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Mons. Bizzeti: “La guerra mondiale a pezzi che dall’Italia non vediamo”
"Di fatto si stanno scontrando due sistemi di civiltà: quello oligarchico e quello democratico; quello basato sul rispetto degli accordi internazionali e quello dell’aggressione brutale dove vince il più forte. Di tutto questo sembra ci sia scarsa consapevolezza in Italia". Parla mons. Paolo Bizzeti, gesuita fiorentino dal 2015 è vicario apostolico dell’Anatolia, la regione asiatica della Turchia
Il vescovo Paolo Bizzeti, gesuita fiorentino, dal 2015 è vicario apostolico dell’Anatolia, la regione asiatica della Turchia. La sua sede è a Iskenderun, sul Mediterraneo, vicino al confine con la Siria, ma la diocesi arriva sino al Mar Nero, a 1200 chilometri di distanza.
La Turchia controlla, come tutti sanno, la costa sud, il Bosforo e lo stretto dei Dardanelli; ma in epoca ottomana cercò di estendere il suo potere anche sulla costa nord in conflitto con la Russia che progressivamente ne assunse il controllo, anche grazie al dominio su Bulgaria e Romania, almeno fino alla caduta dell’Urss. Adesso la politica di Putin e degli oligarchi mira chiaramente a estendere il dominio sul Mar Nero: per questo l’appoggio al partito filorusso in Giorgia nel 2008, l’intervento per il controllo del Nagorno Karabakh, l’appoggio ai ribelli delle zone limitrofe del Caucaso, avendo sempre di mira la ricostituzione dell’impero bolscevico.
La guerra in Ucraina non è limitata all’Ucraina ma riguarda da vicino tutti: ormai è diventata una guerra globale in cui, in maniera più o meno velata, tutte le grandi potenze sono coinvolte. Di fatto si stanno scontrando due sistemi di civiltà: quello oligarchico e quello democratico; quello basato sul rispetto degli accordi e trattati internazionali e quello dell’aggressione brutale dove vince il più forte. Di tutto questo sembra ci sia scarsa consapevolezza in Italia, mentre, guardando gli scenari dalla Turchia, tutto questo appare piuttosto evidente.
La storia mostra che solo le civiltà capaci di avere una fisionomia multi etnica, multi culturale e multi religiosa, sono diventate grandi; senza che questo volesse dire rinunciare alla propria identità di fondo. Così è stato per la civiltà mesopotamica, per quella ellenista, per quella romana, per quella ottomana, e anche per quella veneziana, capace di intrattenere relazioni, più o meno semplici, ma costanti, con partner differenti.
La sfida di accogliere coloro che desiderano diventare cristiani richiede anche da noi una diversa prassi di chiesa, meno basata su liturgie e clero e maggiormente radicata nella parola di Dio e nella famiglia.
Ma i problemi più grossi li vivono i rifugiati cristiani provenienti dai paesi vicini. Questi vivono una situazione drammatica di stallo, senza futuro e soprattutto impossibilitati a una vita cristiana comunitaria che richiede luoghi di culto, centri giovanili e culturali, pastori che li aiutino a interpretare bene il tempo dell’esilio in cui vivono. Non abbiamo preti e suore che siano al servizio del gregge, non abbiamo la possibilità di un libero scambio tra le comunità perché i rifugiati sono relegati nelle città assegnate dal governo e, sebbene siano sotto la protezione Unhcr, ogni volta devono ottenere un permesso dalla polizia per uscire dalle loro città, permesso spesso negato. Non esito a dire che è un popolo cristiano martire.