di Michele Piccirillo parla proprio di questo, ed è un libro curioso oltre che prezioso: il suo principale argomento, difatti, è costituito dai modellini in legno d’olivo e madreperla della chiesa e dell’edicola del Sepolcro, da sempre gloria dell’umile e raffinatissimo artigianato dei palestinesi soprattutto di Betlemme. Ora che le circostanze politiche hanno erso tutto più duro, e che il turismo langue, quell’artigianato rischia di eprdersi e con esso rischia di svanire la prosperità di tante famiglie, al maggior parte cristiane, ma anche musulmane. Il libro di Michele era destinato a far conoscere questo problema, a sostener quegli artigiani, a far sopravvivere quella tradizione.

E’ solo un esempio, tra i molti che si potrebbero fare, di una passione scientifica e intellettuale che non era mai andata disgiunta dall’impegno sacerdotale, dall’apostolato francescanamente inteso anzitutto come testimonianza, da un coraggio civico che talvolta gli aveva procurato anche qualche problema nella difficile situazione della Gerusalemme dei tempi d’oggi. Piccirillo era uomo di carità, ma odiava il compromesso e amava la verità: non era dunque raro che entrasse in polemica con chiunque cercasse di adulterarla.

Eppure, non aveva nemici: al contrario. Lavorava in un àmbito geografico amplissimo, tra Israele, Libano, Siria, Giordania e anche Egitto. Circolava sempre liberamente, anche nei tempi di tensione: conosceva tutti ai passi di confine e ai posti di blocco; era amico di uomini politici arabi e di uomini di governo israeliani e li trattava da pari a pari, era di casa alla corte del re di Giordania, era stato amicissimo dell’indimenticabile re Hussein e molti membri della casa reale avevano imparato da lui gli elementi di base della storia e dell’archeologia.

Ma insomma, chi era Michele Piccirillo?

Per rispondere adeguatamente, sarebbe necessario fare la storia della prestigiosa Custodia Francescana di Terrasanta, che dalla metà del Trecento opera nel Vicino Oriente facendo opera di testimonianza cristiana e di carità, studiando, assistendo i cristiani locali, i pellegrini, gli ammalati, e mantenendo al tempo stesso relazioni strette e cordiali con le comunità cristiane locali, con gli ebrei, con i musulmani.

A partire dai primi del secolo scorso, il lavoro scientifico in seno alla Custodia è andato precisandosi e facendosi più rigoroso. Merito precipuo di ciò è stato di una splendida pattuglia di frati studiosi e avventurieri, veri e propri pionieri dell’archeologia cristiana di Terrasanta. Loro guida un francescano nato presso Pisa, Bellarmino Bagatti, vissuto tra 1905 e 1990. studioso straordinario dell’archeologia del Nuovo Testamento, delle comunità giudeo-cristiane, del cristianesimo vicino-orientale dell’età patristica. Accanto a lui, si dovrebbe fare una lunga serie di nomi: i padri Corbo, Alliata, De Sandoli e tanti altri, che hanno gestito nei molti e non sempre facili decenni del secolo scorso, e continuano a farlo, una quantità incredibile di scoperte in campo archeologico e storico.

Michele Piccirillo, arrivato giovanissimo in Terresanta, fu l’allievo prediletto di padre Bagatti. A Piccirillo si deve la scoperta di una quantità di chiese protocristiane soprattutto dei secoli V-VIII in tutto il Vicino Oriente e addirittura di un’intera, favolosa città carovaniera “perduta”, Castrum Mefa’a, quella che per gli arabi era Umm ar-Razas. L’aspetto più affascinante e per così dire scenografico delle scoperte di Piccirillo è costituito da centinaia di metri quadrati di prezioso tappeti musivi, la pubblicazione dei quali lo ha reso famoso in tutto il mondo.

Ma il suo capolavoro è stato il cantiere del Monte Nebo, l’imponente sperone roccioso che domina il deserto giordano, le “steppe di Moab”, e dal quale si domina il meraviglioso oasi creato dal Giordano che si getta nel Mar Morto. Da lì, nelle sere limpide, si scorgono da lontano le luci di Gerusalemme.

Fu dal Nebo (il “Monte del Profeta”, in arabo al-Jabal an-Nabi) che secondo la tradizione il profeta Mosè contemplò prima di chiudere gli occhi la Terra Promessa. Lì, in età costantiniana, sorse una grande basilica a lui dedicata. Padre Piccirillo stava lavorando da molti decenni a far rinascere quella basilica: ne aveva fatto uno splendido santuario-museo, attorno a cui aveva raccolto decine e decine di mosaici restaurati e accanto al quale aveva organizzato un convento-ospizio-laboratorio-biblioteca sotto la vigna adiacente al quale, nelle sere d’estate, ricordo di aver consumato con Michele molte lunghe, semplici, bellissime cene spesso allietate dalle mozzarelle di Carinola, dal pecorino e dal vino che ci eravamo portati dalla Toscana (coincidenza: un grande amico di Michele e mio, padre Rodolfo Cetoloni, è diventato vescovo di Pienza e di Montepulciano, capitali appunto del cacio e del vino rosso…). Ricordo estati bellissime di molti anni fa al Monte Nebo, insieme con tanti amici come Guido e Anna Vannini, Francesco Bandini, Luigi Marino, Massimo Papi e altri che sarebbero tutti degni d’esssere ricordati ma che sarebbe qui lungo richiamare uno der uno; una volta, venne con noi anche mia figlia Chiara, allora diciannovenne. Con Chiara tornai più tardi una volta a Gerusalemme, insieme con suo figlio ( e mio nipote) Dario, che di Michele diventò grande amico. E con Michele incontravo i miei due fraterni amici ebrei di Gerusalemme, Simonetta della Seta (oggi diretttrice dell’istituto di Cultura di Tel Aviv) e suo marito Massimo Torrefranca, ai quali debbo una cena di seder ch’è e resterà per sempre fra i più bei ricordi della mia vita.

Fu proprio al Nebo che una sera d’inizio settembre, tardi, davanti all’ultimo goccio di vino prima di andar a dormire (al mattino, verso le sei, ci svegliava il rombo di due caccia israeliani ai quali avevamo ormai fatto l’abitudine), dissi a Michele che se avessi potuto scegliere un posto dove trascorrere gli ultimi anni della mia vecchiaia, quello sarebbe stato proprio lì, sulla montagna di Mosè, vicino alla sua uva e ai suoi mosaici. Gli chiesi: “Mi aiuterai a venir qui? Guarda che dico sul serio”. Mi guardò, sorrise e rispose: “Bisogna andare dove Dio ci manda”.Dio ha disposto che lasciasse questa vita qui, nella mia Toscana, a pochi chilometri dal paese di Perignano dove, più di un secolo fa, era nato il suo Maestro Bellarmino Bagatti. Che gran tessitore di trame esistenziali, che gran romanziere, è il Signore! Ma le spoglie di Michele torneranno là, a Gerusalemme.

Credo che a Michele dedicheranno delle piazze e delle strade. Mi adopererò per far sì che accada. Ma il suo monumento sarà per sempre là, sulla montagna del Nebo. Ricordate la scritta che a piazzale Michelangiolo ricorda Giuseppe Poggi? “Volgetevi intorno. Questo è il suo monumento”. Quando salirete il Nebo, quando sarete sulla cima del monte di Mosè, volgetevi intorno. Quello è il monumento a Michele Piccirillo, studioso, archeologo, prete, francescano.