L’annuncio è arrivato in un giorno insolito, alla vigilia di Natale: don Giovanni Paccosi, prete della Chiesa fiorentina, è il nuovo vescovo di San Miniato. La diocesi attendeva il nuovo pastore dopo che monsignor Andrea Migliavacca ha fatto il suo ingresso ad Arezzo, nel novembre scorso. Inizierà il suo ministero proprio mentre la Chiesa sanminiatese celebra il Giubileo diocesano, per i 400 anni dalla fondazione: «Il Giubileo è un appuntamento importante – afferma – e il suo motto “Per Cristo, con Cristo e in Cristo”, è una bella prospettiva di rinnovamento della fede. La diocesi di San Miniato mantiene, dopo 400 anni, la sua identità, e a me spetta di inserirmi molto umilmente in questo cammino». Con alcuni sacerdoti della diocesi ha una lunga amicizia, dagli anni del seminario. «È una diocesi che ha molti punti di contatto con quella di Firenze, che sento vicina».Una chiamata che è arrivata inaspettata…«Sì, decisamente. Davanti a una richiesta del Papa non potevo dire di no. Anche se è stata una chiamata non attesa, non cercata. Mi commuove che proprio io sia chiamato a essere successore degli Apostoli, è una cosa grande. Io non avevo in mente che potesse accadere, avevo appena iniziato un servizio come responsabile delle comunità di Comunione e Liberazione in America Latina».Come era arrivato questo incarico?«Già alcuni anni fa, quando ero tornato da poco a Firenze dopo 15 anni in Perù, Julián de la Morena, un sacerdote spagnolo responsabile allora dell’America Latina, mi chiese di dedicare un po’ di tempo per seguire le comunità di Cl in America Centrale. A me fece molto piacere, anche perché, tornato a Firenze da un anno, mi sembrava che tutta l’esperienza vissuta in America Latina rischiasse di rimanere una parentesi, mentre per me era stata un passo grande. Nel 2018 e 2019 ho fatto una decina di viaggi per visitare le varie comunità. Poi era venuto il Covid e molti impegni in diocesi, cosicché l’anno scorso, quando a giugno sono andato all’incontro dei responsabili a Città del Messico ero partito con l’idea di lasciare l’incarico per l’America Centrale. Invece sono stato votato nella terna per la nomina del nuovo responsabile per tutta l’America Latina di lingua spagnola. Chiesi di parlare prima con il cardinale Betori, perché per me significava dover rivedere i miei impegni in diocesi. Lui, comprendendo anche il fatto che per Comunione e Liberazione questo è un momento di grandi cambiamenti, mi disse che se mi fosse stata affidata questa responsabilità, era disposto a togliermi gli incarichi diocesani, chiedendomi però di mantenere quello di parroco. Ho dato quindi la mia disponibilità, e in agosto ho ricevuto la nomina. Da settembre ho iniziato questo incarico, ho fatto tanti incontri online con tantissime comunità, a novembre ho fatto un viaggio di 15 giorni visitando Salvador, Panama, Argentina, Uruguay e ne avevo in programmi altri nei prossimi mesi. Oltretutto, come responsabile per l’America Latina, ero entrato anche nell’organo di governo centrale del movimento».La nomina a vescovo di San Miniato ha cambiato tutta la prospettiva…«Adesso dovrò capire cosa succede, a marzo ci sarà un’assemblea e poi vedremo. Certamente è stata un’esperienza molto bella, essere a contatto con le comunità dell’America Latina che sono realtà molto vive. Ed è un’esperienza che mi porterò dietro anche nella diocesi di San Miniato, nel mio modo di mettermi a servizio di questa Chiesa».La sua esperienza missionaria, in generale, inciderà nel suo modo di essere vescovo?«Penso che sia importante avere questo respiro, anche il Papa dice spesso che le cose si vedono bene dalla periferia e effettivamente quando lo si sperimenta, si capisce che è davvero così. Nella periferia si vedono i problemi, la vita concreta delle persone. Ci si rende conto che in Italia viviamo dentro una bolla privilegiata, in cui ci si lamenta tanto, ma in realtà viviamo con possibilità che l’80% della popolazione del mondo non ha. Ci si rende conto che lo star bene materialmente non è la felicità, che ci sono persone che sono molto più contente di vivere rispetto a noi anche se gli mancano tante cose. Questo perché si vive una religiosità spontanea, che fa riconoscere che tutto è un dono, e questo dà la forza per affrontare le difficoltà».L’altro aspetto che la caratterizza è il legame con Comunione e Liberazione. Cosa significa per il suo cammino di vita e di fede?«Tanto. Quello che mi ha affascinato fin dall’inizio è stato aver trovato l’unità tra la fede e la vita. Vivere l’essere cristiano nel quotidiano, nelle esperienze e nelle relazioni di tutti i giorni. Del carisma di don Giussani mi sembra importante il fatto che il cristianesimo non si può ridurre a una dottrina ma è l’avvenimento di un incontro, l’incontro con Cristo risorto: questo segna l’esistenza e fa ripartire ogni giorno. Ed è verso questo incontro che dobbiamo cercare di accompagnare gli altri. L’appartenenza a Cl è la mia forma di vivere la fede, ma nella mia esperienza di prete non ho mai avuto lo scopo di portare le persone in Cl: certo c’è stato chi attraverso il mio modo di vivere la fede, si è chiesto da dove viene. Ma sia come parroco che nei miei incarichi diocesani, ho sempre collaborato con tutti, trovando in tutte le esperienze ecclesiali una grande ricchezza».Anche la sua vocazione è nata all’interno di questo percorso?«Sono stato formato alla fede dalla mia famiglia, poi nell’adolescenza avevo tante domande e dubbi e l’incontro con Cl, ai tempi della scuola superiore ha permesso un cammino di verifica della fede. La mia vocazione è nata in questo cammino e, per pura grazia, con due altri futuri sacerdoti fiorentini: uno è monsignor Andrea Bellandi, che ora è arcivescovo di Salerno, l’altro è don Paolo Bargigia, che ora è in cielo. Con loro ho condiviso tutto, abbiamo fatto insieme tante esperienze di formazione, tanta vita pastorale dopo l’ordinazione e con Paolo anche otto anni insieme in Perù. Paolo era davvero un trascinatore, aveva tanta gioia, tanto entusiasmo. Poi quando si è ammalato di Sla, diceva di aver ricevuto una “vocazione nella vocazione”: la chiamata a essere prete e missionario attraverso la malattia. Negli ultimi mesi, quando aveva bisogno di assistenza, c’erano tante persone che facevano dei turni accanto a lui, e molti dicevano che non venivano da don Paolo per aiutare lui, ma per essere aiutati, per poter abbeverarsi alla sua testimonianza di fede. Certo, è stato doloroso vedere come, giorno dopo giorno, perdeva le sue capacità fisiche, ma ha vissuto con una serenità e pienezza ogni momento, tanto che ha reso evidente che l’incontro con Gesù rende possibile la pace e la gioia in ogni condizione».Quali sono le specificità della Chiesa di Firenze, che l’hanno segnata nel suo essere prete e che si porterà dietro?«Credo che un aspetto importante della storia ecclesiale fiorentina sia quello di riuscire a tenere insieme tante anime, tanti modi di vivere la Chiesa, ognuno con la sua specificità e la sua ricchezza. L’ho capito anche vedendo all’opera il cardinale Betori, con cui ho avuto modo di collaborare strettamente in questi ultimi anni: di lui mi ha colpito la sequela cordiale al Papa, e la sua capacità di costruire unità nella Chiesa valorizzando le originalità. A Firenze infatti oguno afferma la propria originalità anche opponendosi con ardore, sempre pronti a dividerci su tutto, ma è vero che siamo anche in grado di riconoscere le testimonianze sincere e amarle con tutto il cuore. L’altro aspetto che vorrei portarmi dietro da Firenze è quello della valorizzazione della bellezza come via d’incontro con il Signore. La bellezza dell’arte mi appassiona, e la bellezza abbonda sia a Firenze che nella diocesi di San Miniato. Ma in Perù, dove non mi veniva la nostalgia della bellezza nella periferia dimessa in cui vivevo, ho imparato che la bellezza vera, quella più grande non è a livello estetico, ma è la bellezza delle persone. Nella bellezza dell’arte, della natura, c’è la strada per incontrare Gesù, ma soprattutto lo incontriamo in ogni persona, anche fosse la più “scartata”».I suoi parrocchiani di Gesù Buon Pastore a Casellina come hanno accolto la nomina a vescovo?«Mi hanno detto che l’annuncio di questa nomina, alla vigilia di Natale, è stato un grande regalo ma anche un regalo “pesante” da accettare. Questi sei anni sono stati intensi e belli. C’è anche preoccupazione, come ci sarebbe in qualsiasi parrocchia quando il parroco viene assegnato a un altro incarico. Per me la cosa più difficile è proprio lasciare la parrocchia».Con quali sentimenti guarda al prossimo 5 febbraio, giorno dell’ordinazione episcopale, e poi al 26 febbraio, giorno dell’ingresso a San Miniato?«L’ordinazione l’aspetto nella speranza che il dono del sacramento mi cambi profondamente, perché così come sono mi sento molto inadeguato a diventare un successore degli apostoli. Sarà celebrata a Firenze: avrei voluto viverla a San Miniato, ma mi sono arreso al fatto che la cattedrale di San Miniato è piccola per l’evento: così mi è stato suggerito da monsignor Migliavacca. Mi fa molta impressione il fatto di essere ordinato vescovo sotto quella stessa cupola che mi ha visto diventare prete, nel 1985. So che ci saranno tante persone con cui ho incrociato il mio cammino in questi anni, verrà anche il parroco della mia parrocchia di Lima, in Perù, dove sono stato parroco 15 anni e dove mi raggiunse nel 2008 don Paolo e verrà anche il vescovo, adesso emerito, che mi accolse. Sull’ingresso a San Miniato del 26 febbraio non è stato ancora definito il programma, mi affiderò a chi conosce la diocesi e il territorio. Mi sembra ancora una cosa talmente grande, ma il fatto di non essere stato io a cercarla mi rende tranquillo. Mi affido al Signore, alle preghiere della Chiesa fiorentina e alle preghiere del nuovo popolo che mi accoglie e di cui entro a fare parte».Un’ultima curiosità. Il cardinale Betori ha sottolineato, al momento dell’annuncio della nomina, la sua passione per il calcio e per la Fiorentina, che l’accomuna al vescovo Bellandi: «due vescovi che vengono dalla curva Fiesole», ha detto con una battuta. Ci racconta qualcosa di più su questo?«Certo. Ero bambino quando la Fiorentina, nel 1969, vinceva il secondo scudetto. Come tantissimi fiorentini della mia generazione mi è entrata nel cuore. Sono sempre andato volentieri allo stadio, e anche in Perù avevamo fatto un abbonamento per seguire le partite della Fiorentina in tv: per fortuna il fuso orario ci permetteva di vederne diverse! Mi piace il calcio e sono tifoso, quando vado allo stadio sono uno tra gli altri, tutti insieme con le proprie diversità: quasi un segno che una passione comune sana le differenze. A volte mi devo tappare le orecchie, perché si sentono certi rosari che non vorrei sentire, ma questo succede, purtroppo, dappertutto in Toscana: Invece, in quasi sedici anni in Perù non ho mai sentito una bestemmia. Certo se la Fiorentina vincesse sempre non ci sarebbero problemi di questo genere. Però è bello vivere il tifo con passione, basta ricordarsi che è un gioco».