Vita Chiesa
Zanotelli: «Il mondo è pazzo? Insieme possiamo migliorarlo»
Alex, quale testimonianza ci offri dell’esperienza che hai vissuto in Africa?
«A Korogocho, alla periferia di Nairobi, sono arrivato nel gennaio del 1990. Nonostante fossi stato costretto a lasciare la direzione di Nigrizia, il mensile che allora dirigevo, quella di recarmi laggiù fu una scelta libera e personale. Anzi, prima di potermi stabilire fra i baraccati, ci sono voluti due anni per avere l’autorizzazione del governo del Kenya e della Chiesa locale, il cui cardinale pensava che un prete non dovesse vivere in quelle condizioni».
Che situazione hai trovato?
«Per cercare di capire la situazione, bisogna conoscere la realtà di Nairobi, che conta in totale quattro milioni di abitanti. Il 55% di questi vive nell’1,5% del territorio disponibile, che tra l’altro non appartiene ai poveri che ci abitano, ma al governo, che ha il potere di cacciarli come e quando vuole. Almeno l’80% di queste oltre due milioni di persone non ha neanche la proprietà del tugurio in cui vive, e paga l’affitto. Korogocho è una delle centotrenta baraccopoli di Nairobi, dove sopravvivono centomila persone stipate su una collina lunga un km e mezzo e larga uno, in condizioni al limite dell’umano. L’unico servizio disponibile è quello dell’acqua potabile, concessa dal governo, ma poi rivenduta da una piccola parte di persone al resto della gente, ad un prezzo superiore a quello che si paga nel centro della città. Il fatto più evidente è lo sfacelo sociale e sanitario di questa comunità poverissima, in cui anche sette o otto persone vivono in baracche di dieci metri quadrati, accatastate una accanto all’altra, con un servizio igienico ogni mille abitanti. Si stima che più del 50% di loro siano sieropositivi».
Quali le cause di una tale situazione?
«La situazione in questi anni è andata sempre peggiorando, ed è essenzialmente causata da un sistema politico-economico opprimente di cui sono artefici sia le imprese multinazionali che sfruttano manodopera locale a bassissimo costo, sia il governo corrotto del Kenya, sia la parte ricca di Nairobi, che ha un centro modernissimo ed è uno dei più importanti poli economico-finanziari di tutta l’Africa. Le spese pubbliche per sanità ed istruzione sono quelle che hanno subito negli anni i tagli maggiori, e il numero di ragazzini che non si possono permettere di andare a scuola è notevolmente cresciuto».
Che cosa hai fatto per aiutare questa gente durante questi anni?
«Innanzitutto io e i miei collaboratori abbiamo svolto l’attività pastorale ordinaria nelle trentasei piccole comunità cristiane che sono presenti a Korogocho. Poi, abbiamo cercato di ridare coraggio alle persone più marginalizzate, sostenendo la nascita di piccole cooperative, come ad esempio la Bega Kwa Bega (spalla a spalla), fatta di piccole comunità di persone che prima andavano a rubare o si prostituivano, e il Mukuru Recycling Center, che è formato da quattro gruppi che vivono del riciclaggio dei rifiuti della vicina discarica. Abbiamo comunque cercato di unire al sostegno spirituale e all’aiuto materiale diretto una lotta nonviolenta di tipo politico, per il riconoscimento della proprietà della terra e degli altri diritti fondamentali in favore dei baraccati».
Che bilancio fai del tuo lavoro?
«Abbiamo cercato di iniziare un percorso per risolvere alla radice i problemi dei poveri di Nairobi e per la prima volta, partendo da Korogocho dopo dodici anni di impegno, ho la sensazione che ci sia speranza. Infatti il governo del Kenya, dopo tantissime nostre azioni, sembra avere almeno capito che deve necessariamente risolvere il problema dei baraccati, e già questo è un grosso passo avanti, perché la carità può fare ben poco per una questione che è essenzialmente di giustizia e a cui si deve trovare una soluzione principalmente politica».
Che cosa stai facendo e cosa farai qui in Italia?
«In questi giorni sono stato in giro e ho partecipato ad incontri, convegni, congressi ai quali non ho potuto sottrarmi, viste le tante richieste. Ne ho approfittato per rientrare in contatto con la realtà italiana e soprattutto con la sua società civile. Andrò avanti ancora così per un poco, poi in estate vorrei staccare la spina, ed in autunno mi dovrei inserire in una piccola comunità di Napoli o Palermo, perché bisogna ricordare che anche in Italia ci sono quartieri a rischio ai quali la Chiesa deve stare vicino, poveri dal volto umano che sono i veri privilegiati del Regno».
Oltre al tuo esempio, che messaggio ti senti di dare a chi è sensibile alle problematiche sociali del nostro tempo?
«Bisogna recuperare la convinzione che è possibile migliorare il pazzo mondo in cui viviamo, ma si può farlo efficacemente solo se la società civile si mette insieme, lasciando fuori i partiti e le ideologie: questa è l’idea della Rete di Lilliput che unisce cittadini, gruppi, associazioni, per fare pressione sulle istituzioni e sensibilizzazione fra la gente, secondo la prassi nonviolenta. È soprattutto in campo economico e finanziario che si può incidere concretamente, ad esempio attraverso il consumo critico, il risparmio responsabile e la finanza etica, ed ognuno è chiamato, nel suo piccolo, a fare qualcosa. In questo particolare momento poi mi preme ricordare la campagna in difesa della legge 185 del 1990 che, proprio grazie alla mobilitazione della società civile, introdusse dei severi controlli al commercio delle armi, che ora il disegno di legge 1927 in discussione in parlamento sta tentando di alleggerire».
E in particolare cosa consiglieresti a un giovane?
«Di fare un’esperienza, anche solo di qualche settimana, in un paese del sud del mondo o in una situazione di disagio, anche in Italia, preparandosi bene, per stabilire un contatto profondo con le persone in difficoltà ed imparare a leggere criticamente la realtà. Molti studiosi dicono che se non cambiamo rotta al massimo entro 50 anni, il mondo si avvierà verso una crisi irreversibile. Per evitarla io spero molto nell’entusiasmo e nella competenza delle nuove generazioni».