Cultura & Società
A vent’anni dalla caduta del Muro di Berlino
di Romanello Cantini
Per una singolare coincidenza il 9 novembre 1989, lo stesso giorno in cui crollava il muro di Berlino, usciva a New York il libro di Francis Fukuyama «La fine della storia». Secondo il professore americano nel conflitto fra democrazia e totalitarismo la democrazia ormai aveva vinto per sempre e con il dilagare progressivo e inevitabile del sistema liberale in tutto il pianeta sarebbero terminati i conflitti e sarebbe cominciata l’era lunga della pace. A conclusioni non molto diverse giungeva il libro «Il passato di un’illusione» di Francois Furet uscito sei anni dopo. Secondo lo storico francese trionfava ormai la tesi dei liberali dell’Ottocento per cui Mercurio avrebbe sostituito Marte. Il commercio pacifico fra gli stati a economia liberale avrebbe reso la guerra solo un cattivo affare. Rovesciando la tesi di Lenin ora era il capitalismo trionfante che partoriva la pace.
Questi sono solo alcuni esempi delle smisurate speranze che il crollo del muro di Berlino e la fine della guerra fredda provocarono venti anni fa. La divisione di Berlino non era solo un taglio sulla pancia di una città lungo 155 chilometri. Era il simbolo del meridiano materiale che per quaranta anni aveva spaccato il pianeta in due fra lo spicchio comunista e lo spicchio capitalista.
E, poiché ormai da mezzo secolo si era abituati a considerare ogni guerra nel mondo come un match in terza persona fra Usa e Urss, appariva evidente che una volta che la seconda era deceduta non ci sarebbe stata più partita. Il miracolo di un impero immenso crollato senza preavviso, senza nemmeno in fondo sapere bene per colpa o per merito di chi, autorizzava ogni sogno anche il più spericolato. Mstislav Rostropovic che l’11 novembre a Berlino suonava il suo violoncello come se fosse la tromba di Gerico davanti al muro che crollava rendeva bene l’idea delle immaginazioni quasi millenaristiche che poteva spalancare una rivoluzione gigantesca, pacifica e quasi miracolosa fatta da poeti e da profeti: dal drammaturgo Waclav Havel che aveva mobilitato i cechi, al musicista Kurt Masur che si era messo alla testa dei cortei tedeschi, al papa Wojtyla che aveva dato forza agli operai polacchi.
Soprattutto nei primi due anni dopo la caduta del muro arrivarono tuttavia anche i frutti della pace. Nel novembre 1991 i rappresentanti afgani giunti a Mosca per negoziare la fine di una guerra che durava da dodici anni scambiarono le foto dei loro bambini mutilati dalle mine con le foto dei loro figli caduti che gli offrivano i russi. Anche le guerriglie sostenute fino ad allora dalle due superpotenze si spensero quasi contemporaneamente l’una dopo l’altra. Nel 1991 Castro, non più sorretto dagli aiuti russi aveva ritirato gli ultimi soldati cubani dall’Angola e dal Congo. Nello stesso anno fu firmata a Parigi la pace fra le quattro fazioni che da più di dieci anni si combattevano in Cambogia e la pace fra la fazione filorussa e la fazione filoamericana che in Angola si scontravano da sedici anni mentre a Roma si firmava il cessate il fuoco per il Mozambico. In America latina finirono le guerriglie nel Nicaragua e nel San Salvador con gli ex-capi guerriglieri che ora si presentavano alle elezioni. Ciò che sopravviveva della grande ondata rivoluzionaria degli Anni Sessanta in America Latina, come le Farc in Colombia e Sendero luminoso in Perù non aveva più uno straccio di bandiera ideale sotto cui mettersi e si orientava sempre più verso la criminalità pura.
In quel periodo ci fu anche l’unica riduzione nelle spese degli armamenti degli ultimi sessanta anni. Dopo aver raggiunto il suo picco massimo nel 1985 con una spesa globale di 1300 miliardi di dollari la spesa mondiale in armi scese a 867 miliardi di dollari nell’anno della caduta del muro di Berlino. Con l’accordo di Parigi del novembre 1990 fra Bush senior e Gorbaciov il numero dei mezzi corazzati e dei cannoni dei due blocchi furono tagliati per circa la metà. Dopo quarantacinque anni di paralisi anche l’Onu sembrava tornare a funzionare persino con una forza esagerata. Per la guerra contro Saddam Hussein che aveva invaso il Kuwait il Palazzo di vetro riuscì a mettere insieme un esercito di trequarti di milione di uomini provenienti da trentaquattro paesi.
Ma ben presto ci si accorse che ai grandi sogni bisognava applicare uno sconto notevole. Da allora la democrazia ha fatto certamente dei passi avanti nel mondo. Ma in Russia ha fatto addirittura marcia indietro. Con il massacro di Tienammen che segue di poco il crollo del Muro la Cina dimostrò che prima di aprire le porte alla democrazia preferiva fare entrare in casa il capitalismo.
Anche la guerra riprende ben presto in altre forme e in altri luoghi. Non ci si scontra più in nome del socialismo o del liberalismo, ma per qualcosa di più vecchio. In nome del nazionalismo nelle guerre jugoslave degli ultimi venti anni del secolo scorso. In nome della razza nel genocidio che fa ottocentomila morti in Rwanda nel 1994. In nome della tribù, della violenza pura e della più brutale libidine di potere nelle guerre che negli ultimi cinque anni del Novecento fanno cinque milioni di morti nel Corno d’Africa. Anche l’Onu cessa di nuovo di funzionare negli Anni Novanta. Da Srebrenica, da Mogadiscio, dal Rwanda l’Onu diserta addirittura con ignominia. Poi dopo l’11 settembre riprende anche la corsa agli armamenti. Dal 1999 al 2008 gli Stati Uniti aumentano la loro spesa militare del 45 per cento. La Russia e la Cina quasi la triplicano. Nel 2008 si tornano a spendere 1464 miliardi in armi. Solo l’arrivo di Obama alla Casa Bianca ha posto fine al progetto dei missili antimissili di Bush e alle ritorsioni di Putin con la minaccia di costruire un supermissile e di denunciare gli accordi di disarmo della fine della guerra fredda. Se in Europa è tornata la calma e la collaborazione la pace è di nuovo da inventare con buona parte del mondo islamico a cominciare dall’Iraq e dall’Afghanistan.
Achille Occhetto, l’allora segretario del partito comunista, vide alla televisione il piccone che demoliva il muro il 10 novembre mentre era a Strasburgo e gli vennero le lacrime agli occhi. Due giorni dopo alla Bolognina, la sezione più rossa di tutta la rossa Bologna, Occhetto annunciava che il partito non si sarebbe chiamato più partito comunista. Quella sera Cossutta non riuscì a cenare perché gli iscritti che gli telefonavano indignati non gli davano tregua. Nel febbraio 1991 al Congresso di Rimini nasce comunque dalle ceneri del Pci il Partito Democratico della Sinistra. Cossutta con buona parte degli ingraiani se ne va e dà vita a Rifondazione Comunista. Nel nuovo partito di Occhetto si parla soprattutto di riformismo e di socialdemocrazia, due parole a cui negli Anni Settanta si ricorreva nelle sezioni solo quando si voleva passare alle offese grosse. Ma il partito di Occhetto non è più, nemmeno dal punto di vista numerico, il partito di Berlinguer che venti anni prima prendeva il 35 per cento dei voti. Alle elezioni del 1992 Occhetto si ferma al 16 per cento. Cossutta al 5.
… così cominciò la fine della prima Repubblica
di Ennio Cicali
Tutto è in discussione mentre misteri, scandali, «toppe peggiori del buco» avviliscono nel 1989 la vita della Prima Repubblica. Molti episodi contribuiscono ad accrescere il distacco fra le forze politiche e la società civile. Il crollo del muro di Berlino trova i maggiori politici italiani Democrazia cristiana e Partito comunista alle prese con una crisi strisciante. In crisi anche i piccoli partiti: politicamente inesistenti i liberali, screditati i socialdemocratici, sempre meno influenti i repubblicani.
Nella Democrazia cristiana è definitivamente sconfitto il progetto di De Mita di fare della Dc un partito nuovo, sottratto ai condizionamenti dei notabili dorotei. Nessun segretario dc ha avuto tanto potere per così lungo tempo, ma i risultati sono deludenti. Ancora una volta la tendenza al cambiamento che tante volte ha affascinato molte componenti della Dc, specie la sinistra, naufraga per l’aspra lotta tra le correnti. Nel febbraio De Mita cede a Forlani la guida della Dc e il 22 luglio ad Andreotti quella del governo. È nato il Caf (l’asse Andreotti Craxi Forlani) che coinciderà con la fine della Prima Repubblica.
Acque agitate anche nel Pci, dove il segretario Achille Occhetto cerca di portare il partito verso le posizioni più avanzate della socialdemocrazia europea. Nel lungo periodo che va dal congresso del marzo 1989 al 9 novembre, il giorno della famosa riunione della Bolognina con l’annuncio del cambiamento del nome e della linea politica, il Pci è dilaniato dalle lotte interne. Il dibattito dilaga dal centro alla periferia, nelle sezioni e nelle case del popolo, generando sgomento negli iscritti, si sgretolano le «granitiche certezze» che per 45 anni sono state il «cemento» del Pci. Nasce la «Cosa», poi Pds (partito democratico della sinistra) che avrà per simbolo una quercia, è l’inizio della rivoluzione botanica della politica italiana, seguiranno ulivi, girasoli e margherite.
C’è un terzo protagonista sulla scena politica: è il Partito socialista che sotto la guida di Bettino Craxi sfrutta la propria posizione di partito-chiave per la formazione delle coalizioni di governo. Grazie al ruolo determinante il Psi è penetrato profondamente nel sistema pubblico e parapubblico di accesso alle risorse, traendone grandi benefici. Posizione che tuttavia non si ripercuote sui risultati elettorali, non andrà mai oltre il 16% dei voti, ben lontano da Dc e Pci.
Anche le elezioni svoltesi nel 1989, amministrative ed europee, denotano la sostanziale immobilità del quadro politico, pur con risultati altalenanti che premiano o penalizzano i tre partiti maggiori.
All’orizzonte si profila il referendum per l’abolizione del voto di preferenza multiplo nell’elezione della Camera dei deputati, ritenuto all’origine della corruzione e del voto di scambio. Si svolge nel 1991 e chiede agli elettori se vogliono limitare il numero delle preferenze dalle esistenti tre o quattro a una sola. La maggioranza assoluta degli elettori, il 95,6% dei votanti, è a favore dell’abolizione della preferenza multipla. Le successive elezioni del 1992 rivelano lo scontento degli italiani verso i partiti tradizionali. Tangentopoli è alle porte.
Il testimone: Padre Reati, quando la ferita di un popolo guarì in una notte
di Caterina Guidi
«Il filo spinato si incarnisce lentamente dentro la pelle, nel petto e nelle gambe, nel cervello, nella materia grigia. Cinto dal filo spinato, il nostro paese è un’isola, circondata da onde di piombo». Con queste parole il cantautore e poeta Wolf Biermann esprimeva il dramma del popolo tedesco nei giorni della costruzione del muro di Berlino. Era il 13 agosto del 1961. «Quel muro sono andato tante volte a vederlo era davvero una ferita per il paese e per le famiglie. Nel tracciarlo avevano abbattuto senza pietà gli edifici, tagliato in due case, quartieri, perfino cimiteri. La gente, dalla parte ovest, saliva su delle impalcature e guardava al di là, sperando di scorgere un padre, un figlio, una moglie, e poter mandare loro un saluto», racconta a «Toscana Oggi» padre Emilio Fiorenzo Reati, frate francescano che ha vissuto a Berlino in quel fatidico 1989. «Mi trovavo là per i miei studi di filosofia. Vivevo nel nostro convento di Berlino ovest, proprio a poche centinaia di metri dal muro, e visitavo spesso anche la zona est, sempre per ragioni di studio. La gente scappava verso l’Occidente in tutti i modi; nel 1989 solo un emigrante su 10 lasciò la DDR con un permesso di espatrio regolare; gli altri lo fecero clandestinamente. Molti fuggivano in Austria attraverso l’Ungheria, che aveva aderito alla convenzione internazionale per la protezione dei rifugiati».
Annota in quei giorni sul suo diario padre Reati: «per il 7 maggio ’89 sono previste le ultime elezioni con un partito unico nella DDR. Ma i cittadini dell’est hanno già espresso il loro voto con i piedi». Sì: fuggendo. L’emorragia verso ovest andava fermata, ma come? La storia sta restituendo, lentamente, con i suoi tempi, la verità su quei giorni. Padre Fiorenzo ebbe all’epoca la possibilità di leggere le notizie direttamente sul «Sozialistisches Volksblatt», il giornale legato al partito socialista unificato che governava la Germania est. «In ottobre racconta ancora padre Reati a capo del governo andò Egon Krenz, sostenitore di una linea morbida verso gli emigranti. Ma Krenz rispondeva a Mosca: fu Gorbacëv ad avere l’ultima parola, rispondendo ufficialmente il 2 novembre che la cosa migliore era togliere di mezzo il muro. E a farlo doveva essere il governo tedesco orientale, evitando in ogni modo l’uso della forza».
Il resto è noto: Berlino est venne letteralmente invasa da manifestanti che reclamavano a gran voce l’abbattimento del muro. «I cittadini della DDR non accettavano i compromessi che il governo offriva loro, come la possibilità di recarsi liberamente a Berlino ovest, passeggiare sul Kurfürstendamm la via dello shopping con soldi che il partito avrebbe messo a disposizione per fare spese. La folla era matura politicamente; sapevano quel che volevano: il loro non era un capriccio».
Padre Fiorenzo ricorda alcuni degli slogan di quei giorni: «libertà in patria più che libertà di espatrio»; «questa è la nostra terra» e «noi siamo il popolo». Al primo cenno di debole assenso da parte del ministro della propaganda Günter Schabowski decine di migliaia di berlinesi iniziarono l’abbattimento del muro. Senza violenza; senza sparare un solo colpo di fucile. «Ricordo l’incontro con i confratelli francescani dell’est, per la prima volta dopo tanti anni. Loro vivevano in pieno isolamento, erano oltre cortina. Non avevano neppure conoscenza di quanto emerso dal Concilio Vaticano II. La mattina seguente celebrammo la messa tutti assieme, noi del convento di Berlino ovest e loro di Berlino est: molti confratelli piangevano. In tutte le chiese cattoliche e protestanti ci furono preghiere con una grande partecipazione soprattutto di giovani e studenti. Le campane suonavano a festa! In quei giorni la Chiesa fu unita e determinata nel sostenere i manifestanti, esortandoli sempre a fare un’opposizione matura, pacifica e democratica».