Vita Chiesa
Terra Santa, diario di un pellegrinaggio
Giovedì 22 marzo
L’ultimo giorno in questo tipo di pellegrinaggi, quello del rientro a casa, parla ovviamente la lingua del viaggio. Gli oltre 2.300 km che separano Tel Aviv e Fiumicino.
E gli assai meno chilometri fra Gerusalemme e la capitale Tel Aviv (gli israeliani, almeno quelli più radicali, si arrabbiano perché per loro, e purtroppo anche per il presidente Donald Trump, in contrasto con quanto stabilito dall’ONU, la «capitale» di Israele è Gerusalemme) sono generalmente interrotti da una sosta a Emmaus: una delle varie località che in tempi antichi potevano essere chiamate in questo nome.
Anche questa è una sosta di viaggio: il viaggio di quei discepoli cui apparve il Risorto mentre, appunto, stavano camminando. Tardarono, loro, a riconoscerlo. Così come tanto spesso tardiamo noi.
La nostra Emmaus, stavolta, si chiama Abu Gosh: un villaggio arabo cristiano dove i crociati edificarono una chiesa notevole. Quando ci arriviamo l’edificio è, purtroppo, ancora chiuso. Noi dobbiamo essere di lì a poco al Ben Gurion per i complessi controlli di sicurezza. Non ci resta dunque che ascoltare il brano del Vangelo e dire una preghiera che, anche, è un ringraziamento.
Un dettaglio di non poco conto sulla sicurezza in aeroporto, specie sui voli El Al la compagnia aerea israeliana: come bene sa chi ha fatto questa esperienza, bisogna entrare in aeroporto almeno tre ore prima della partenza e prepararsi a una sorta di interrogatorio che presenta, almeno per noi … non terroristi, aspetti perfino divertenti.
Esempio quando ti chiedono, seri, se con te in valigia porti esplosivi, se nel soggiorno qualcuno ti ha consegnato una bomba e se la valigia te la sei fatta da solo oppure no. In ogni caso, passati gli almeno 4 filtri della sicurezza sei tranquillo che il volo sarà arcisicuro.
Ma il nostro «cammino» dell’ultimo giorno è iniziato prima. Subito dopo colazione in albergo al Campo dei Pastori di Betlemme.
Nello spirito, forse non del tutto consueto ma assai stimolante, di questo nostro pellegrinaggio che cerca di capire anche la vita attuale in questi luoghi, andiamo in una bella struttura messa in piedi da quella che si potrebbe definire Caritas parrocchiale. Ci aspetta Vincenzo Bellomo che già, il giorno prima, ci aveva fatto conoscere una Betlemme diversa.
E’ un centro che accoglie donne, in genere anziane, rimaste sole, in condizione di povertà e anche con qualche forma di disabilità mentale. Qui, in Palestina, manca del tutto il welfare e se non ci fossero i cristiani molte di queste donne finirebbero in uno dei due «ospedali dei pazzi» al Nord e al Sud della Palestina.
Qua, invece, suore (le «Giannelliane» di Rapallo) insieme a volontari locali ma anche volontari in arrivo dall’Italia, accudiscono queste persone in difficoltà. Vediamo una struttura più che dignitosa. E non possiamo che apprezzare il lavoro dei volontari: qua arrivano, a turni settimanali, dall’Italia attraverso organizzazioni varie (Azione Cattolica, Misericordie, Unitalsi, ma anche altre) di età varia (questa settimana c’è, ad esempio, una ragazza di 24 anni e un signore che di anni ne fa 74). Ed è, questo, volontariato puro: loro si pagano il volo e anche qualche spesa di soggiorno.
Un’idea concreta per chi ne avesse voglia. Qui – dice Vincenzo – do cose da fare ce ne sono tante.
E Vincenzo (arrivato nel 2006 come volontario e rimasto come prezioso collaboratore della Custodia Francescana, e che qui ha trovato moglie – una donna palestinese – e ora ha due figli) ci racconta ancora meglio le difficoltà del vivere oltre al muro. A Betlemme la povertà non manca. Prima erano molti, anche fra gli arabi cristiani, a vivere da benestanti. Ma tutto, dal 2000, si è fermato. E ora in molti sono poveri. Qualcuno emigra, impoverendo ancora più la presenza cristiana.
Poi ci sono le vessazioni che i più forti esercitano sui più deboli: piccoli o grandi gesti per far capire chi è, anche in terra palestinese, che detta le regole (e non sono i palestinesi. Peraltro pure loro, a livello di potere, pieni di problemi: corruzioni, malgoverni e altro). A soffrire è il popolo, sono i più deboli e fragili. E meno male che esistono segni di speranza: come la struttura che abbiamo visitato.
Andiamo via con la voglia di fare qualcosa. Anche per far conoscere quei segni di speranza. E per aumentare, in chi si ferma alla sola informazione «ufficiale», la consapevolezza su quanto, in realtà, le cose siano assai più complesse. Avremo tutti, presto, un modo particolare di rifletterci: quando il Giro ciclistico d’Italia 2018 partirà proprio da Israele.
Il governo di quel Paese ci punta molto, soprattutto in termini di propaganda. Forse sta a noi approfondire meglio, capire di più, non fermarsi all’apparenza: magari dare una mano a quelle forze israeliane (politiche e intellettuali, ma anche civili e perfino militari) che dissentono dalle scelte del governo conservatore di Benjamin Netanyahu. E che lo fanno anche nel tragico ricordo dell’Olocausto nazista contro gli ebrei.
Ringraziando Vincenzo e suor Lisa (una indiana che ha vissuto in Liguria) anche per il buon caffè e gli ottimi dolcetti che ci hanno offerto, ripartiamo verso Gerusalemme.
Abbiamo Messa, l’ultima Messa in questo nostro viaggio di fede, nella Cappella di Casa Nova. Il nostro don Sergio, che dopo l’infortunio di don Cesare, si è trovato a doversi impegnare ancora più a nostro servizio, celebra nella cappella di Casa Nova. Da don Cesare e da chi è rimasto con lui, arrivano notizie rassicuranti: l’operazione è andata bene e il decorso è tranquillo.
In attesa del pranzo (si sta davvero bene in questa struttura francescana. Pare abbiano da poco inaugurato perfino una pizzeria) il gruppo torna nei pressi del Sepolcro che sta a due passi da Casa Nova. C’è da fare gli ultimi acquistini in un mercato pieno di colori. E c’è soprattutto da rendere un’occhiata a un luogo così incredibile.
A me resta la voglia (pare sia possibile) di passarci una notte intera in preghiera e in ascolto, chiuso dentro con i francescani e con i religiosi delle altre confessioni cristiane. In base allo status quo, infatti, nessuno può mai lasciare la Basilica: c’è il rischio di perderne l’uso. Così dalle 19 di sera fino alle 4 di ogni mattina, l’edificio viene chiuso (con una cerimonia assai particolare. Le chiavi, da secoli, le ha una famiglia musulmana) e i religiosi si rinchiudono dentro.
Il nostro viaggio di fine Quaresima finisce, a due giorni dalla Domenica delle Palme, con il volo LY383. Poco meno di 3 ore (con fuso orario diverso) e siamo a Roma. Poco più di 3 ore e, con un altro pullmino, si arriva a Pistoia. Nel cuore della notte. Stanchi e con la voglia di far sedimentare i tanti ricordi. Le foto (quantità industriali) certo aiutano. Così come il gruppo WhatsApp.
Ma aiuteranno assai più il lavoro interno, la preghiera, le letture. E qualcuno di noi, chissà, presto sarà pronto per un nuovo viaggio.
Mercoledì 21 marzo
Un piccolo emisfero in marmo chiamato «l’ombelico del mondo». Si trova nel Santo Sepolcro, a Gerusalemme, nel settore dei greci ortodossi.
Mi avrebbe fatto piacere vederlo: peccato che quello spazio non sia visitabile. In ogni caso la definizione rende bene l’idea che si può provare visitando questa città: hai davvero l’impressione che molto, se non tutto, dei problemi nel mondo possa dipendere da ciò che capita qui, in questa città davvero cara alle tre grandi religioni monoteiste.
L’impressione l’abbiamo avuta anche in questa penultima giornata di pellegrinaggio, tutta trascorsa proprio a Gerusalemme, partendo e rientrando da Betlemme.
In poche ore e con la inevitabile superficialità di una rapida toccata e fuga, abbiamo visitato i tre luoghi più cari per ebrei, cristiani e musulmani.
Prima la spianata del tempio (non breve coda per entrare, controlli rigorosi anche sull’abbigliamento femminile), poi il Santo Sepolcro (qui nessun controllo, il solito caos interno che può anche stupire chi arriva per la prima volta) per finire, a inizio sera, con quello che comunemente si chiama «muro del pianto» (le donne a destra e gli uomini a sinistra, impossibile per i maschi entrare a capo scoperto, in compenso nessuno ti dice nulla se fotografi i continui movimenti degli ebrei ortodossi in preghiera).
Le due moschee, la sinagoga, le cappelle cristiane di cinque o sei confessioni diverse: la dimensione religiosa ha la sua potenza e le sue contraddizioni (anche interne).
In questa città è facile toccare la potenza e fare i conti con le contraddizioni. Ma anche temere quando il livello delle contraddizioni si alza e, magari, finisce nel sangue (come è capitato proprio qui, in zona muro del pianto, pochi giorni fa con un accoltellamento).
Anche a noi, stamattina, proprio da quelle parti, è capitato di assistere a una piccola lite, e forse pure a un arresto, da parte della polizia e dei militari di Israele.
Eppure la città si conferma tranquilla. Sbaglia alla grande chi rinuncia a un pellegrinaggio religioso, o anche a un viaggio di puro turismo, per timore chissà di cosa. Sbaglia.
Piena di contraddizioni anche l’esperienza della via crucis verso il Sepolcro. Non aspettatevi silenzio e raccoglimento. Tutto passa attraverso il mercato, per cui puoi trovarti a pregare e a leggere sulle ultime tragiche ore di Gesù davanti a un negozietto che vende «le trenta monete di Giuda» oppure sandali oppure dolci oppure chincaglieria, candele, rosari, capi di abbigliamento, crocifissi in legno, valige, icone, spremute di melograno (ottime, peraltro).
Raccogliersi non è facile. Forse è più facile smarrire qualcuno se si è in gruppo.
Non è semplice capire, nella città storica di oggi, distrutta e ricostruita più volte nel corso dei secoli, come stavano le cose ai tempi di Gesù. Eppure, specie se il pellegrinaggio è stato preparato prima, anche una Via Crucis in queste condizioni può essere un aiuto alla fede.
E infine il capitolo Sepolcro. Un luogo dal fascino immenso, anche solo riandando alla sua storia bimillenaria.
Anche solo pensando a quella situazione (lo status quo) che dal 1852 ha cristallizzato le regole di convivenza fra le diverse confessioni cristiane che si spartiscono il luogo della morte e della risurrezione di Cristo. Chissà che ne pensa, Lui, da lassù.
Stavolta, dal tetto, oltre al fascino degli etiopi che ci vivono sopra ho scoperto (nel senso che non c’ero mai stato prima) la cosiddetta «cisterna di Elena»: scendendo qualche decina di gradini resi scivolosi dall’umidità si arriva in una grande cisterna che, sul fondo è ancora piena di acqua. Appartiene agli ortodossi copti. Un euro per entrare.
Ma è nella basilica che trovi spunti per la tua fede di cristiano. Una fede che, se certo non ha bisogno di «prove» per credere, non può non emozionarsi salendo i gradini (ripidi) del Calvario, entrando (lunga coda) nel Sepolcro o scendendo nella cappella del ritrovamento della croce.
Tutta da vedere (ogni sera ore 19. Ma attenti: nel Sepolcro e nella Natività l’ora legale non entra mai in vigore) la cerimonia della chiusura. Con la chiave affidata, da secoli, a una famiglia musulmana. O con quella misteriosa scala di legno, sulla facciata in alto, impossibile da rimuovere proprio per via dello status quo.
I rapporti tra le diverse confessioni cristiane stanno, peraltro, migliorando. Ci se ne rende conto anche grazie ai restauri effettuati: l’ultimo proprio nel luogo centrale, l’edicola che racchiude la tomba del Cristo. Fino allo scorso anno era annerita da secoli di candele nonché circondata da sbarre di ferro. Ora è stata finalmente messa in sicurezza.
Lì dentro è capitato un fatto incredibile. Presto sarà un’altra volta Pasqua e … ne sentiremo riparlare scambiandoci auguri in genere oggi frettolosi e rituali.
Posare le mani, anche solo per pochi secondi, sul marmo che protegge la pietra su cui fu adagiato il corpo del Salvatore, è esperienza da provare. Almeno una volta nella vita.
Martedì 20 marzo
Gerusalemme. Finalmente Gerusalemme. Ci passiamo due giorni e per arrivarci, da Betlemme, oggi è obbligatorio passare un posto di blocco. Sotto il muro in cemento armato.
Pochi chilometri in linea d’aria separano due città divise fra autorità politiche diverse. Dai siti on line leggiamo che poche ore fa, fra quel Muro del Pianto e quella Spianata delle Moschee che vedremo domani, è accaduto un grave fatto di sangue. Odio, rancore, ingiustizia non mancano da queste parti. Eppure la nostra giornata fra la città della nascita e quella di una morte seguita dalla rinascita, passa tranquilla.
Qualcuno fra noi, sobbarcandosi la «fatica» di una levataccia, prende la Messa delle 5 nella grotta della Natività. Esperienza da consigliare anche se, come in questo caso, la Messa è in lingua inglese. Impagabile la Basilica vuota. Suggestiva la preghiera cantata degli Armeni. Radicale la posizione in preghiera di quella monaca a metà grotta.
Il programma in Gerusalemme (al controllo di … frontiera entra sul pullmino, mitra spianato, un militare israeliano. Ci chiede se siamo tutti italiani. Ci saluta sorridendo) prevede due località in posizione elevata: il Monte degli Ulivi e il Monte Sion.
Dalla cappella dell’Ascensione con i venditori di improbabili catenine d’argento all’orto del Getsemani con gli ulivi millenari: tutto in discesa (chi c’é stato sa come può essere ripida quella discesa) passando per la grotta del Padre Nostro, il Dominus Flevit, la Grotta del Getsemani e la chiesa ortodossa dedicata alla «dormizione» di Maria.
Fare questo percorso in Quaresima aggiunge un valore ancora maggiore alle impressioni forti che tutti noi proviamo. In particolare ci troviamo d’accordo, nella condivisione che facciamo ogni sera in albergo, nell’attribuite al Getsemani la «palma» – se così si può dire – «d’onore».
Inginocchiarsi su quella grande pietra dove Cristo tanto soffrì e toccare quelle spine in ferro che a tutti noi certo ricordano qualcosa, regala uno dei momenti forti dell’intero cammino.
Da non trascurare, nella parte alta della discesa, uno dei panorami più famosi (e fotografati) al mondo: quello su Gerusalemme, con le cupole e i campanili, i minareti e i grattacieli, i cimiteri e una città che capisci bene come sia centrale nel mondo.
Capisci bene anche un’altra cosa: che di gruppi italiani in pellegrinaggio ce ne sono davvero pochi. Anni fa eravamo, dal tricolore, davvero molti in più. Oggi ci superano da luoghi lontani: Oriente estremo in particolare. Qualcosa vorrà pure dire.
In fondo alla discesa nella Valle di Giosafat, riprendiamo quel pulmino bianco che qualche ora prima ci aveva scaricato su in alto e che ora ci porta a una fra le porte della città (a tanti piacerebbe fare il giro su queste grandi mura): la Porta di Giaffa.
Da qui è semplice arrivare al luogo, ancora francescano, fissato per il pranzo: Casanova. Qui ci si imbatte nel direttore, padre Ibrahim Faltas, che non si fa pregare troppo per stare con noi una mezzoretta. Ci parla di pace fra popoli, Stati e religioni. E ci offre pure un buon caffè.
A piedi nel quartiere armeno (deliziose le loro ceramiche) ecco gli incontri pomeridiani sul Sion: il Cenacolo e l’altra «dormizione» di Maria (posso dirlo? Quella statua nella cripta non è fra le mie preferite).
Come in tutti i luoghi del pellegrinaggio, non mancano da parte del sacerdote (nel nostro caso di chiama Sergio) letture e riflessioni. Così come, nel Getsemani, non è mancata la Messa.
Due i … fuori programma. A Gerusalemme una breve visita, nella Chiesa interna al Patriarcato Latino, alla tomba del «nostro» Alberto Gori: il pistoiese che, fra il 1937 e il 1970, qui fu prima Custode poi Patriarca.
Tornati a Betlemme l’incontro toccante della giornata è con le suore della «Hogar Nimo Dios». Quattro argentine e una peruviana che da anni stanno facendo un grande lavoro con bambini disabili in un contesto culturale dove la disabilità è considerata maledizione di Dio e dove gli scartati lo sono, purtroppo, davvero.
Il coraggio e la serenità di queste suore (da anni l’associazione che organizza il pellegrinaggio sostiene questa struttura) fanno il paio con quei volontari italiani che troviamo sopra, impegnati con i piccoli.
Da aggiungere il nome della suora che ci introduce a questo spaccato di vita contemporanea a due passi dalla Natività: si chiama suor … Gesù.
E Chiara si chiama la ragazza umbra , 23 anni, che fa parte del gruppo di volontari questa settimana impegnati nella «Hogar». Si alternano, dall’Italia, su iniziativa congiunta di Azione Cattolica e di Unitalsi. La più giovane è Chiara, il più vecchio ha 74 anni. Sono qui a loro spese. E anche questo, forse, vuol dire qualcosa.
Lunedì 19 marzo
Orgoglio pratese e, insieme, senza sfottò, orgoglio pistoiese. Può capitare solo qui, a Betlemme e a noi pellegrini pistoiese con qualche venatura pratese, è capitato questa mattina in Basilica della Natività. Difficile non provare orgoglio vedendo i risultati del lavoro di tante maestranze italiane, coordinate dalla Piacenti spa, azienda di Prato che dal 2014 sta restaurando pietre (e non solo) di un edificio sacro così unico al mondo.
Una meraviglia i mosaici ripuliti, una meraviglia le figure che stanno emergendo sulle colonne, una meraviglia il tetto dove prima ci pioveva, una meraviglia la luce che adesso inonda una chiesa che tutti eravamo abituati a vedere sullo scuro andante.
Assente in questi giorni il titolare Gianmarco, stamani abbiamo parlato con il nipote. E abbiamo visto al lavoro tante persone che ci mettono professionalità e passione.
La parte … pistoiese dell’orgoglio ce l’ha comunicata una piccola suora francescana. Suor Faysa, nata in Egitto e da molti anni in «Casa Nova» di Betlemme per conto della sua congregazione: le «Minime» di Poggio a Caiano (che sta in provincia di Prato ma anche in diocesi di Pistoia). Ci ha raccontato, Faysa, ciò che sta facendo (catechismo e Caritas) nella parrocchia latina (cioé cattolica) della città dove è nato Gesù. Ma soprattutto ha reso testimonianza sui 40 giorni passati sotto assedio, fra il 2 aprile e il 10 maggio 2002, in un luogo così sacro.
Il coraggio di queste 4 suore e dei 22 frati che scelsero di restare in uno spazio dove poteva scoppiare una tragedia dalle proporzioni incalcolabili, è venuto fuori dal racconto.
Un racconto fatto anche con la corda dell’umorismo e soprattutto basato sulla forza di un cristianesimo vissuto. «L’eroe porta l’armatura, il santo è nudo», scrisse nel diario dei 40 giorni di assedio il francescano allora guardiano della basilica citando una frase di Simon Weil martire cristiana in un campo di sterminio nazista.
E questi religiosi, 16 anni fa, dimostrarono al mondo intero, premuti da violenze contrapposte, la forza mite di un cristianesimo praticato attorno alla grotta del Salvatore.
A proposito di grotta: scendere in questa, a Betlemme, è sempre fonte di sensazioni forti. Confermato pure questa volta: e non solo a chi qui è venuto per la prima volta. Belle anche le visite al Campo dei pastori E, nel pomeriggio, a Ein Karen: il villaggio, oggi sobborgo di Gerusalemne, che rimanda a Giovanni il Battista.
Giornata conclusa con un fuori programma: la visita al quartiere cristiano della città, accompagnati da Vincenzo Belluomo. E’ un giovane siciliano arrivato in Custodia come volontario e oggi responsabile, in pratica, della locale Caritas. Ci ha fatto toccare con mano difficoltà e orgoglio dei cristiani di qui, stretti e costretti fra tante difficoltà. La Custodia sta facendo un gran bel lavoro per aiutarli a non andarsene.
In un esempio di questo lavoro ci siamo entrati: un (davvero notevole) b&b ricavato da un’antica abitazione cristiana a due passi dalla Natività. 8 camere per 14 posti letto con una terrazza-tetto impagabile.
Ad aiutare il lavoro di «Pro sferra Sancta», associazione a supporto della Custodia, anche un gruppo di giovani italiani in servizio civile. Noi abbiamo conosciuto Giulia, 24 anni, da Piacenza: arrivata a Betlemme da pochi giorni, starà qui 10 mesi.
Quanto al lungo muro che circonda Betlemme e separa Israele dalla Palestina, basta guardarlo in uno dei «varchi» di Betlemme per far venire la voglia di fare qualcosa. Qualcosa di «altro» rispetto a una barriera che se non è di cemento armato è di filo spinato elettrificato.
Domenica 18 marzo
Oggi il cammino, più che noi pellegrini, lo ha fatto il pulmino bianco. Carico pure delle nostre valigie (abbiamo lasciato Nazareth), il mezzo ci ha portato verso sud. Fino a Betlemme.
Cammino lungo: attraverso le colline della Samaria e il deserto della Giudea; attraverso due realtà politiche e amministrative, contemporanee, che si intersecano in continuazione giustificando le spiegazioni di Salim, la nostra guida, su Israele e Palestina, la «zona A» e le altre due. Ed è non privo di fascino questo alternarsi di passato e presente: i passi, le strade, i comportamenti di Gesù messi in inevitabile «confronto» con ciò che lì accade oggi. Per scendere verso Gerusalemme, Gesù non aveva sbarramenti militari da oltrepassare, checkpoint a cui mostrare documenti. Noi invece, ma soprattutto il popolo palestinese, si: ogni giorno.
Il primo appuntamento con un rimando evangelico, in questa quinta domenica di Quaresima, è un pozzo: quello di Giacobbe, quello della Samaritana. Sta in un borgo di quella che oggi si chiama Nablus: grande, confusa, città palestinese che continua a riempire di case e casermoni le colline circostanti.
Sopra quel pozzo (spazio profondo di notevole fascino) alcuni monaci ortodossi hanno costruito una chiesa. Uno di loro, con barba regolamentare, propone piccoli ricordi in ceramica riempiti con quell’acqua. Inevitabile leggere il brano di Vangelo e inevitabile, tornati sul pulmino, una riflessione sul significato dell’acqua in una terra dove il controllo dell’acqua è potere: un potere esercitato in modo non sempre rispettoso per il libero diritto a un bene comune così prezioso.
Da queste parti – lo ritroveremo anche altrove, esempio a Betlemme – le case sono coperte da grandi contenitori: cisterne sui tetti per raccogliere l’acqua quando c’é e usarla bene. Ripenseremo all’importanza dell’acqua anche scendendo, dalle colline verdi della Samaria, verso la fossa del Giordano: zona desertica dove però l’acqua riesce a mantenere grandi coltivazioni di frutta e verdura.
Affascinanti i panorami che oggi abbiamo potuto vedere. Affascinante il deserto attorno a Gerico.
Qua e là spuntano «gli insediamenti»: parti di territorio palestinese occupati, in modo oggettivamente illegale, da Israele e talvolta circondati da alte mura. Lì abitano e lavorano, protetti dai militari, «coloni» e questo è uno dei motivi che rende di difficile praticabilità una vera pace fra le due forze in campo.
Non tutto, certo, è separabile in modo netto fra «buoni e «cattivi»; contraddizioni le puoi trovare ovunque. Resta fondamentale un concetto che ci esprime la guida: vivere a Gerusalemme e da queste parti non è semplice, bisogna imparare a rispettare gli altri.
Chi dà una mano in questa direzione è la piccola comunità cristiana, con particolare riferimento ai francescani: ed è nella loro chiesa parrocchiale di Gerico (a proposito: da queste parti si mangiano datteri incredibilmente buoni) che nel pomeriggio prendiamo messa. Una oasi di tranquillità, non a caso circondata da scuole, dove si può incontrare perfino una famiglia di pavoni.
Salendo attraverso un deserto un tempo pieno di eremiti (oggi ne sopravvivono alcuni e ogni tanto di incontrano pure residui beduini) che rimanda a una fra le parabole più note (il Buon Samaritano), si arriva a Gerusalemme. Abbiamo la fortuna di arrivarci al tramonto. Spettacolo assicurato.
La nostra metà, quella dove pernottereno nei prossimi giorni, è Betlemme: ma per via del muro che la circonda (la città di Gesù oggi fa parte dei territori palestinesi) dobbiamo traversate tutta Gerusalemme, ovviamente nella parte moderna (compresa una visione sul ponte di Calatrava e sul quartiere degli ebrei ortodossi).
Ci si entra, a Betlemme, ripassando da un checkpoint (vietato fare le foto). E prima di scendere in albergo, una struttura nuovissima in Campo dei Pastori, non manca una visita in una cooperativa di cristiani palestinesi: presepi e rosari in legno d’ulivo, oggetti in madreperla, qualche icona autentica con tanto di certificato.
Una domenica di Quaresima da Nazareth a Betlemme per finire a Gerusalemme. Anzi: per ricominciare da Gerusalemme.
Sabato 17 marzo
«Il Signore rialza chi è caduto». Chi legge, tenga bene a mente queste parole che troveranno una spiegazione particolare alla fine di questo terzo racconto in una settimana di cammino in Terra Santa.
Per il momento basti sapere che è anche con questo Salmo che si è aperta la nostra preghiera in questo sabato di marzo sul pullmino bianco che oggi, da Nazareth, ci ha portati sul lago di Tiberiade o, se si preferisce, di Galilea.
Sabato di acqua e sabato di pietre. Dai finestrini, in un viaggio tutto in discesa dovendo noi arrivare a qualcosa come 200 metri sotto il livello del mare, osserviamo la fertilità di terreni vicino all’acqua.
Coltivazioni intensive di banane e aranci, mango e datteri, ulivi e pompelmi. Ma anche luoghi di grande storia (da queste parti i crociati vennero sconfitti dalle truppe di Saladino) e siti archeologici (esempio l’antico villaggio di Magdala. Quello della Maddalena).
L’autostrada in discesa finisce praticamente nel lago. E noi, sul lago, non possiamo che fare il più classico fra i «giri»: la Tabgha dei benedettini tedeschi, la Tabgha che ricorda il «primato» di Pietro (nel senso … papale del termine), il Colle delle Beatitudini, il giro in battello, la forza di Cafarnao.
Acqua e pietre. Pietre e miracoli. Acqua delle sorgenti che sgorgano a Tabgha, acqua di un lago che si sta prosciugando a vista d’occhio, ma anche acqua in bottigliette di plastica di notevole utilità nel caldo sopportabile di una giornata comunque primaverile (in piena estate, qui, il sole arriva a picchiare fino a oltre 40 gradi).
Inevitabile la «traversata» del lago in battello con le relative suggestioni fatte anche di silenzio quando il motore viene spento e l’unico rumore dovrebbe essere quello delle onde e dei gabbiani di lago (basta non ti capiti accanto la motonave «Queen of Scheba» affollata di chissà quali pentecostali, o simili, a «stelle e strisce», impegnati a cantare e ballare come «matti» nel nome di un Jesus d’oltreoceano.
Le pietre stanno nei mosaici (ultra fotografato quello che raffigura pani e pesci), nei gradini sul lago dove Cristo sedeva, negli scavi di Cafarnao: quelli che rimandano alla casa di Pietro e alla sinagoga bianca.
E poi i miracoli compiuti da Gesù: fa sempre un certo effetto leggere proprio qui certi brani di Vangelo.
Fra l’acqua del lago e le pietre di Cafarmao c’è anche modo di mangiare: a base di pesce (il «sanpietro») o di pollo (che da queste parti è sempre buono).
La giornata si chiude, tornati a Nazareth, con la visita ai Piccoli Fratelli: oasi di pace, e di senso, nel traffico impazzito della città di Maria.
Quanto al salmo iniziale, talvolta può anche assumere un tono più … prosaico. Esempio se uno di noi, scendendo le scale dopo colazione, rotola in terra e, magari, si rompe un femore. Finisce all’ospedale, deve essere operato d’urgenza e fa pure comprendere, indirettamente, il valore di un sistema sanitario come il nostro, italiano: un sistema che, a chi ha bisogno, non chiede carte di credito.
Venerdì 16 marzo
Una lapide spostata e una ceramica datata. Non sono certo le cose fondamentali che abbiamo visto in questa seconda giornata di cammino in Terra Santa. Ma entrambe hanno una loro singolarità, qui a Nazareth. La lapide ricorda Giorgio La Pira e un gemellaggio nel suo nome tra il giglio di Nazareth e quello di Firenze. Anni fa, in in altro pellegrinaggio, l’avevo vista proprio davanti all’ingresso principale della Annunciazione. Ma l’anno scorso, in un altro pellegrinaggio (confermo: qui, dopo la prima volta, in genere uno ci torna volentieri), quella lapide non l’avevo più ritrovata.
Chiarito il piccolo mistero: da qualche anno deve essere stata spostata. Infatti esiste ancora, ma più in alto: in un luogo, oltretutto, di non grande visibilità. Perché – ci siamo chiesti oggi pomeriggio, fra il faceto e il serio – non restituire a La Pira uno spazio … migliore? Quanto alla ceramica, la storia la racconta l’ultima guida dei francescani («Terra Santa»). Ed é una bella storia.
Fa parte, quella ceramica, delle tante, su Maria, che rendono unico l’ingresso inferiore della basilica. Omaggi da tutto il mondo per Colei che qui, alla luce della fede, ricevette l’Annuncio. E’ l’omaggio reso dalla Germania: Maria é raffigurata nell’atto di dare protezione a due bambini. I piccoli sono divisi da un muro. Che poi era quello di Berlino. Che poi crollò. Ma crollò – ecco il punto – poco tempo dopo rispetto al dono germanico suo a Nazareth.
Il muro di Berlino é rimasto solo in questa ceramica. Ma un altro muro, qui vicino, è stato nel frattempo costruito. Lo vedremo meglio da lunedì.
Se il nostro pomeriggio è passato nella città di Maria, dove con Giuseppe il piccolo Gesù é cresciuto, ha giocato, ha lavorato, la mattina ci ha visti salire su un monte e discendere in una città intitolata al primo miracolo.
Il monte è il Tabor. La strada per salirci è stretta. Si percorre con i mitici pullmini. Lassù si riflette su una vicenda complicata e affascinante (la trasfigurazione). E ci si imbatte in una (pesante) croce in legno che un pellegrino particolare, per un motivo particolare, si trascinò dietro dalla Baviera a Roma e da Roma fino a qui. Volete saperne di più? Andateci pure voi sul Tabor.
Monte di antica spiritualità, elevato punto di osservazione sulla realtà (che, ovviamente, non é solo quella geografica di una pianura fertile. Piena, ad esempio, di mandorli).
Il primo miracolo di Gesù tutti sappiamo quale fu e che ha a che fare con uno sposalizio. E qui, a Cana di Galilea, capita spesso che coppie cristiane «rifacciano» il loro matrimonio. Oggi don Cesare ne ha «celebrati» sei: il numero delle coppie presenti bel nostro gruppo.
A Nazareth, nel pomeriggio, non c’è mancato nulla. Il giro è quello classico. Chiesa ortodossa con fonte di acqua che scorre; antica sinagoga simile a quella in cui Gesù, predicando ai suoi, rischiò di finire lapidato (davvero nessuno é mai profeta in patria); Santa Messa (con tanto di accompagnamento sonoro di un muezzin registrato) nella chiesa di Giuseppe.
E poi un museo con graffiti mariani di forte fascino; per finire nella Annunciazione, la certo non invisibile chiesa a firma di giglio rovesciato.
Dopo cena ad alcuni di noi, usciti per due passi nel caos del traffico da venerdì sera, non é mancata neppure la (laicissima) scoperta di una buona pasticceria. Ma in questo caso la Fede (almeno quella con la effe maiuscola) c’entra davvero poco.
Giovedì 15 marzo
Valeva la pena. Quell’ora di silenzio condito da canti, letture, preghiere alla «Annunciazione» di Nazareth valeva, e vale, davvero la pena. La pena di questa prima giornata di pellegrinaggio in Terra Santa con un piccolo gruppo (siano in … 17) di pistoiesi partiti, dalla già capitale della cultura, nel cuore della notte.
Direzione Fiumicino. Direzione Tel Aviv. Direzione Nazareth. Dove – anche grazie al ritardo del volo, ai meticolosi controlli di El Al, al fuso orario in avanti di un’ora e a un traffico caotico da giovedì sera da Tel Aviv verso il nord (qui tutto è moltiplicato per tre. Anche le vigilie delle festività religiose settimanali), si arriva che è già notte. Ne fa le spese il Carmelo: andarci come da programma non è possibile.
In compenso non è male, sul pullmino, pregare le lodi e osservare il «muro» che separa gente di Palestina e gente di Israele. Non è male sfiorare paesoni arabi e centri israeliani. E non è neppure male il solito caos di questa Nazareth, la più grande città araba nello Stato di Israele, ci ricorda Salim, la guida.
Caotica e, diciamolo, sporchina (ma chi è che può, a tal proposito, dare lezioni ad altri? Possiamo farlo noi italiani?).
Eppure qui, a Nazareth di Galilea, se uno vuole, spazi di silenzio e di raccoglimento li trova.
Stasera ne abbiamo trovato uno davvero grande: in centinaia, da molte parti del mondo, raccolti in adorazione davanti alla grotta di Maria. Adorazione del SS Sacramento. Secondo ritmi lenti di una liturgia da noi, in genere, troppo spesso snobbata. Preghiere e canti, letture e silenzio. Soprattutto silenzio. Quello cui non siamo più abituati.
In molti, a casa, ci hanno chiesto, come sempre capita quando vieni qui, di pregare. Per le situazioni più diverse. Farlo, assicura uno che con la preghiera in genere ha qualche problemino, qui è più facile. Qui: dove una fanciulla ricevette un annuncio. Un annuncio clamoroso.