Cultura & Società
I santi cefalofori, diffusione di un simbolo oscuro
di Carlo Lapucci
Le le leggende lasciano più volte perplessi, quelle dei santi cefalofori, vale a dire che dopo la decapitazione raccolgono la propria testa e la portano tra le braccia per un tratto anche lungo, fino al punto nel quale sorgerà poi la chiesa che ne raccoglierà le spoglie, sono sconcertanti. Anch’io, di fronte ai primi casi conosciuti avevo ascritto a una devozione ingenua e facilona i racconti che spesso di trovano nelle varie passiones dei martiri. Poi, accorgendomi che il fenomeno non si limita a qualche caso isolato (in Toscana ne abbiamo almeno due) ho cominciato a prendere in considerazione questo luogo comune e a considerarlo non dal punto di vista della storia, ma dal punto di vista della leggenda, che implica ben diverse considerazioni.
Si deve tener conto che la leggenda sta in una categoria diversa da quella della storia. Si dice giustamente che una figura di grande importanza, che è già nella storia, entra nella leggenda, ossia attinge a una dimensione in cui è inevitabile, e per certi aspetti legittima, l’amplificazione e la glorificazione illimitata delle sue gesta e del suo valore: l’entusiasmo travolge i dati storici. Così avviene per Alessandro Magno e anche in negativo per Nerone. La leggenda interviene non a comunicare un fatto storico, tanto meno ad accreditarlo, ma ad esprimere, mediante quel fatto amplificato o inventato, un pensiero condiviso dalla comunità che esprime la leggenda, la ripete e la diffonde. Questo è il modo di considerare la leggenda, la quale naturalmente spesso nasconde anche una verità e fatti storici: non si costruisce mai sul nulla.
Tenendo conto di questi criteri, cercando le origini di questa tradizione si incontra subito la figura di un grande santo, forse il più grande: San Giovanni Battista. È lui la figura più illustre ad essere raffigurata sorreggendo la testa. L’iconografia vi ha certamente detto la sua: raffigurare una persona senza testa pone problemi quasi insolubili; raffigurarla con la testa in terra credo che sia un calvario per un pittore e quindi, oltre al classico bacile con la testa mozza, si trovano immagini del Precursore con la testa tra le braccia. Questo forse ha fatto nascere la diceria che anche Giovanni abbia raccolto la propria testa da solo.
C’è poi un’altra grande figura che dopo la morte ebbe il culto di Santo e tale è considerato tuttora, anche se non compare nel Calendario liturgico rinnovato, ed è Anicio Manlio Torquato Severino Boezio (476-525), grande sapiente e filosofo, ministro di Teodorico e da questi barbaramente martirizzato a Pavia. La sua fine viene narrata in due versioni. Il Liber pontificalis (590) riferisce che venne decapitato con la spada, mentre l’Anonimo valesiano rifacendosi a testi della seconda metà del VI secolo narra che il re mandò alla prigione Eusebio con degli armigeri che gli legarono intorno alla fronte un capestro e lo strinsero fino a farne uscire gli occhi e poi lo finirono.
Un elemento è comune alle due versioni: il tiranno infierì soprattutto su quella testa che non era riuscito a domare, per cui la fece stringere e spezzare con una corda. A Pavia, dove si celebra la sua festa il 23 ottobre e nella cui cattedrale si conservano le spoglie corre la leggenda (che si rifà alla prima versione) che Boezio, decapitato dal carnefice, prese la sua testa e la portò lentamente verso la chiesa di San Pietro in ciel d’oro. Entrato nel tempio la depose sopra una panca mettendosi in preghiera.
Boezio mette sulla strada per capire il motivo ricorrente, portando all’attenzione sulla testa e sul supplizio. Teodorico aveva stimato e onorato il suo ministro, ma s’infuriò quando dissentì e non ubbidì ai suoi ordini, per cui concentrò la rabbia sulla testa, ritenuta la sede dell’intelligenza e del volere: la sfigurò, o la tagliò, seguendo l’idea primitiva del supplizio che di solito nella scelta seguiva oscuri principi magici e figure simboliche. Nell’uccidere i cristiani, come i tiranni i propri nemici, o i mafiosi coloro che li ostacolano, non si usano sempre gli stessi mezzi, ma secondo un rituale macabro si scelgono i più appropriati, come fanno i suicidi che usano i modi che esprimono il tipo della loro tragedia. La decapitazione ha come intento l’annientamento totale del condannato separando la sede del pensiero da quella dell’azione, riducendo alla demenza, all’assurdo l’essere umano, come dice l’immagine popolare: come una mosca senza capo.
Secondo quanto si credeva questo non solo impediva all’anima d’uscire col respiro per la via naturale della bocca restando per sempre insanguinata, ma stravolgeva l’essere anche nell’aldilà. Ciò era riservato soprattutto ai re che venivano di solito decapitati e alle persone potenti o di un certo livello intellettuale delle quali si voleva cancellare ogni possibile influsso che potessero esercitare dal mondo dei morti.
Del resto nei supplizi dei martiri si nota l’intenzione dei carnefici di colpire la vittima proprio nelle sue qualità. Le sante, ad esempio, se giovani e belle sono colpite proprio nella loro bellezza che viene deturpata strappando i capelli, cavando gli occhi, tagliando le mammelle, oppure straziate con ruote, pettini. Nei santi si nota la stessa attenzione nella scelta dei supplizi e la spada, il pugnale, arrivano quando non sono serviti l’annegamento, il fuoco, le ustioni, il freddo.
A Firenze s’incontra forse il più antico santo cefaloforo: San Miniato, la cui festa si celebra il 25 ottobre. Pare che sul colle, dove oggi si trovano la Basilica di San Miniato e il cimitero monumentale delle Porte Sante, ci fosse, nei primi tempi del Cristianesimo, il cimitero cristiano e, nelle vicinanze, la grotta dove viveva eremita Miniato. Trasportando la propria testa mozza per un lungo tratto, dalla città al colle, si dice che là voleva essere sepolto, evitando la dispersione delle proprie spoglie. Miniato morì durante la persecuzione di Decio, verso il 250 d. C. (G. M. Brocchi, Vite de’ Santi e Beati fiorentini).
Anche in questo caso si nota che si tratta di una figura di grande rilievo: si dice che Miniato fosse di stirpe regale e, scorrendo il nostro elenco, si trova in Toscana la tradizione di un altro santo cefaloforo. Al museo diocesano di Pienza c’è una statua, in legno intagliato, policromo, rappresentante San Regolo che ha in mano la sua testa in atto di parlare: ha infatti la bocca semiaperta. Santo vescovo, venerato un tempo nelle zone circonvicine, San Regolo, la cui festa si celebra il 1 settembre, è uno dei Santi africani, il più anziano del manipolo di coloro che si dettero a evangelizzare la Toscana, subì il martirio a Populonia, sotto Totila, re degli Ostrogoti, sconfitto da Narsete e morto nel 552. Il suo martirio avvenne probabilmente in zona costiera e la leggenda si è trasferita in un luogo del suo culto.
La figura più nota e più celebrata tra i cefalofori è certamente San Dionigi, nato a Roma, che fu missionario nelle Gallie e primo vescovo di Parigi, decapitato sotto Decio con Rustico ed Eleuterio. È stata fatta confusione tra questo santo con Dionigi l’Areopagita che incontrò San Paolo ad Atene, equivoco che si trova anche nella Legenda aurea. La sua festa si celebra il 9 di ottobre e le spoglie riposano nel luogo dove portò la sua testa dove fu costruita l’abbazia di Saint-Denis che divenne sepoltura dei re di Francia.
Anche S. Emidio, nato a Treviri, decapitato ad Ascoli, fu vescovo e dopo l’esecuzione della condanna raccolse la propria testa e la portò in un vicino luogo di culto procedendo per circa trecento passi (Diario Sacro, Thiene 1860). S. Cutberto, che fu vescovo, è raffigurato mentre porta in mano la testa coronata di Sant’Osvaldo, re di Northumbria, la testa del quale è conservata proprio nella bara di San Cutberto a Durham. Anche Eucario, Lamberto di Liegi, Nicasio di Reims, Regolo, Revérien di Autun, Gaudenzio furono vescovi. Tra le donne si nota che Gwenfrewi fu badessa di Gwythering nel Clwyd; che fosse nobile si dice di Sativola che fu decapitata con una falce; Osith fu una principessa sassone.
Soprattutto colpisce che la leggenda sia sorta su Caterina d’Alessandria, principessa dottissima. Si vuole che sia stata di stirpe regale, figlia del re Costa, e comunque d’una famiglia nobilissima e ricca, che fino dall’infanzia abbia perduto i genitori quindi, cresciuta indipendente e nella possibilità di scegliere la propria vita, si dedicò allo studio, circondandosi di sapienti ed eruditi, diventando dottissima soprattutto nella filosofia e nella religione. Era, oltre che di grande ingegno, una giovane bellissima, richiesta in sposa dagli uomini più importanti della città d’Alessandria. L’imperatore romano, giunto nella città e conosciuto il suo valore, decise che la donna sostenesse le sue idee davanti a una commissione di cinquanta filosofi. L’argomento era che Cristo, essendo morto crocifisso, non poteva essere Dio. In tale incontro rifulse la mente di Caterina che, oltre a controbattere i loro ragionamenti, convertì al cristianesimo tutti i suoi contraddittori.
Sembra chiaro che il santo cefaloforo sia quasi sempre, a cominciare da Giovanni Battista e sull’indicazione di Boezio, una persona di pensiero, una mente illuminata che riflette, insegna e guida una comunità, un’autorità riconosciuta che predica dalla sua cattedra come i vescovi: sono infatti tutte persone di un certo livello intellettuale alle quali è riservato il simbolico taglio della testa, quasi per annientare la mente e la persona con un gesto irrevocabile che tronca un’esistenza fisica, intellettuale e spirituale.
A questo risponde nel proprio linguaggio la leggenda che, forte della fede nella comunione dei santi e nella vita eterna, nega il valore implicito in questo gesto dicendo: no, la testa è troncata, ma l’essere continua a vivere. Le due parti rimangono in comunicazione e il messaggio continua ad espandersi nel mondo, nella memoria e nella vita eterna. La decapitazione ha spento la vita fisica, ma non quella spirituale: nella volontà del santo e in quella divina la testa continua a far parte della persona e ormai per sempre. Un lungo discorso, un grande atto di fede, un’affermazione dello spirito e della trascendenza in una semplice appendice leggendaria che trionfa della sopraffazione e della violenza.
Anche il salto della testa sul terreno, da cui sgorga una fontana, elemento proprio di tante figure di martiri, come nel caso di San Sano a Siena, oppure addirittura tre fontane come nel caso della decapitazione di San Paolo, segue la stessa linea di pensiero: la testa tagliata, con tutto quello che aveva pensato, voluto e amato, non muore, ma cadendo resta viva e continua a spandere intorno la parola, l’esempio, l’azione come aveva fatto durante la vita del santo. Molto significativa è l’immagine di S. Regolo di Pienza in cui la testa, nelle braccia del martire, continua la sua predica fino alla conclusione.
Potrà sembrare un po’ goffa come rappresentazione, ma bisogna mettersi dal punto di vista di chi ama l’estetica, ma più ancora desidera comunicare il suo pensiero e non dispone di altri mezzi che l’immagine. Questa sintesi rappresentativa che elude ogni logica e ogni convenzione rappresentativa la troviamo nei disegni dei primitivi, che rappresentano un animale con sei zampe per indicare che sta correndo, e anche nei disegni dei bambini non ancora scolarizzati che stravolgono le figure forzandole a significare il loro pensiero, facendo piccole figure coloro che non amano e grandissime quelle alle quali vogliono bene.