Cultura & Società
Tradizioni natalizie, il dono del lupo e altre leggende
di Carlo Lapucci
Le leggende popolari, che hanno come tema il Natale nel momento del primo terrestre contatto di Cristo con gli uomini, non smentiscono la capacità della gente semplice di cogliere nel segno fondamentale della vicenda, seguendo il racconto evangelico e sviluppando i temi che in esso sono suggeriti.
La riflessione collettiva pare avere individuato nella narrazione della Notte Santa un elemento essenziale: l’annuncio della Salvezza eterna, al quale corrisponde l’offerta d’un dono. Se si guarda il Presepio è facile vedere che ogni statuetta rappresenta nel suo abbigliamento e nel gesto un’attività umana e ogni attività rappresenta se stessa con il frutto del suo lavoro che in una quantità simbolica ogni figura depone ai pedi di Cristo.
Al dono smisurato, divino del riscatto dal male e dalla morte l’uomo offre riconoscente a sua volta il modesto frutto del suo lavoro e delle sue fatiche: il pastore il latte, il mugnaio la farina, il contadino i prodotti della terra, il fornaio il pane, la massaia le uova, la tessitrice la stoffa, il pescatore i pesci e così come nel corteo delle opere, l’uomo porta il frutto delle proprie mani, non certo come compenso dell’immenso bene ricevuto, ma come simbolo della sua volontà, del poco che ognuno sa fare con l’onestà, l’impegno, la fede che si aggiungono al molto ed essenziale che Cristo dona all’umanità.
È meraviglioso il formarsi di questo discorso sia nel Presepio reale, della capannuccia familiare con i vari personaggi, sia nell’altro Presepio che sta nella memoria, fatto con le parole e condensato nelle vecchie leggende della gente: due linee espressive su uno stesso discorso. L’umanità inondata dalla Grazia del Salvatore si muove verso di lui rispondendo con il riconoscimento della sua divinità, quindi con l’amore e il segno della gratitudine che sta in quei poveri doni, modesti, ma fondamentali perché sono la prova che l’anima, investita dalla Grazia, accetta la Salvezza e dona ciò che ha.
Accanto ai racconti di struttura elementare che narrano come pastori, contadini, artigiani depongano semplicemente la loro offerta davanti alla cuna, ve ne sono altri di natura più complessa che scoprono i pensieri, le situazioni particolari e le difficoltà dei personaggi scandagliandone l’animo e la disposizione verso il grande evento.
Questa storia della povera donna che andò alla capanna a offrire l’olio, la sola cosa preziosa che aveva, indica che il sentimento ha una valore superiore a quello della offerta concreta.
Spesso però il dono che fanno i visitatori della capanna va oltre le loro possibilità, ovvero tale privazione costituisce un grave sacrificio per cui la Vergine, o Giuseppe, o lo stesso Bambino fanno a loro volta un dono di ritorno al visitatore, per cui si può chiamare veramente la notte dei doni.
La notte che nacque Gesù vide passare in alto gli angeli e intese i loro canti, per cui si fece sulla strada venendo a sapere che la gente andava verso la grotta. Ci volle andare anche lui, ma cerca cerca nella bottega non trovò che un vecchio bacile di rame tutto ammaccato, unico che gli era rimasto. Lo lavò, lo restaurò alla meglio e andò a offrirlo, un po’ vergognoso a Maria la quale lo prese subito e, tolta l’acqua calda dal fuoco, fece il bagno al Bambino.
A volte la devozione si unisce alla leggenda e una realtà naturale nasce dalla volontà soprannaturale, oppure qualcosa si trasforma al contatto col divino. Molte sono le leggende di fondazione che hanno come tempo la Natività, ovvero la Crocifissione. L’amore per il Salvatore trasfigura le piante, gli animali, lascia segni indelebili sul manto delle bestie, sulle piume degli uccelli, guarisce i malati, ridona la pace ai tormentati. Il rifiuto della Salvezza invece degrada, deforma, abbrutisce, segna come a fuoco lasciando per sempre il ricordo di quella colpa. Ma tutto si attua nella forma di un dono: nel caso positivo è un ritorno di un beneficio per la persona e spesso si estende all’umanità come nella profacola che segue.
Ma quello che non fanno i Vangeli, ovvero si trova più nei Sinottici, è di chiamare a partecipare alla salvezza insieme agli uomini anche le altre creature e così vediamo il presepio popolarsi di animali che anche loro vanno verso la cuna del Bambino, e le leggende narrando delle bestie né più né meno che se fossero esseri umani, sensibili e ansiosi del grande evento.
Questa notazione ha un grande valore: nella visione dell’uomo semplice il riscatto dell’uomo è il riscatto del mondo intero: è tutta la Creazione che entra nella luce di Cristo lasciando le tenebre del male e dell’errore.
È la storia della Rosa di Gerico che forse è giunta a noi dall’Oriente. Su questa pianta c’è un po’di confusione essendo poco nota. Spesso le leggende assimilano la rosa di Gerico (Anastatica hierocuntica) alle nostre piante di rose, creando un fiore fantastico. La pianta giunta in Europa al tempo delle Crociate, portandosi dietro probabilmente un embrione della leggenda, è igrometrica ed è detta nell’Italia centrale anche Rosa della Madonna.
Nei deserti d’Arabia, di Siria e d’Algeria, dopo la fioritura lascia cadere le foglie contraendosi a palla per la siccità e si stacca dal terreno. Trascinata dal vento, rotola qua e là, verso zone umide o verso il mare, dove, per l’umidità, si distende cambiando in verde il colore marrone. Questo può avvenire molte volte e a ogni nuova apertura cresce la sua dimensione che inizialmente è come il pugno d’una mano. È detta anche pianta della Resurrezione.
Questo groviglio che serra i frutti viene strappato alla terra dalle raffiche di vento del deserto, che la fa rotolare spingendola verso il mare, in vicinanza del quale, sentendo la presenza dell’umidità, i rami si distendono, e si schiudono i frutti da questi trattenuti, quasi che i rami fossero risorti percorsi da una nuova vita.
Usavano anticamente, sulla scorta forse di leggende simili che la collegano alla maternità, porre un cespo di questa pianta in un recipiente d’acqua all’inizio delle doglie, ritenendosi che i dolori sarebbero durati finché le fronde non si fossero distese nella forma primitiva. In Germania la rosa è detta Mano di Maria, ed è ritenuta propiziatrice del parto.
È giunta in Europa ai tempi delle Crociate e viene coltivata nei giardini. Il nome Rosa di Gerico si trova nella Bibbia (Ecclesiastico XXIV, 18): «Stesi i miei rami come una palma di Cades e come una pianta di rose di Gerico», ma non si sa se la pianta biblica sia identificabile con l’Igrometrica.
Si dice che durante la fuga in Egitto, mentre la Sacra Famiglia attraversava il deserto della Siria, nascessero le rose aride, dette di Gerico che i beduini per molto tempo raccolsero lungo la Strada fiorita e vendettero ai pellegrini in Terra Santa. Siccome la Vergine benedisse le rose che spuntavano lungo il cammino i Saraceni le raccolgono, le pongono nell’acqua che fanno bere alle loro donne allorché si avvicina il parto, evento che avviene facilmente e con poco dolore, una volta bevuta quella pozione.
Quando Cristo andò nel deserto a digiunare si vuole che molte di queste piante si disponessero intorno a lui e nella notte raccoglievano dentro di loro la rugiada con la quale il Signore si dissetava quando il sole rovente batteva sulla sabbia. Per questo la rosa fu benedetta da Gesù e fu detta anche rosa del deserto.
S’avvicinava invece il momento del parto e cominciarono le prime doglie. In quel momento c’era fuori della grotta una Rosa di Gerico che avvertì il miracolo della venuta nel mondo del Salvatore.
Allora, per accogliere il Signore la pianta volle fiorire e cominciò a distendere le sue fronde rattrappite dal freddo, a mettere le foglie, continuando a vegetare per tutto il tempo che durò il travaglio.
Quando venne alla luce il Bambino la rosa fiorì e al mattino la Vergine la vide davanti alla sua povera dimora. Allora la benedisse e volle che la Rosa di Gerico risorgesse, anche se secca, ogniqualvolta sentisse avvicinarsi la pioggia, rinverdendo proprio sotto le prime gocce del temporale.
Anche gli animali e le piante partecipano dunque insieme agli uomini ad accogliere Cristo. Ve ne sono di entusiasti e d’indifferenti: secondo il comportamento ciascuno trova una risposta, un dono di ritorno che cambia spesso la sua indole, la sua natura. Ad esempio il fiero e spavaldo cavallo, abituato a figurare nelle sfilate e nei cortei, si trova a fare una magra figura di fronte ai modesti asino e bove che danno mano alla Vergine nell’accudire il Bambino.
Fece una croce sulla groppa dell’una e dell’altra bestia e li preservò per sempre da qualunque malia, dalle stregonerie e dai malefici, dalle arti delle streghe e dei demoni.
Per questo l’asino e il bue tengono lontani ogni sorta di maledizioni e di spiriti impuri.
Il cavallo invece è preda della paura, teme la propria ombra ed è spaventato dai fantasmi e dai folletti che gl’intrecciano la criniera e lo fanno imbizzarrire.
Vi sono anche leggende ironiche che fanno apparire il dono come un mezzo ingenuo, ma efficace per cui il pensiero generoso dell’uomo viene compensato dalla Vergine o da Giuseppe in misura quasi eccessiva, poiché si vuol sottolineare come sia importante più l’intenzione, l’indirizzo del sentimento, che il gesto reale.
La Morte non seppe che dire per cui domandò:
Quanto ti ci vuole a fare questa cuffietta?
Domani ho finito: puoi tornare domani sera. Guarda, fammi un piacere: siccome tu le cose non te le ricordi, non vorrei che stanotte te lo scordassi e ti ripresentassi qui domattina troppo presto a farmi paura. Prendi quel foglio, scrivici sopra bello grande DOMANI, e attraccalo alla porta sai io non so scrivere.
La Morte scrisse il foglio, l’attaccò alla porta e se ne andò. Siccome era tempo di moria e aveva tanto da fare, per un pezzo si dimenticò d’andare dalla vecchietta e insomma passò del tempo prima che si ripresentasse ma, appena si trovò davanti a quell’uscio vide il cartello scritto di suo pugno: DOMANI e disse:
Ma guarda che stupida: quello l’ho scritto io! E che vengo qui a perder tempo con una faccenda che devo fare domani.
E così diceva tutte le volte che tornava davanti a quella porta, e continua ad andare e venire, a tornare e ad andarsene via, tanto che la vecchina è ancora là che sferruzza e non si sa quante cuffiette abbia ormai fatto per il Bambino Gesù.
Forse la leggenda più misteriosa e toccante, e anche la più profonda, è quella del dono del lupo, assai diffusa in Italia anche in altre forme e con altri animali come la volpe. Il gesto del lupo che ruba per portare anch’egli qualcosa davanti alla cuna di Cristo sconvolge un po’ la mente portandola a pensare al mistero della malvagità e del male. L’apologo è uno dei più sconcertanti: il nostro giudizio, la nostra conoscenza, le nostre sicure leggi si sbriciolano nella luce abbagliante della grotta di Betlemme: la vittima, l’offesa per eccellenza, la sicura e riconosciuta danneggiata entra per un attimo nel mistero della vita: la pecora non può che sciogliere in un compianto il suo giusto risentimento, poiché le intenzioni, i sentimenti del lupo andavano oltre i suoi pensieri e tutto il suo dolore si specchia nel dolore della povera bestia costretta per vivere, perfino per omaggiare il Signore, a rubare, sbranare, dilaniare, in un modo di essere inconciliabile con quello dei più. Ma le parole della logica non bastano per capire l’incomprensibile che si scioglie per un attimo della luce della Natività, per cui è meglio leggere nei veli splendidi della metafora popolare, capace di raggiungere profondità precluse ad altre indagini.
La pecora tornò all’ovile: si disperava e si lamentava, mentre tutti erano in festa e nessuno le dava ascolto finché rimase sola, poiché tutti erano andati a trovare il Bambino Gesù.