Cultura & Società

I vescovi e la sepoltura

Una «Porta della luce» per giungere «attraverso la luce oltre la porta»

Un varco che si apre. Nel muro, o nella lastra tombale. Una «Porta della luce», perché, come ha spiegato il vescovo di Prato Gastone Simoni, «attraverso la luce, oltre la porta, quest’opera ci dice che la nostra vita non finisce con quella terrena».

È il monumento sepolcrale dei Vescovi di Prato, benedetto sabato 5 dicembre nella cattedrale di S. Stefano, in prossimità del quinto anniversario della morte di mons. Pietro Fiordelli, primo Vescovo residenziale. Una «pala» d’acciaio forgiata nel fuoco che Pino Spagnulo, uno dei principali scultori italiani, ha realizzato per le tombe dei Pastori pratesi.

«La Porta della luce» è un’opera imponente – 2,40 metri di base per 3,37 di altezza, quasi dieci tonnellate di peso – collocata nella navata di sinistra del Duomo, come monumentale richiamo al sottostante sepolcro episcopale. Una grande lastra, segnata da un tau profondo che quasi fa intravedere l’apertura di una porta; poggia su un piccolo bastione a piedistallo, ed è solcata nel retro dalla luce: segni essenziali, perché come ha ricordato Spagnulo, «quando un artista affronta i temi della vita e della morte non può che approdare all’assoluta semplificazione dell’idea». Spiega don Giuseppe Billi, responsabile diocesano per l’arte sacra e noto critico d’arte: «La porta della luce» è un «parallelepipedo di ferro rugato da lunghi solchi, come pietra basilare per una “costruzione vivente”».

Quella voluta dalla Chiesa pratese è un’operazione ormai più unica che rara nel panorama delle cattedrali e delle diocesi italiane: in secoli di storia hanno tutte trovato una sistemazione alle tombe dei loro Pastori. Prato, invece, pur essendo diocesi dal 1653, questo problema non se l’era mai posto: i suoi 23 Vescovi avevano guidato contemporaneamente anche la vicina Diocesi di Pistoia, e in questa città avevano risieduto ed erano stati sepolti. Fino al 1954, quando Pio XII nominò il primo Vescovo residenziale per la Diocesi, l’allora giovane mons. Pietro Fiordelli da Città di Castello (Perugia). Scomparso a 88 anni nel 2004, con all’attivo ben 37 anni di episcopato, Fiordelli fu inumato sotto il pavimento della cattedrale. Ora il sepolcro trova definitiva sistemazione con la grande pala di Spagnulo.

«Trovo felice – ha spiegato il vescovo Simoni – la scelta dell’artista, perché l’opera corrisponde molto chiaramente al senso che della morte hanno i cristiani». Quasi schermendosi, mons. Simoni ha sottolineato come l’opera d’arte «non vuole costituire un monumento né a mons. Fiordelli né ai suoi successori, quanto ribadire la fede di tutta la Chiesa nella Resurrezione».

L’opera – è stato ricordato dal Vicario generale nonché primicerio del Capitolo mons. Eligio Francioni – si colloca accanto ad altre installazioni d’arte contemporanea: Emilio Greco e, soprattutto, Robert Morris, il padre del minimalismo americano, cui si devono il nuovo altare e l’ambone del duomo. «Nova et vetera», come ha sottolineato ancora mons. Simoni. Accanto ai capolavori di Donatello, Paolo Uccello e Filippo Lippi (solo per citare alcuni dei più importanti artisti che hanno lavorato nel Duomo pratese) i segni del contemporaneo – spiega il vescovo di Prato – «sono frutti rappresentativi di un’arte che, senza disconoscere o umiliare la tradizione, esprime i doni perenni della nostra fede con modulazioni nuove, all’insegna dell’odierna sensibilità artistica».

Gianni RossiPastori e popolo sempre vicinidi Franco Cardini

C’è un fatto, che di solito si trascura, e che pure dimostra come il cristianesimo rappresenti una rivoluzione profonda non solo rispetto al mondo ellenistico-romano nel quale nacque e dal quale senza dubbio ha ereditato molte cose, non solo rispetto all’ebraismo e all’Islam che pure gli sono fedi sorelle, ma anche – si potrebbe forse dire – rispetto a tutti i culti religiosi mai esistiti nella lunga storia dell’intero genere umano.

La morte è unanimemente ritenuta, dall’essere umano, un accadimento innaturale. Da qui, schematizzando largamente, il fatto che il corpo morto, il cadavere, sia avvertito come un’entità «altra»: degno magari di venerazione o di adorazione, comunque circondato da un senso di sgomento e di terrore. Il cadavere è «sacro» nel senso appunto a tale aggettivo sostantivato proposto da un grande studioso, Rudolf Otto, che ha definito il Sacro come ganz Anderes, totalmente altro. Esso va imbalsamato per preservarne la corruzione oppure nascosto nelle sepolture, o messo a disseccarsi all’aria aperta in aree inaccessibili come vediamo nei culti sciamanici centroasiatici (e native Americans), ancora all’aria aperta ma esposto alle intemperie e agli animali dell’aria per venir distrutto nella tradizione mazdea ormai proibita nell’Iran musulmano – anche per evidenti motivi igienici – ma invece ancora viva a Bombay. Il contatto con il cadavere è in molte culture contaminante; e ne è addirittura la vista. Allo stesso modo, ne è di solito vietata la dispersione e la dissezione: da qui il divieto della rimozione dei sepolcri e del loro contenuto nel diritto romano (tuttavia modificato quando l’impero si fu cristianizzato, per ovvi motivi) e l’orrore sia grecoromano sia ebraico per le reliquie corporee. Infine, i complessi sepolcrali di molte civiltà anche remote e per quanto ne sappiamo estranee tra loro sono «necropoli», letteralmente «città dei morti»; e in ebraico la necropoli è la «casa della vita», non tanto data la fede nella finale resurrezione dei corpi – che nell’ebraismo originario non era condivisa dai sadducei – quanto perché si tratta di un vero e proprio eufemismo per evitare la menzione di quanto è legato alla dipartita degli esseri umani. Va da sé che riti e credenze a carattere magico si mischiano a questi divieti e finiscono col giustificarli.

Non c’è dubbio che, a livello folklorico, parecchie di queste forme di orrore e di superstizione siano passate nel cristianesimo, provenendo dalle tradizioni più diverse che, in alcuni casi, le Chiese storiche hanno, se certo non incoraggiato, quanto meno accolto e tollerato nei limiti del possibile. Ciò appartiene ai residui d’una rivoluzione che, purtroppo, è ancora lungi dall’essere stata perfetta: per colpa non del cristianesimo, bensì dei cristiani.

Tuttavia, e fino dai primissimi tempi, i fedeli del Cristo che ha sconfitto la morte non hanno avuto bisogno di reciproche segregazioni tra vivi e morti, data l’inanità della morte: alle necropoli si sono sostituiti i cimiteri, termine greco che vale per «dormitorio», luogo nel quale si riposa in attesa del risveglio e della vita eterna. Se a partire dalla fine del Settecento la cultura illuministica ha saldato la sua tensione verso il progresso e l’igiene (i cimiteri urbani e le sepolture nelle chiese non erano certo cose salubri: e le ricorrenti epidemie fra XIV e XVIII secolo l’avevano dimostrato) con il suo più o meno implicito anticristianesimo, facendo risorgere – anche dal punto di vista stilistico – le «necropoli» suburbane, e tutto ciò ha finito col venir accettato dalle Chiese storiche, il principio cristiano resta fondamentalmente quello della «comunione dei santi»: tutti coloro che sono in grazia di Dio e fanno parte del corpo mistico del Cristo, la Chiesa, vivono insieme, fisicamente viventi o defunti che siano. Nessuna paura, dunque: e nessuna distinzione. Nelle chiese o nelle aree cimiteriali ad esse adiacenti, le sepolture fanno silente ma confortante (e non paurosa) compagnia ai vivi.

Dopo il IV secolo, è invalso l’uso di seppellire i morti dentro o attorno alle chiese. In esso, la volontà primaria era quella di recuperare, ricostituire e mantenere le comunità, unite nonostante e al di là della morte. Dei santi, si veneravano le reliquie, tra le quali erano primarie le corporee: il che significava anzitutto venerarne la sepoltura. Ma nelle nostre chiese cattedrali, accanto e il più vicino possibile al santo patrono, un posto d’onore spettava e continua a spettare ai vari capi della diocesi che  in esse si sono succeduti. L’esempio e il modello è dato dalla basilica pontificia di San Pietro, che tuttavia non è la cattedrale romana, la quale s’identifica com’è noto nella chiesa di San Giovanni Evangelista.

Ecco perché a Roma si ha l’«anomalia» di una doppia sepoltura dei vescovi dell’arcidiocesi patriarcale: la maggior parte dei papi riposa, in quanto capi della Cristianità, in Vaticano, ma alcuni stanno invece in San Giovanni (rara la presenza di papi e di «antipapi» in altre chiese della Cristianità occidentali). In questo caso, l’uso romano non è, nemmeno nelle chiese cattoliche, esemplare: esso si conforma al contrario alla normale tradizione diocesana, che vuole i vescovi per sempre vicini al loro popolo. Un uso da conservare e da valorizzare; ma soprattutto, oggi, da intendere a fondo, al fine di recuperare quelle radici tradizionali che tanto spesso e con tanta leggerezza s’invocano mentre, in realtà, l’ignoranza e la leggerezza  tanto teologica quanto liturgica dei fedeli le ha recise, ed è necessario riannodarle e restaurarle.

Nella foto, l’Urna di San Cerbone nella cattedrale di Massa Marittima