Vita Chiesa

Firenze, l’omelia del card. Giuseppe Betori nella solennità di San Lorenzo

Chi di noi è pronto a dire di non amare sé stesso, la propria vita, il proprio progetto di vita? Le parole di Gesù sembrano risuonano per noi come una disapprovazione. Egli infatti ci dice che «chi ama la propria vita, la perde» (Gv 12,25). Ma facciamo ben attenzione, perché le parole di Gesù non vanno colte come una condanna, bensì come un invito a un cambiamento di prospettiva. Infatti, il suo è una indicazione a guardare alla vita in modo nuovo, perché «chi odia la propria vita in questo mondo, la conserverà per la vita eterna» (Gv 12,25). La svolta che Gesù chiede è proprio nell’orizzonte in cui porre il cammino dei nostri giorni: non più nella stretta visuale di un tempo che fugge e muore, ma nello sguardo ampio di chi guarda all’eterno, alle cose che non finiscono, all’altezza dell’assoluto. 

È l’insegnamento che ci offre san Lorenzo, che non teme la temporanea sofferenza del fuoco che lo brucia pur di non perdere il suo legame con Gesù, la fede in lui, il Signore che gli ha offerto una prospettiva di vita nuova, capace di saziare il suo desiderio di eternità. Non perché al nostro santo, a noi, piaccia la sofferenza, in un sorta di masochistica visione della vita che si nutre di rinunce fine a sé stesse, ma perché siamo convinti, per avercelo detto e mostrato Gesù, che, come il chicco di grano, solo chi «muore produce molto frutto» (Gv 12,24). E che la vita sgorghi dal mistero della morte non lo dice soltanto il ciclo naturale del mondo vegetale, ma lo sperimentiamo in ogni cosa bella che cresce nella nostra esistenza: dal sacrificio dei genitori per dare vita e futuro ai figli fino alle privazioni o alle ferite che porta con sé ogni novità significativa nella storia umana. È anche l’esperienza di questi giorni in cui la ricerca di una via di uscita dalle pesanti condizioni della perdurante pandemia è legata a rinunce e a limitazioni per il bene di tutti e quindi anche di ciascuno. Vale anche per i nostri giorni che chi ama la propria vita fino a rifiutarne ogni restrizione di fatto contribuisce a creare condizioni in cui essa è posta in pericolo, per sé e per gli altri, fino alla possibile perdita. 

Questo sguardo che permette di andare oltre le sofferenze presenti e dare a esse un significato deve però nutrirsi di una scelta di fondo che ci si svela nel momento in cui, secondo le parole del vangelo, ci disponiamo a servire Gesù e a seguirlo. È la scelta di fare dell’amore, della donazione di sé, il senso della propria vita. Perdere la propria vita sì, ma perderla per amore: questo è l’insegnamento del vangelo e la testimonianza di san Lorenzo. Un’esistenza, la sua, vissuta nell’attenzione alle condizioni dei poveri e nel concreto sostegno alla loro vita, diventa naturalmente un’esistenza che non teme il martirio nel momento in cui gli viene chiesto di scegliere tra il potere di questo mondo e la fedeltà a quel Dio che gli si è rivelato come amore e lo ha chiamato a una vita di carità. È lo stesso amore quello che si fa carità verso i poveri e si manifesta come dono della propria esistenza al Padre. 

Il richiamo al legame tra la figura di san Lorenzo e l’esercizio della carità mi sollecita due riflessioni legate al momento presente. 

La prima riguarda il bisogno di una sempre più forte condivisione di intenti e di impegni per la rinascita sociale che ci attende dopo le fatiche della pandemia. Vale per il mondo, per l’Italia, per la nostra città, per questo quartiere di san Lorenzo. Rinascere dalle sofferenze ancora presenti non può essere un percorso di singoli, secondo una logica di presuntuosa autonomia e di miope individualismo, come quella che ci ha governati fino ad oggi. Abbiamo bisogno di dedicarci a un’impresa comune, a capire che dalla crisi si esce solo insieme e che la condivisione è la strada maestra della rinascita. 

La seconda e conclusiva riflessione che voglio affidarvi riguarda invece il dramma della perdita del lavoro che incombe su centinaia di uomini e donne a Campi Bisenzio, nella fabbrica della GKN e nelle aziende dell’indotto. La carità inizia anzitutto dalla giustizia e non c’è chi non veda come tra noi si stia consumando un grande dramma dell’ingiustizia, in cui le ragioni della finanza intendono prendere il sopravvento sulle ragioni dell’umano. Il lavoro nasce da un contratto tra chi pone a disposizione risorse materiali e monetarie e chi offre le proprie risorse di lavoratore. Non si rescinde un contratto senza un confronto che ne faccia emergere le ragioni e che non lasci esiti che feriscono la dignità delle persone. Faccio di nuovo appello a chi è in grado e in dovere di intervenire perché questo dramma non si trasformi in una tragedia ineluttabile. Papa Francesco inserirebbe la vicenda di Campi nel contesto di quella «globalizzazione dell’indifferenza» che scaturisce dal sottomettersi ai «meccanismi sacralizzati del sistema economico imperante» (Evangelii gaudium, 54). Per questo, con il Papa, vogliamo dire anche per Campi il nostro «no a un’economia dell’esclusione e della inequità» (Evangelii gaudium, 53). 

Giuseppe card. Betori