Vita Chiesa
Le religiose anti-tratta dal Papa. «Le persone non devono essere né comprate, né vendute»
Le chiamano suore anti-tratta, ma il termine è riduttivo rispetto all’impegno di frontiera, delicato e rischioso, che portano avanti da dieci anni tramite la rete Talitha Kum: liberare donne, bambini e uomini dalle condizioni di schiavitù in cui si trovano. Papa Francesco ha voluto incontrarle in udienza privata, durante l’assemblea generale che le ha portate a Roma dal 21 al 27 settembre. 86 delegate provenienti da 48 Paesi, tutte parte di questo grande network presente in 92 Paesi, con 44 reti nazionali nei cinque continenti. Dieci di loro sono state premiate per il loro impegno: da Nigeria, Italia, Thailandia, Perù, Canada, Stati Uniti, Australia, Filippine, India. Tutte unite e determinate nella lotta a tutte le forme di schiavitù del XXI secolo, fenomeno che coinvolge nel mondo almeno 40 milioni di persone, di cui il 70% sono donne e bambini.
La tratta delle spose in India. Tra le premiate c’è suor Jyoti Pinto, indiana di Mangalore, della Congregazione delle Sorelle del piccolo fiore di Betania, che ha sede proprio nella capitale dello Stato del Karnataka. Mentre era alla guida della sua congregazione ha contribuito alla nascita e alla crescita di Amrat-Talitha kum, che in sanscrito significa «dare vita». Tant’è che ad oggi vi partecipano 70 congregazioni e 600 religiose. Suor Jyoti non si stanca di telefonare, scrivere, incontrare personalmente le superiori generali per chiedere loro di entrare a far parte della rete. Le suore indiane hanno a che fare con la tratta delle spose, con lo sfruttamento sessuale nei giri della prostituzione, con i bambini costretti a lavorare nelle fabbriche di mattoni, nell’edilizia, con gli uomini usati come come manovalanza a basso costo nell’agricoltura. In maggioranza appartengono alle caste più povere, ai gruppi tribali.
La tratta delle spose, ad esempio, coinvolge migliaia di donne e ragazze provenienti dalle zone più disagiate dell’India, come gli Stati orientali di Orissa, Bihar, Jarkand, West Bengala. «In molti villaggi del nord, negli Stati di Punjab e Haryana, non ci sono donne perché preferiscono i figli maschi – racconta suor Jyoti -. Così le ragazze vengono adescate in altri Stati e trafficate a questo scopo». Lo spostamento avviene attraverso agenzie legali e illegali che si occupano della ricerca della candidata giusta per conto delle famiglie, organizzano l’incontro, le feste di matrimonio. Le agenzie illegali cambiano sede e numero di telefonano continuamente. I prezzi vanno da poche centinaia di rupie a migliaia di dollari. Dipende dallo status economico delle famiglie. «Le ragazze – spiega – vengono ingannate. Pensano di trovare una buona famiglia e un buon lavoro, non si rendono conto di essere vittima di tratta, di violenza e abusi sessuali. Anziché sposarsi molte vengono destinate al lavoro domestico in condizioni di schiavitù. Le famiglie molto ricche hanno quattro o cinque ragazze in casa».
In Perù la Red Kawsay, informazione e sensibilizzazione. Una parola in quechua, la lingua del principale gruppo etnico del Perù, indica la cosmovisione ancestrale della vita: Kasway. Così le 39 congregazioni che aderiscono alla rete peruviana di Talitha kum hanno deciso di chiamare il loro impegno: Red Kawsay, «vita consacrata per una società senza tratta». Un nome che i peruviani hanno letto su migliaia di volantini e manifesti diffusi durante gli ultimi Giochi pan-americani che si sono svolti a Lima dal 26 luglio all’11 agosto. In quell’occasione hanno lanciato una campagna nazionale intitolata «Gioca per la vita» per sensibilizzare sul fenomeno della tratta.
Durante le manifestazioni sportive aumenta infatti la domanda di sesso a pagamento da parte di tifosi e turisti. Le suore anti-tratta hanno messo a disposizione un numero verde – 1818 – per denunciare eventuali situazioni, perché «le persone non devono essere né comprate né vendute». Tra il 2010 e il 2018 sono state 6.574 le denunce, in continuo aumento. L’85% delle vittime erano donne e bambine, il 64% ha meno di 17 anni. La maggioranza sono peruviane. Molte ex vittime sono diventate con il tempo trafficanti, e così riescono ad ingannare più facilmente la fiducia delle giovani. Negli ultimi anni sono aumentate le ragazze venezuelane, a causa degli ingenti flussi migratori dal Venezuela. Suor Maria Isabel Chavez Figueroa, peruviana, della Congregazione di Nostra Signora della Carità del Buon pastore lavora dal 1994 nel centro «Maria Agustina Rivas», dove incontra giovani donne sfruttate a scopo di prostituzione. Anche lei ha ricevuto un premio per l’impegno profuso nel diffondere la rete in tutta l’America Latina. «Lavoriamo molto nella sensibilizzazione – dice al Sir -. Abbiamo ‘agenti moltiplicatori’, ossia religiosi e sacerdoti sul campo, che possono dare una buona informazione sul fenomeno. Facciamo lavoro di prevenzione con giovani e bambini». In Perù ci sono tante bambine e donne in condizioni di vulnerabilità, abbandono, povertà e mancanza di educazione. «Vengono adescate nei villaggi con la promessa di un buon lavoro e portate nelle grandi città o nei centri minerari per farle prostituire, soprattutto a Madre de Dios e Puerto Maldonado – spiega suor Maria Isabel -. Gli uomini giovani della zona andina sono invece sfruttati come manovalanza nelle miniere d’oro». In Perù esiste un buon piano nazionale anti-tratta e altre normative che potrebbero aiutare a contrastare il fenomeno ma c’è molta corruzione, machismo e disumanizzazione. «Non capiscono che le persone non sono un prodotto – afferma la religiosa -. C’è l’idea che il denaro può comprare tutto, anche un corpo».
Da ex vittima a educatrice sociale con altre donne. «Vivo tutti i giorni con le donne vittime di tratta. È una sofferenza senza fine». Helen sa bene di cosa parla, tant’è che durante il suo intervento all’assemblea è scoppiata in un pianto dirotto: «Siccome ho vissuto in prima persone queste sensazioni ringrazio Dio per essermi salvata». Aveva 20 anni quando incontrò in carcere una religiosa di Talitha Kum che le diede fiducia e aiuto. La madame l’aveva denunciata per sfruttamento della prostituzione, ma era lei la vittima. Arrivata in Italia dalla Nigeria con la promessa di un lavoro, si è ritrovata in strada, sottoposta a violenze fisiche e psicologiche e costretta a ripagare un debito enorme per il viaggio. Ora Helen è felice, ha un marito e due figlie e fa l’educatrice sociale in una località protetta in Sicilia. Aiuta altre donne ad uscire dalla situazione di schiavitù in cui si trovano. «A volte sono le stesse famiglie, gli amici, i conoscenti della famiglia a spingerle al viaggio, pensano che andranno a lavorare in Europa – rivela -. Altre sanno che le figlie finiranno in strada, ma sono interessate solo ai soldi. I momenti più brutti sono quando i trafficanti vanno nelle case delle ragazze, picchiano le madri, danno fuoco all’abitazione e costringono le madri a convincere le figlie a partire». «Quando dico che devono andarsene dalla strada a volte mi picchiano – racconta -. «Non capiscono che sono schiave, anche se vivono in un incubo». «Ogni volta che sentono i genitori al telefono piangono per tutta la giornata. Dobbiamo aiutare queste ragazze con tutto il cuore».