Cultura & Società
Manlio Cancogni, i 95 anni di un profeta di speranza
di Gian Filippo Belardo
Seduto su una maxipoltrona nella sua casa sul lungomare di Tònfano (un tempo Fiumetto) Manlio sta riscoprendo l’arte sublime di Shakespeare. L’estate la dedicherà alla rilettura dell’opera omnia del Bardo. Ha iniziato a metà giugno con la trilogia dell’Enrico VI ed è giunto al Sogno di una notte di mezza estate. Lo sguardo è sempre arguto e perforante, la battuta subitanea, lo squillante timbro di voce non è certo quello di un uomo di quasi novantacinque anni (li compirà il prossimo 6 luglio).
Ha poche pause il trend quotidiano dello scrittore che ama riscoprire i capolavori del passato. Molte ore sono state assorbite, dalla primavera ai primi di giugno, anche dalle opere del Premio Strega, di cui è il giurato più anziano per età e per militanza. Cancogni non è particolarmente preso dal livello delle opere in concorso nell’attuale edizione. Ma l’anno scorso ha apprezzato molto Antonio Pennacchi «per la sua scrittura epica di ampio respiro». Le giornate di Manlio sono scandite da ritmi regolari: preghiera, lettura, scrittura (ha da poco terminato la lunga prefazione a una riedizione di romanzi di Carlo Cassola ed è appena uscito il volume «Riprese» che raccoglie i suoi racconti).
Ogni tanto Rori, il suo secondo angelo custode, gli ricorda di prendere la «pasticchina». Rori (Maria Vittoria) è un personaggio a sé. Ha 87 anni, sbriga le faccende domestiche, guida giornalmente l’auto e attraverso il pc e la webcam colloquia con il nipote Lence a New York e con il nipotino Oliver. La tranquilla staticità di Manlio è contrappuntata dalla instancabile attività della moglie. L’unico punto di non convergenza nella loro vita è il tifo calcistico: Rori è una juventina doc mentre Manlio ha nel cuore «la squadra che può battere la Juve». Un momento in cui Manlio e Rori si ritrovano in assoluta sintonia è il Rosario all’imbrunire. Nel 2013, a Dio piacendo, potrebbero festeggiare i settant’anni di matrimonio.
Quest’ultimo periodo è stato per lo scrittore denso di premi e di riconoscimenti. Il più recente è stato due mesi fa, il «Pen club» per «Riprese», preceduto negli anni precedenti dal Premio Elba alla carriera e dalla «Pantera d’oro» che la Provincia di Lucca attribuisce a «quanti hanno onorato questa terra d’origine». «Io mi sono sempre sentito versiliese anche se sono nato casualmente a Bologna e ho trascorso la gioventù a Roma. Ma già da bambino i miei genitori mi portavano in vacanza in Versilia». Non c’è mese in cui Manlio non venga «sequestrato» da qualche collega per interviste e colloqui. Quest’anno i due più diffusi quotidiani gli hanno dedicato un’intera pagina.
Sulla sua attività giornalistica si è già soffermato lo stesso Cancogni nel primo articolo per il nostro settimanale. Dal 1998 (aveva allora 82 anni) lo scrittore ha vissuto una stagione creativa particolarmente felice. In quell’anno pubblica Matelda. Storia di un amore, prezioso documento di vita intellettuale e insieme personalissimo itinerario nella poesia italiana del Novecento. Manlio si appassiona nel ricordare che ha voluto dedicare il libro a questo straordinario personaggio dantesco. «La considero come una guardiana del Paradiso terrestre. Matelda è il simbolo del Purgatorio, cantica del pentimento, della memoria e della poesia, perché è piena di poeti».
Sulla lirica del Novecento il suo discorso è, come sempre esplicito: «Prima di aver ritrovato la fede avevo stilato una personale classifica dei poeti che vedeva ai primi posti Montale, Alfonso Gatto, Caproni, Virgilio Giotti, un triestino di cui, purtroppo, non si parla più, Penna, Luzi. Poi, alla luce di quella che si potrebbe definire un’estetica della speranza questa classifica l’ho stravolta: Betocchi, caso unico di un poeta che non parlava mai di sé, Luzi e Ungaretti sono passati ai primi posti. Ho sempre impresse le parole di Mario Luzi in una conferenza a Lido di Camaiore: non ho mai propinato disperazione. È una benedizione che un autore non sia portatore di null’altro che pietrisco e cenere».
Il libro è anche un vademecum dei suoi incontri e spesso delle amicizie con i poeti più significativi. Fra tutti Manlio ricorda con affetto gli incontri con Giorgio Caproni. Spesso Caproni, teorico di una personale «ateologia» e lo scettico Cancogni dissertavano sul Mistero: «fin d’allora mi auguravo l’esistenza di un Dio-registro della verità».
È del 2000 il romanzo Il mister, dedicato a un personaggio sempre attualissimo nella melma del calcio italiano, Zdenek Zeman, di cui è fervido ammiratore. L’allenatore boemo proprio nel periodo della stesura aveva denunciato la corruzione dilagante in quell’ambiente. Il libro unisce al consueto nitore stilistico di Cancogni una splendida ricostruzione ambientale della Roma fascista degli Anni Trenta. La storia è imperniata sulla misteriosa scomparsa di Zoran, un giocatore-allenatore slavo che bazzica i campetti del calcio dilettantistico nel quartiere Savoia. Letto come in filigrana il testo è denso di riferimenti evangelici. L’interrogatorio di Zoran nella sede del fascio ricorda la Passione. E nel finale del romanzo, quando un giovane va a ricercare il «mister» in una grotta di tufo della periferia romana tra un suono montante di campane sembra evidente il riferimento al Sepolcro e alla Risurrezione.
Sposi a Manhattan (2005), dedicato alla moglie, è un libro atipico, in cui i ricordi personali si alternano con argomenti letterari ed estetici. Pagine dense di emozione fanno rivivere il primo incontro con Rori «da quasi settant’anni la mia amatissima cocca», la lotta contro il male oscuro che gli porta via, in età matura, la figlia Annapaola, mamma di Lence, che da allora è diventato per Manlio e Rori il terzo figlio. Il viaggio ad Atene, nel 1942, gli fa riscoprire la grandezza di Manzoni e l’acume morale del Nunzio Roncalli in quel momento in visita nella capitale greca. Il giovane professor Cancogni gli esterna la preoccupazione per il proprio futuro. «Lui mi ha come fotografato e mi ha fatto comprendere com’era meschino, in tempi simili, preoccuparsi solo di se stessi». «Questo lo capisco oggi aggiunge con rammarico. Allora l’ho giudicato come una persona non comprensiva».
Nel libro è veemente la polemica contro lo strapotere della Neoavanguardia (Sanguineti, Barilli, Pagliarani) che negli Anni Sessanta ha rifiutato quasi in blocco la Letteratura italiana del Novecento demolendo il neorealismo e autori della levatura di Tomasi di Lampedusa, di GiorgioBassani, di Cassola e, aggiungo, di Manlio Cancogni. «Hanno terrorizzato i membri dell’establishment letterario con il risultato che molti hanno finito per farsi condizionare e alcuni hanno addirittura avallato il loro diktat estetico». Manlio si accalora: «Risultato: la distruzione della letteratura. L’arte è stata minata dalle fondamenta per favorire un approccio alla realtà puramente estetico».
«Oggi si dice che sono scomparse le ideologie. Non è vero. Ne è rimasta una, la più pericolosa: l’estetismo. Per fartela breve, mi sembra quanto mai urgente il ritorno ad un’estetica che consideri l’arte e la letteratura non come puro intrattenimento, divertimento o che, al contrario, tessa l’elogio della disperazione. La speranza, come scriveva Péguy, dovrebbe esserne il motore. Sei d’accordo?». Come non dargli ragione?