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Lampedusa, restituire nomi e storie a chi è morto nel Mediterraneo
Nel campo santo di Cala Pisana le tombe degli isolani si mescolano a quelle di coloro che hanno tentato di raggiungere l’Europa attraversando il Mediterraneo, ma che in questo “viaggio della speranza” hanno perso la vita. Per la maggior parte sono corpi senza nome, ma ognuno con una storia che ha bisogno di essere recuperata e custodita.
“Questo mare che ci avvolge nel presente non è fatto solo di onde. Ma anche di ferro e acciaio, è un confine che uccide, reso tale dalle leggi degli uomini. È un mare spinato nel quale piume di libertà rimangono impigliate per sempre perdendo respiro e memoria». Sono le parole che si possono leggere all’entrata del cimitero di Lampedusa. Parole accompagnate da un simbolo che ritorna nelle tombe “di chi ha trovato dimora eterna in questa terra attraversando la frontiera dell’ingiustizia”. Nel campo santo di Cala Pisana le tombe degli isolani si mescolano a quelle di coloro che hanno tentato di raggiungere l’Europa attraversando il Mediterraneo, ma che in questo “viaggio della speranza” hanno perso la vita. Per la maggior parte sono corpi senza nome, ma ognuno con una storia che ha bisogno di essere recuperata e custodita.
Nel contesto di una narrazione prevalente che “parla” solo di numeri, emerge la necessità di mettere veramente al centro le persone e la loro memoria. Di questo, da diversi anni, se ne occupano alcune realtà attive a Lampedusa formate da associazioni, gruppi di volontariato, donne e uomini della società civile che stanno cercando di far prevalere i nomi ai numeri, attraverso un tanto importante quanto complesso lavoro di ricerca tra testimonianze di chi ha intrapreso il viaggio con chi non c’è più, verbali delle forze dell’ordine e articoli di giornale.
A questo si aggiunge l’altrettanto difficile comparazione del Dna con i parenti delle vittime, iniziata dopo la strage del 3 ottobre 2013 quando 368 persone morirono al largo di Lampedusa. E di cui si è celebrato da poco l’ottavo anniversario con una serie di appuntamenti sull’isola che hanno sottolineato come queste stragi si ripetano continuamente sotto i nostri occhi. Grazie al lavoro delle realtà impegnate nel recupero della memoria dei morti in mare anche il cimitero di Cala Pisana ha assunto un “altro” volto. Con la sistemazione delle lapidi l’anomia del grigio del cemento ha lasciato posto alla ceramica e al disegno “con un nuovo linguaggio per tramandare storia e memoria contro il processo di disumanizzazione che oggi caratterizza la frontiera, sia per i vivi che per i morti”. “Il 17 giugno 2008 il corpo di una donna di età compresa tra i 30 e i 40 anni viene rinvenuto dagli uomini della Guardia di Finanza a circa 5 miglia da Capo Ponente. Qui riposa” si legge in una delle tombe del cimitero sotto il disegno di una piuma imprigionata in un filo spinato trasformato in opera in ceramica. Opera che sostituisce la scritta “Extra comunitaria 2008” con cui la giovane donna era stata sepolta inizialmente. Scritta che trasuda indifferenza e fa l’effetto di pugno nello stomaco.
“Pare che si chiamasse Yassin. Pare che Yassin venisse dall’Eritrea, che fosse stato arrestato senza motivo e chiuso in uno dei tanti altri lager libici. Pare che avesse un bimbo e una moglie in un centro di accoglienza in Svezia e che volesse raggiungerli. Certo è che il suo corpo è arrivato senza vita a Lampedusa il 7 settembre 2015” si legge in un’altra lapide sempre accompagnata dal simbolo che contraddistingue coloro che sono morti nella traversata del Mediterraneo.
Per chi è impegnato in questo percorso di memoria viva, questo mare “è attraversato da un’odissea che nessuno vuole raccontare, una tragedia della modernità, frutto delle leggi ingiuste dell’uomo che rendono il Mediterraneo un cimitero. Nei suoi abissi spesso la memoria si perde. I migranti muoiono due volte: la prima perché l’acqua gli toglie il respiro, la seconda perché l’oblio gli toglie la dignità della memoria. Ed è così che il mare diventa cimitero dell’indifferenza, nelle cui profondità si perdono nomi, storie, sogni e speranze”. Su altre tombe, invece, come in quella di un nigeriano 36enne morto nel 2009 e ritrovato senza vita in un’imbarcazione a bordo della quale cercava di raggiungere l’Europa, è riportato il nome: Eze Chidi o Ezequiel. Del primo nome si è venuti a conoscenza grazie all’allora parroco dell’isola che chiese notizie ai suoi compagni di viaggio sopravvissuti. Oppure come in quella di Ester Ada, anche lei nigeriana morta nel 2009 a 18 anni. Ester Ada era tra i 153 migranti, tutti di origine subsahariana, in un’imbarcazione soccorsa dal mercantile Pinar che per “quattro interminabili giorni – si legge sulla lapide – rimase a 25 miglia da Lampedusa bloccato da un assurdo braccio di ferro tra governo maltese e governo italiano che si rifiutavano di accogliere il mercantile”. E in questo breve racconto oltre alla “fine” della vita di Ester Ada il pensiero va anche a come si siano indurite le politiche di accoglienza che oggi vedono le navi umanitarie, con a bordo decine e decine di persone, bloccate per ben più di quattro interminabili giorni.
In un’altra ala del cimitero, si trovano un’altra decina di migranti senza nome. L’ex custode ha posto sulle tombe una croce in legno: un modo per umanizzare e dare dignità a quei corpi, nonostante della loro storia, della loro religione e dei loro cari non si sappia nulla.
Tra queste c’è anche la toma di Yusuf Ali Kannehm, un bimbo di sei mesi morto a seguito del naufragio dell’11 novembre 2020 e soccorso invano dai volontari della ong Open Arms. Il giorno del suo funerale una donna Lampedusana ha appoggiato sulle spalle della sua mamma, appena diciottenne, uno scialle in segno di vicinanza. Da questo gesto, semplice ma potente, è nata l’iniziativa “La coperta di Yusuf”, coordinata dal Forum Lampedusa Solidale, che è un invito collettivo a realizzare un piccolo quadrato all’uncinetto o ai ferri per creare una coperta capace di “coprire e proteggere simbolicamente i più deboli”. In questi mesi all’appello hanno aderito in tantissimi inviando sull’isola centinaia di piccoli tasselli. Ma quella di Yusef è una coperta senza fine e che potrà sempre essere ingrandita. E con i suoi colori sgargianti ci ricorda l’ingiustizia inflitta a chi cerca solo un futuro migliore e l’importanza di non far cadere nell’oscurità e nel silenzio la memoria di chi è morto in mare. (Ulteriori informazioni su www.lacopertadiyusuf.it oppure sulla pagina Facebook Forum Lampedusa Solidale).
Tratto da “La Voce dei Berici”