Vita Chiesa
Antonelli: ecco come evitare i disagi della «vita da prete»
Stare insieme con Gesù: questo è il richiamo più forte che lei rivolge ai preti. Cosa significa?
«Stare con Gesù significa avere con lui un rapporto vivo, amicizia intensa, dialogo assiduo, appassionarsi di lui, farne il centro della propria vita, condividere il suo stile di vita. Vivere come Gesù vivrebbe oggi, assumere i suoi criteri di giudizio, i suoi atteggiamenti».
Come si traduce, in concreto, tutto questo nella vita del prete?
«Coltivando di più la propria vita spirituale. È vero che ci si santifica anche con il proprio lavoro, anche donandosi agli altri, ma bisogna stare attenti al rischio di svuotarsi, di perdere le proprie motivazioni profonde. Concretamente, significa trovare più spazio per la preghiera e per lo studio. Bisogna sapersi anche liberare dai ritmi di lavoro eccessivi, che rendono tesi e inquieti, selezionare gli impegni: il parroco non è un funzionario che offre servizi. Occorre fare discernimento tra i compiti che ci vengono richiesti, privilegiando la disponibilità al colloquio e alla direzione spirituale».
Ci sono delle forme di preghiera che si sentirebbe di suggerire ai preti?
«Prima di tutto la cura della preghiera liturgica: la Messa, possibilmente da prolungare con l’adorazione eucaristica, e la Liturgia delle Ore. Tra le forme di preghiera personale, la lettura della Bibbia, senza trascurare gli scritti dei santi e altri testi spirituali. La Facoltà Teologica, in questo senso, potrebbe creare un servizio di segnalazione di libri utili al clero. Durante la giornata poi, cercare di ravvivare il dialogo con Cristo guardando e vivendo ogni cosa a partire da lui. Anche le difficoltà, le sofferenze, gli insuccessi che possono caratterizzare la vita di un prete offrono la più grande opportunità di unione a Cristo, abbracciando con amore la croce. La testimonianza della gioia è una fondamentale dimensione per ogni apostolato».
Un altro punto su cui la sua relazione insiste molto è la necessità di trovare occasioni di incontro tra preti e, dove è possibile, forme di vita comunitaria…
«C’è una ragione teologica: è la natura stessa del ministero che esige collaborazione e comunione fraterna. Da questo nasce l’esigenza di tradurre tutto questo in esperienze concrete, dagli incontri spontanei alle forme più istituzionalizzate. I presbiteri sono chiamati a farsi carico gli uni degli altri, sviluppare rapporti amichevoli, condividere esperienze umane, pastorali e spirituali. Oltre agli incontri di formazione, sono da raccomandare anche gli incontri spontanei di convivialità o di lectio divina, l’abitudine di consumare il pranzo insieme e ancora di più, dove è possibile, la vita comune nella stessa casa».
La collaborazione riguarda anche le attività pastorali?
«La collaborazione tra presbiteri e tra parrocchie deve diventare non occasionale, come già avviene in molti casi, ma sistematica, progettuale, in modo da andare sempre di più verso la costituzione di unità pastorali che nascano dal basso, come esigenza delle comunità e non come imposizione dall’alto. Deve essere un cammino che oltre tutto non snatura l’identità della parrocchia. La forma pastorale della parrocchia, che ha ormai acquistato una sua collocazione ben precisa nella cultura e nell’immaginario delle persone, non deve essere abbandonata; ma oggi c’è un’esigenza nuova, di portare l’annuncio cristiano negli ambienti di vita, di lavoro, della società che la singola parrocchia da sola non può soddisfare».
Quali possono essere le attività in cui si concretizza la collaborazione?
«I terreni di collaborazione possono essere tanti: la formazione degli operatori pastorali, la teologia per laici, gruppi di spiritualità familiare, gli itinerari di fede in preparazione al matrimonio, la pastorale giovanile, la pastorale scolastica, la pastorale sanitaria, il dialogo ecumenico e interreligioso, il volontariato, i rapporti con le pubbliche istituzioni».
Non bisogna dimenticare, nel descrivere le difficoltà della vita presbiterale, la responsabilità dei laici: spesso i fedeli sono molto esigenti nei confronti dei loro preti, chiedono mille servizi senza offrire niente in cambio. Cosa possono fare i laici per aiutare i sacerdoti a vivere meglio il loro ministero?
«Prima di tutto il sacerdote stesso, come ho già detto, deve saper selezionare gli impegni, avendo il coraggio di non rispondere sempre di sì. I laici, da parte loro, possono rendersi disponibili per assumere compiti e servizi all’interno della comunità ecclesiale; la partecipazione alla vita della comunità può essere episodica, oppure strutturata attraverso i ministeri laicali. In ogni caso, si tratta di operatori che possono rendere più efficace la missione evangelizzatrice della Chiesa, e allo stesso tempo liberare il sacerdote da incombenze che non gli competono direttamente. Il presbitero, in questo modo, recupera il proprio ruolo di guida spirituale e pastorale: sta a lui individuare le persone idonee, proporre servizi, offrire un’adeguata formazione».
La situazione del presbiterio delle chiese toscane era stata delineata nella sessione autunnale della Conferenza episcopale toscana, nell’ottobre scorso, dal vescovo di Livorno Diego Coletti. Nella sua relazione, Coletti ricorda «il grande bene che i sacerdoti operano nelle comunità loro affidate, la dedizione al servizio che non di rado ci sorprende e ci commuove, i valori evangelici di tante vite sacerdotali, nascoste e umili, che sono la grande risorsa e il conforto del nostro ministero» ma indica anche alcuni elementi problematici che contraddistinguono oggi la vita dei preti.
Una seconda reazione è, invece, quella di chi «intraprende fughe personali e unilaterali, a volte su iniziativa soggettiva a volte identificandosi senza riserve con movimenti, cammini, gruppi, spiritualità e metodologie di varia natura. Questa scelta restituisce in molti casi entusiasmo ed efficacia al ministero e alla vita secondo il Vangelo, ma a prezzo della perdita di un equilibrio globale e armonico della proposta di fede e di vita cristiana».
Sul versante dell’esistenza personale, Coletti evidenzia alcuni dei problemi emergenti: il carico appesantito di responsabilità, che «sottopone spesso la vita dei presbiteri a fatiche e ritmi esagerati e ossessivi»; la solitudine del prete, «non quella buona e benedetta abitata dall’Amico, ma quella maledetta e patogena dell’isolamento affettivo e della carestia relazionale». Ancora, l’impressione di una «vita interiore superficiale, a volte del tutto evaporata, o ridotta a gesti esteriori e abitudinari».
Infine, «una poca trasparenza della testimonianza evangelica di pace e gioia profonda che dovrebbe scaturire dalla vita di chi prende sul serio la nuova alleanza nello Spirito di Gesù e del Padre».