Cultura & Società
Quel barlume di umanità che può aprire alla ricerca di Dio
di Andrea Fagioli
Cinema e teatro, da sempre, vivono un rapporto intenso, quasi speculare. Ognuno ha tratto dall’altro elementi utili per il proprio progresso, ma dal punto di vista della scrittura è stato il grande schermo a beneficiare dell’arte del palcoscenico. Non è pertanto così usuale che una sceneggiatura originale, basata su una drammaturgia scritta per la macchina da presa, risulti perfetta nei ritmi e nelle scansioni teatrali per una messa in scena come nel caso di Sarabanda, di Ingmar Bergman, portata sulla storica piazza del Duomo di San Miniato per l’edizione numero 65 della tradizionale Festa del teatro, che per la prima volta vede una coproduzione tra l’Istituto del Dramma popolare e il Metastasio di Prato nonché Teatro stabile della Toscana.
In questo suo ultimo lavoro, il maestro svedese (1918-2007), regista cinematografico e drammaturgo, trova la sua grandezza di autore contemporaneo nella scrivere per un cinema che può essere teatro e viceversa, nel tentativo di raccontare i misteri dell’amore e dell’odio, del dolore per la mancanza di amore.
Datato 2003, Sarabanda, di cui esiste una versione televisiva, arriva trent’anni dopo Scene da un matrimonio, film del 1973. A confrontarsi sono di fatto gli stessi personaggi (allora cinematografici, oggi teatrali) invecchiati e delusi, incapaci di amare e sopraffatti dal rancore, alle prese, questa volta, anche con i figli e i figli dei figli.
Per rispondere a un misterioso impulso (una «chiamata»?), Marianne (ultrasessantenne dall’aspetto ancora giovanile, avvocato di professione), decide di andare a trovare l’ex marito, Johan, che non vede da decine di anni e che vive la sua vecchiaia isolato dal mondo, in una casa in mezzo ai boschi, nelle cui vicinanze abita solo il figlio Henrik, musicista, che Johan ha avuto da un precedente matrimonio e per il quale nutre un odio più che ricambiato. Henrik, tra l’altro, tiene morbosamente legata a sé la figlia Karin (di cui è anche maestro di violoncello), riversando su di lei tutto l’affetto per la moglie Anna, morta due anni prima lasciando in tutti un vuoto incolmabile, anche nel vecchio Johan, che sulla scrivania custodisce gelosamente un ritratto della nuora.
Marianne, nel tempo della visita all’ex marito, finisce per diventare la confidente di tutti e tre: di Johan, del figlio e della nipote. Fino a quando Karin non decide di andarsene dalla casa paterna per iniziare una vita diversa, sia personale che artistica, spingendo Henrik al suicidio (tentato ma non riuscito, al punto da scatenare la perfida ironia del padre: «Nemmeno ad ammazzarsi è stato capace»).
Dopo una sorta di riavvicinamento con l’ex marito, Marianne si congeda da lui con la promessa di rimanere in contatto (cosa che non avverrà) e facendo visita a una delle figlie avute da Johan, Martha, che scopriamo affetta da gravi disturbi mentali, le dirà, sfiorandole il viso: «Per la prima volta ho sentito che toccavo mia figlia».
In questa analisi delle relazioni umane e familiari, Bergman si mostra spietato: viviseziona i suoi personaggi scavando nelle loro miserie, ma offrendo, alla fine, se non proprio una speranza, un percorso di purificazione nell’accettazione della vita con i suoi dolori e soprattutto la morte.
Johan e Marianne si spoglieranno anche materialmente per superare la notte insieme, per ritrovare un contatto e per dare forza simbolica al disfarsi dei loro fardelli. Lo faranno spinti forse dalla paura della morte che comincia ad attanagliare l’uomo. Ma servirà anche a Marianne per riscoprire il senso materno nei confronti della figlia reietta. Anche la giovane Karin, unico personaggio positivo tra i quattro, riuscirà a rielaborare il lutto per la madre e a tagliare la catena incestuosa che la lega al padre. Così, attraverso la vitalità dell’arte e della musica, Karin compie il suo viaggio iniziatico verso la maturità e la serena accettazione della sua condizione di giovane donna. Sceglie la vita, quella in mezzo agli altri, quella dell’orchestrale, non della solista: «Voglio vivere circondata da un corpo musicale, in un grande sforzo corale». Lo stesso Henrik riuscirà finalmente a completare il suo lavoro su Bach (verso cui Bergman è debitore del titolo Sarabanda).
Su tutti aleggia, con il suo effetto salvico, il personaggio più presente nella sua assenza: Anna, sorta di fantasma che permette di ricomporre gli «sconquassi dell’anima». Non è un caso che in origine il titolo del dramma fosse proprio Anna.
Ma perché Marianne ha sentito il bisogno di andare da Johan: «Pensavo dice all’ex marito che tu mi stessi chiamando». No, lui non l’ha chiamata. E allora di chi è quella voce? Non è di Dio, non ci illudiamo. Il regista svedese, in questo caso, lo nega. Quella voce è dentro di noi, è totalmente umana. Ma siamo di fronte ad un’affermazione per negazione. Non è possibile, sembra dire Bergman, che l’uomo sia così perfido al punto che un padre irrida il figlio che non riesce nemmeno a suicidarsi, o che un altro padre, incapace di superare il dolore per la perdita della moglie, tarpi le ali alla figlia, o che una madre non ami la figlia malata. Uomini senza valori e senza fede, quindi infelici, che possono solo riscoprire quel barlume di umanità che è ancora in loro: sarà questo il primo passo alla ricerca di Dio.
In una decina di quadri teatrali, come sequenze o fotogrammi di un film, si alternano i dialoghi (nella traduzione di Renato Zatti) a due a due tra i quattro personaggi bergmaniani magistralmente diretti da Massimo Luconi e superbamente interpretati da Giuliana Lojodice (la cui Marianne è di una naturalezza disarmante), da Massimo De Francovich (bravissimo nel trasmettere la misantropia e i tormenti di Johan), da Luca Lazzareschi (travagliato Henrik) e da Clio Cipolletta (convincente Karin). Con le scene di Daniele Spisa e dello stesso Luconi, lo spettacolo ha già in programma una lunga tournée invernale.