Cultura & Società

Internet, quali regole per la rete?

di Mauro Banchini

Chissà se la signora ha gradito. Fossi stato meno timido glielo avrei chiesto al dott. Antonello Busetto, rappresentante di Confindustria alla riunione dell’Igf (International Governance Forum Italia) che si è svolta a Pisa per indagare sul futuro di internet.

All’inizio di settembre la signora Busetto ha compiuto i suoi primi cinquant’anni e il marito cosa ha pensato di regalarle? Busetto esibisce il regalo («Sapete cos’è questo?») proprio all’inizio del suo intervento pisano e siccome, in aula, io devo essere l’unico che non lo sa, ho proprio l’impressione che domanda e risposta siano dedicate al sottoscritto. Per farla breve, Busetto – alla signora arrivata a un traguardo così importante («l’ho acquistato negli States perché da noi ancora non se ne trovano») – ha regalato un e-reader: dispositivo per leggere libri e giornali in formato digitale che, attraverso la magia del touch screen, consente di sfogliarle davvero quelle pagine sulle quali le nostre generazioni, da secoli, si sono formate e che, nel futuro, potrebbero – chissà – scomparire del tutto. Dentro i miracoli dei testi in formato digitale.

Il fatto che l’e-reader adesso ce l’abbia lui, il Busetto, mi fa dubitare circa l’effettivo gradimento da parte della signora. Forse il regalo piaceva più al marito che a lei.

Fatti privati dei coniugi Busetto, ma il microscopico episodio può essere preso ad emblema di una iniziativa («Quali regole per la rete») che in tre giorni (dal 5 al 7 ottobre) ha riunito a Pisa universitari e politici, ricercatori e tecnici, esponenti della società civile e uno come me (ripeto: l’unico che in sala non ci capisse nulla) alla vigilia della prossima riunione di Igf mondiale che si terrà, in novembre, in un posticino non male (Sharm El Sheikh) su iniziativa del governo egiziano e sotto l’egida Onu.

Si è parlato di molte cose, nell’auditorium Cnr di Pisa (città scelta non a caso: fu qui, esattamente 50 anni fa, che nacque il primo computer italiano. Allora, con l’eredità di Enrico Fermi, il nostro Paese era davvero all’avanguardia sulle tecnologie e la macchina nata sui lungarni si chiamava CEP: calcolatrice elettronica pisana. Grande come un campo da tennis e alta come un frigorifero poteva, a malapena, svolgere qualche milionesimo delle funzioni oggi possibili con un modesto computer portatile). Si è parlato di sicurezza nella rete, libertà di espressione, anonimato e privacy, diritto d’autore e reti sociali.

In assenza di quello che gli esperti chiamano «nuovo sistema regolatore», internet rischia il collasso né più né meno com’è capitato all’economia mondiale. Siamo, per dirne una, alla vigilia di un nuovo accordo fra il Dipartimento del Commercio Usa e l’Icann (l’organismo internazionale che sovrintendi ai domini, cioè agli indirizzi sul web): finora l’accordo sancisce, in pratica, il controllo degli Stati Uniti d’America sulla rete. Chi l’ha detto che anche in futuro debba essere così? Può esistere un governo mondiale, e democratico, del web in un futuro di enormi mutamenti tecnologici?

I laboratori di tutto il mondo (compresi i pisani) sono al lavoro per realizzare l’internet del futuro, la ragnatela di servizi di nuova generazione che promette di rivoluzionare in modo ancora più radicale il rapporto fra utenti e informazioni. Il contesto numerico è impressionante: secondo dati dell’Unione Europea oggi gli utenti che nel mondo sono collegati alla rete di internet sono oltre un miliardo e 600 milioni. Neppure dieci anni fa erano «appena» 360 milioni.

A proliferare è stata, in particolare, la funzione di internet tramite cellulari e dispositivi mobili: 570 i milioni di telefonini oggi, nel mondo, capaci di connettersi a internet e dal 2006 il numero dei navigatori mobili è raddoppiato con la concreta prospettiva che in un triennio le connessioni alla rete via cellulare e wi-fi supereranno quelle tramite rete cablata. Tutto questo – ecco il punto – ha comunque bisogno di «un adeguato sistema di governance». Detto in altre parole occorrono regole nuove davanti a problemi continuamente nuovi. Ciò naturalmente vale anche per l’Italia dove in 45 su 100 siamo connessi alla rete. Ed è evidente come, in Italia e nel mondo, non manchino i problemi del digital divide: le persone che non sanno o non possono usare la rete. I nuovi analfabeti.

Un solo esempio dal web 2.0: l’evoluzione del primo web, quello non interattivo, con cui tutti facciamo ogni giorno i conti. Prendiamo, dal web 2.0, il fenomeno che più appassiona: lo scambio continuo di conversazioni fra utenti («amici» così bisogna chiamarli) di Facebook, Twitter o altri gruppi analoghi. Dove vanno a finire tutte le conversazioni, le informazioni, i dati che – di noi «amici» in rete – raccontano agli altri tutto ma proprio tutto? Quando ci scambiamo gusti e abitudini, opinioni e taglie, quando confessiamo al mondo se ci piace la cioccolata o il lampredotto, se tifiamo Fiorentina o Juventus, se crediamo in Cristo o in nessuno, quando ci lasciamo andare a opinioni su Obama o su Osama, se ci sfugge in quale banca abbiamo la carta di credito o per chi abbiamo votato alle ultime elezioni eccetera eccetera, tutto questo finisce nel dimenticatoio o rimane chiuso in cassetti che qualcuno (il proprietario dei cassetti) un giorno potrà, a suo giudizio, decidere se aprire, se divulgare, se offrire (o, meglio, vendere) a qualcun altro magari interessato, con i nostri dati, a farci del marketing?

E quelle immagini che così innocentemente ci scambiamo in rete – la nipotina che fa il primo passo, io che mangio una sacher intera, lei che prende il sole addormentata, l’amico che fa una smorfia – quelle immagini dove finiscono? Qualcuno potrà riutilizzarle o, magari, manipolarle? E per quanti anni quella notizia che mi riguarda o quell’opinione che ho espresso e che è finita su un motore di ricerca, continuerà a essere visibile sulla rete? Per sempre? E se magari, nel frattempo, ho cambiato opinione? Esiste o no un diritto all’oblio? È tecnicamente possibile filtrare, cioè oscurare, un sito paranazista che inneggi a un ipotetico diritto alla Shoah che Adolf Hitler avrebbe avuto? Come si rapporta, nella rete, la libertà di espressione con il diritto-dovere alla sicurezza? È possibile un equilibrio?

Nelle famose «reti sociali» (gli «sdoganamenti» delle un tempo deprecate chat) cosa esattamente è «pubblico» e cosa è «privato»? Come fare se, su un social network, qualcuno apre un account con il nostro nome compiendo un vero e proprio «furto d’identità»? Se è capitato al prefetto Antonio Manganelli (il capo della Polizia, che non è su Facebook ma qualcuno, sostituendosi a lui, ce lo ha infilato parlando a nome suo. Lo ha raccontato Domenico Vulpiani, dirigente generale della Polizia ed esperto di crimini sul web), se è successo al capo della Polizia, come può non succedere a chiunque fra noi?

E cosa fare davanti a ingiurie, minacce, diffamazioni (quello che ormai si chiama cyber stalking) portate attraverso l’anonimato della rete? Davvero, come ha paradossalmente detto il responsabile relazioni istituzionali di Google Italia, Marco Pancini, in un web che oggi non è più del provider ma è di tutti noi, «il modo migliore per battere un Paese totalitario non è bombardarlo con le armi ma invaderlo con il web»?

Si è parlato, a Pisa, di tutto questo (da ignorante ho, ad esempio, scoperto che nessun filtraggio è tecnicamente possibile nella rete. Non si possono oscurare, se non nel caso che lo voglia lo stesso utente, come nel caso dei siti pedo-pornografici. Neppure in Cina, dove come noto esiste una fortissima censura di Stato ma dove, volendo, ogni tentativo di filtraggio è comunque destinato a essere aggirato).

Ne hanno parlato anche alcuni politici. L’udc Giampiero D’Alia (nei mesi scorsi l’uomo più «odiato» dai blogger: aveva presentato un emendamento, poi ritirato, per inserire l’obbligo di filtraggio preventivo nelle comunicazioni web) ha chiesto un luogo internazionale per il governo della rete.

Il forzista Antonio Palmieri («Anche nel web debbono valere le leggi che guidano il vivere civile: si alla libertà di espressione, no al diritto all’insulto») ha anche introdotto una delle possibili chiavi di lettura in una «sfida educativa» da non perdere («le persone vanno aiutate a essere consapevoli e libere di padroneggiare la tecnica senza esserne schiave»).

Ha parlato il pd Vincenzo Vita illustrando una sua proposta di legge tesa a «garantire un accesso neutrale alle reti di comunicazione elettronica». Ed è stato Vita a ricordare quanto sia «inaccettabile» che ogni collegamento in rete attraverso – ad esempio – Facebook «diventi proprietà proprio di Facebook» con i rischi intuibili laddove, ad esempio, «i miei dati, le mie foto, fossero venduti a scopi commerciali».

Terreno insidiosissimo. Anche Luigi Vimercati (pd) ha chiesto più attenzione per la formazione degli utenti («Dentro una moderna educazione civica occorrerebbe insegnare, ai ragazzi ma non solo a loro, come usare in modo critico i social network senza esserne usati») ma anche regole nuove per le cosiddette attività di «profilazione»: cioè quei meccanismi con cui quali i nostri dati personali e privati vengono elaborati da specifici programmi e messi a disposizione dei settori commerciali di aziende.

Per tematiche così complesse, conclusioni facili non esistono o almeno sono male sintetizzabili al di là dei saggi su riviste specializzate. Personalmente sono uscito con una opinione rafforzata: non vedo perché, su Facebook o Twitter, diventare «amico» di tizio o di caio quando tizio o caio – diciamolo con franchezza – non saranno mai miei «amici» (se a questo concetto si vuole dare un significato autentico e pesante) e quando, in qualche parte del mondo, un grande orecchio e un grande occhio di un grande vecchio dal grande portafoglio catturano ciò che ho scritto e lo rivendono per farci soldi a mie spese.

Per la serie: mi iscriverò a un social network solo quando qualcuno mi riconoscerà il disturbo. In altri termini: voglio essere pagato.

Blog e legge sulla stampaInternet è, ormai, l’ultimo media libero rimasto in Italia». Parola di Vittorio Bertola, di ISOC: una società di esperti sul futuro della rete. Magari non è vero, magari è solo un paradosso, ma Bertola ha fatto presente che lui («come, ormai, tantissimi anche fra gli italiani») i giornali in carta stampata non li legge più («quasi più») preferendo trovare le notizie in presa diretta o sui siti on line dei quotidiani o fra i blogger. E a proposito di blogger, a Pisa si è anche discusso un aspetto, legato ad alcune proposte di legge parlamentari: è giusto applicare ai blog le norme della legge sulla stampa (compresa la registrazione della testata o l’affidamento della direzione a un giornalista iscritto all’Ordine e compreso anche l’obbligo di rettifica)? L’anagrafe degli elettiAlzi la mano chi ricorda i politici che ciascuno di noi ha contribuito a eleggere, dal Parlamento Europeo al Comune o, dove esiste, alla Circoscrizione. In Italia ce ne sono almeno 140 mila: sono gli uomini e le donne cui abbiamo delegato, con un voto teoricamente consapevole, il compito di governare la cosa pubblica. Normalmente accade ciò che non dovrebbe accadere: gli eletti sono abbandonati alla loro buona – o cattiva – volontà e pochissimi, fra i cittadini, si preoccupano di seguire come gli eletti interpretino la delega. Frequentano le aule parlamentari o comunali? Sono assenteisti? Firmano proposte di legge e quali? Presentano interrogazioni e quante? Intervengono o stanno zitti? Hanno rapporti con lobbies e quali? Il web 2.0 consente di essere informati anche su questo. E permette interattività fino a ieri impensabili. C’è, ad esempio, un sito (www.openpolis.it) che consente a ciascuno di noi di farsi una motivata opinione su come il ceto politico da noi eletto si comporta. Ne ha parlato, a Pisa, Vittorio Alvino illustrando anche un secondo spazio (www.openparlamento.it) di cui è responsabile insieme a un gruppo di amici. Con un lavoro prezioso, hanno «messo mano» ai siti istituzionali (da Senato e Camera in giù. Siti non sempre facilmente consultabili) utilizzando il modello Wikipedia, cioè chiedendo la partecipazione diretta dei cittadini (a oggi sono circa 9 mila i cittadini comuni che hanno «adottato» almeno un politico, tenendo aggiornate le informazioni che lo riguardano). Si scrive il nome di un Comune e si hanno subito informazioni dirette, aggiornate, sulle concrete attività degli amministratori. Idem per i due rami del Parlamento dove, ad esempio, è possibile trovare dati non sempre facilmente reperibili sul parlamentare che ci interessa: percentuali di presenze e assenze, indice di attività parlamentare, voti «ribelli» (cioè espressi contro le indicazioni del gruppo politico), atti su cui sta lavorando, interessi seguiti. Ma non finisce qui: grazie al web 2.0 si può essere interattivi al massimo, cioè si può monitorare e «adottare» uno o più politici esprimendo opinioni e valutazioni sul rispettivo lavoro, ricordando le promesse elettorali e così via. Una vera e propria anagrafe degli eletti. Un modo utile per usare le tecnologie a servizio di una vita democratica che, non dimentichiamolo, si basa sulla trasparenza dell’eletto e sulla possibilità, nell’elettore, di avere informazioni. Per esercitare un consenso davvero informato. Agente LisaE’ stata la prima polizia in Europa e la terza nel mondo a usare questo sistema che fornisce informazioni (sul rinnovo dei passaporti) attraverso la messaggeria istantanea. È la Polizia di Stato italiana che, circa sei mesi fa, ha lanciato «Agente Lisa». Trattasi di una poliziotta virtuale, un «bot» (cioè un mezzo robot): dà informazioni 24 ore su 24, sette giorni su sette, sulle modalità di rilascio, rinnovo, visto dei passaporti. Lo fa con l’istant messaging di Microsoft (pare siano 11 milioni gli italiani in contatto attraverso questo sistema) con un indirizzo (agente.lisa@poliziadistato.it) che nel futuro potrebbe avere funzionalità ancora più larghe. Lo ha spiegato, al convegno pisano del Cnr, il dirigente della Polizia di Stato Domenico Vulpiani.