Vita Chiesa

Siria, l’appello delle monache trappiste: fermate l’embargo

Nel cuore della Siria, terra benedetta dal Signore e martoriata dagli uomini, c’è una presenza che ha un legame forte con la Toscana. Dal marzo 2005 un piccolo gruppo di suore trappiste provenienti da Valserena (il monastero cistercense sulle colline tra Volterra e Cecina) si è stabilito ad Aleppo, per inserirsi nel paese e dare inizio a una nuova comunità monastica. La testimonianza di una vita dedicata a Dio e offerta ai fratelli, cristiani e musulmani. Una presenza che nel corso degli anni ha conosciuto il dramma della guerra, ha incontrato la povertà, e che adesso lancia un grido d’allarme: alla Siria serve la possibilità di ricostruirsi e ricominciare a vivere. A raccontarci tutte le difficoltà di questa situazione è suor Veronica Pellegatta. Da quanto tempo è in Siria? Come ha visto cambiare la situazione in questi mesi?«Sono in Siria da poco più di un anno. Sono stata qui 8 mesi, poi 4 mesi in Italia e ora di nuovo qui da 6 mesi. La mia esperienza è dunque molto limitata, considerando anche il fatto che essendo monaca di clausura non ho molti contatti con la situazione del mondo che ci circonda. Posso dire che quando sono ritornata la seconda volta ho avuto l’impressione che, nei paesini qui intorno a noi, che attraversiamo per andare a fare la spesa, ci fosse un fervore di ricostruzione degli edifici, molti cantieri, piuttosto improvvisati, evidentemente di uomini che si danno da fare per ricostruire la propria casa. Nella nostra zona c’è distruzione ma anche degrado dovuto, credo, alla povertà. Ora la gente sembrava darsi da fare per fare un po’ più bella la propria abitazione. Mi pareva anche che diversi negozi e negozietti fossero comparsi là dove prima c’erano serrande chiuse.Tuttavia in queste ultime settimane subiamo tutti le conseguenze di un’incredibile svalutazione della lira siriana che ha provocato l’innalzamento dei prezzi e anche mancanza di rifornimenti. Qualcuno ci dice che certi commercianti smettono di vendere le loro merci per non svenderle oppure non riescono a loro volta a rifornirsi, dato che i soldi perdono valore di giorno in giorno. Questo è ciò che posso aver notato direttamente, il resto lo so, come tutti, dalle notizie pubblicate dalle agenzie di stampa».Mentre il mondo si preoccupa per un virus, da voi la pandemia appare solo uno dei problemi in mezzo ad altri ancora più drammatici: è così?«Sì, in un certo senso è così perché il virus non sembra diffondersi molto qui in Siria. Sono state adottate da subito misure di prevenzione, soprattutto impedendo gli arrivi dall’estero o imponendo la quarantena a chi rientrava. So per sentito dire che è stato imposto anche un blocco delle attività e un coprifuoco notturno per evitare gli spostamenti. Tuttavia per quel che ho potuto vedere in una breve visita a Damasco non mi sembra che queste misure siano state molto rispettate. Forse per ovvi motivi di sopravvivenza. Chi non lavora rimane senza alcun guadagno e dunque senza possibilità di sostentamento. Non credo si possa supporre che la maggioranza della popolazione rimasta (considerando che la metà dei siriani sono scappati dal Paese in conseguenza della guerra) abbia risparmi. Il sistema bancario siriano è sotto sanzioni da anni e la bancarotta libanese ha influito molto negativamente sulla possibilità di reperire fondi o accedere ai propri risparmi. Sento dire che molte strutture sanitarie sono state gravemente danneggiate e sprovviste di attrezzature per affrontare una pandemia. Dunque la prevenzione era ed è d’obbligo.I problemi che definisce “più drammatici” riguardano ovviamente le conseguenze della guerra, che ciascuno può conoscere mediante la stampa più onesta anche in Europa. Non si tratta esclusivamente di distruzione e di povertà materiale, ma anche di una grave coltre di menzogne e di mancanza di rispetto per la sovranità di un Paese che dovrebbe poter essere libero di autodeterminarsi e affrontare i propri problemi senza subire ingerenze esterne. La presenza ormai pluriennale di forze americane e turche sul territorio, mai invitate dal governo siriano, non può che essere chiamata col suo vero nome e cioè invasione e usurpazione. Non si capisce perché invece sia presentata sui media come aiuto e addirittura salvezza.Se a questo punto ci fosse la volontà di consentire alla Siria di ricostruirsi e ricominciare a vivere sarebbe necessario permettere che il Paese potesse farlo liberamente, e cioè con una effettiva libertà economica e politica. Ma per ora non pare consentito. Questo risulta molto preoccupante, per tutti, anche per noi che vorremmo stabilizzare la nostra presenza qui con la costruzione di un vero edificio monastico e non possiamo».Qual è il vostro rapporto con la popolazione? Che tipo di segno riuscite a dare con la vostra presenza?«Abbiamo un rapporto diretto con la gente dei villaggi qui intorno. Diamo lavoro a diverse persone, sforzandoci di riuscire a garantire un compenso onesto, continuativo e continuamente adattato al cambio. La cosa non è facile per l’impossibilità di reperire fondi da parte nostra e per questo non potrà durare indefinitamente se non si recupera un contatto normale con l’Italia. Queste persone ci aiutano nella cura dell’ambiente, la coltivazione della terra, la gestione di edifici e impianti, oltre che nella gestione della casa e nell’accoglienza degli ospiti. Si tratta sia di uomini sia di donne, tutte persone con famiglia a carico, che altrimenti non avrebbero lavoro. Inoltre da diverso tempo diamo piccoli lavori artigianali ad alcune donne del paese di Azer, da fare a casa, che ricompensiamo nella speranza di vendere in Italia quando sarà possibile.Al di là del lavoro abbiamo contatti con chi viene: visitatori estemporanei, molte persone che vengono ad ammirare i bei giardini e farsi fotografie (in giro è raro trovare un posto così “bello” e ben curato come un giardino monastico), molto spesso musulmani; oppure persone in cerca di un luogo di quiete e di preghiera, e questi sono soprattutto fratelli e sorelle cristiani, sacerdoti o religiosi. Il contatto con le Chiese presenti in Siria è stato da sempre coltivato dalle sorelle, che sono presenti da 15 anni, e ci offre la ricchezza del senso di appartenenza a una grande famiglia, che in tutte le sue forme ha tenuto duro in questi anni di guerra (pur contando molti stranieri), ama la Siria e, come noi, vuole contribuire e assistere a una rinascita della vita e della speranza. Credo che il segno che noi offriamo si manifesti soprattutto nella preghiera liturgica che, nel monastero, ha la caratteristica della fedeltà e della costanza la quale è di conforto e sostiene chi ci accosta. La presenza monastica ha come suo carisma proprio quello di vivere una fedeltà e stabilità nascoste ma tenaci, di cui ogni cuore sente il bisogno. I frutti di tale presenza li conosce il Signore e a Lui noi li affidiamo nella fede».Avete lanciato un appello a fermare l’embargo: perché è così importante?«Sì, abbiamo unito la nostra voce a quella di molti altri che stanno gridando perché la sanzioni di Stati Uniti e Unione europea siano rimosse. Non è facilissimo per me misurare la portata reale di questa situazione. Certamente se la Siria non può commerciare a Occidente lo fa con l’Oriente e non so se, per la mentalità che c’è qui, ne senta un grosso problema. Esiste la Russia, l’Iran, la Cina. Non esiste solo l’America, come noi occidentali siamo tentati di pensare.Da quello che ho sentito però la Siria ha sempre avuto contatti commerciali e finanziari importanti con l’Europa e averli troncati non è certamente indolore. Le sanzioni generano una situazione di sfiducia e di intimidazione verso chiunque voglia intrattenere dei rapporti commerciali anche minimi con la Siria. Questo tra le altre cose danneggia anche molte aziende italiane che con questo Paese avevano non poche relazioni aperte. Credo che oggi il problema sia soprattutto quello di importare ricchezza e progettualità per la ricostruzione del Paese e certamente se, l’Occidente volta le spalle, i protagonisti saranno altri. Si sa però che la Cina normalmente non esporta qualità ma quantità e dunque non consente a un Paese di sviluppare le proprie capacità produttive, anzi. Questo è un grosso svantaggio e soprattutto non crea futuro.Da quel che sento però il problema è anche che, attraverso questi meccanismi di coercizione che sono le sanzioni, i potenti giocano su accordi trasversali che generano molta confusione e incertezza e non lasciano al Paese la possibilità di essere libero nelle scelte di investimento e collaborazione per la ricostruzione. Questi meccanismi mi sono assolutamente sconosciuti ma a livello di gente comune come noi generano il logoramento della non comprensione, della mancanza di visione delle possibilità per l’avvenire e anche la destabilizzazione di vedere la governabilità del Paese continuamente sotto pressione, ormai da anni e anni, e la paura che la Siria alla fine possa non farcela e di non sapere quali potrebbero essere realmente le alternative alla situazione attuale. La moderazione della situazione politica della Siria è una realtà assai preziosa che sarebbe un vero peccato svendere a fondamentalismi di qualsiasi colore».