Vita Chiesa
I cristiani e la malattia. La testimonianza di mons. Savio
Chi conosce Vincenzo Savio capisce bene la piccola Margherita che al suo vescovo, malato di cancro, ha scritto: «Caro vescovo, noi vogliamo che tu non perda il tuo sorriso». E capisce bene anche lui, l’ex vescovo ausiliare di Livorno, che nel raccontare per telefono di questa lettera si lascia prendere dall’emozione, così com’era successo al convegno di Chianciano, e si scusa per la «debolezza»: «S’invecchia», dice.
«Nella malattia ci si trova e io racconta l’ho vissuta attraverso due momenti: servendo un vescovo malato, monsignor Alberto Ablondi a Livorno, e poi vivendola in prima persona poco dopo essere diventato vescovo di Belluno-Feltre. Ma sono ancora in fase di apprendimento, perché quello della malattia è un mondo in cui non si finisce mai di imparare».
E pensare che anche in casa, monsignor Savio, la scuola della malattia l’ha frequentata sin da piccolo: «Io provengo spiega da una famiglia che ha portato sempre i segni del dolore: mia mamma è rimasta paralizzata a 24 anni, al secondo figlio, ma poi ne sono nati altri cinque e io sono il sesto di sette. Questa donna ha portato per tutta la vita questo segno, ma lo ha portato con una dimensione di fede che mi ha educato profondamente. Quando stava per morire le ho detto: Mamma, facciamo un patto. Io sono stato sempre molto vitale, quel che penso di fare riesco in genere a realizzarlo, non conosco la malattia, eppure un giorno dovrò fare anche questa esperienza. Facciamo allora come Elia ed Eliseo. Mia mamma mi chiese: Chi è Eliseo?. Eliseo era un discepolo di Elia che quando Elia fu portato in cielo gli chiese di lasciargli il mantello dei profeti. Ebbene, tu stai per andare in cielo, allora io ti chiedo di lasciarmi un po’ del tuo mantello di donna che ha saputo portare e vivere il dolore».
Per questo, oggi, Savio ringrazia la sua famiglia naturale e quella religiosa, i salesiani, che gli hanno insegnato «a creare e mantenere un rapposto di pace sempre: mai la conflittualità. Il cammino nella concordia ribadisce ricordando gli anni passati a Livorno con Ablondi deve essere un progetto, una volontà precisa di chi sta nella Chiesa».
Infine, un ringraziamento per la sua comunità diocesana attuale: «Quando è scoppiato il tumore racconta ancora il vescovo di Belluno-Feltre io stavo finendo il giro delle foranie perché eravamo nel primo anno del Sinodo dedicato all’ascolto. Il tumore ce l’avevo già, ma solo in coincidenza con l’ultimo incontro i medici hanno capito che avevo un tumore diffuso su tutta l’area ventrale e addominale. Il tema degli incontri nelle foranie era il primato del parlarsi e dicevamo che il parlare era il riconoscere di appartenere. Per cui, quando c’è stato il mio ricovero immediato, dopo un momento di temporaneo silenzio, mi sono convinto che una volta conosciuta la diagnosi non dovessi nasconderla alla mia gente. Approfittai della festa patronale di San Martino, per cui la cosa ebbe anche una grande risonanza, per diffondere, d’accordo con il vicario, un comunicato: Io vi dico che sono in queste condizioni, i medici mi dicono che è serio ma si può curare, io so che voi pregate per me, ogni giorno la Chiesa prega per il suo vescovo, io vorrei solo chiedervi in questo momento: non pregate solo per me, ma mettetemi insieme ai malati di tutta la diocesi, specialmente quelli che non hanno le attenzioni che io riesco ad avere. In quel momento pensavo a pregare per rimanere nelle volontà di Dio, invece mi fu detto: No, tu devi pregare per la tua guarigione, la gente ha bisogno della tua presenza. Allora ho cominciato a pregare e a far pregare in questa direzione. Citando Papa Luciani mi dicevano: Guarda che la speranza è obbligatoria. Mi venivano a trovare, mi portavano di tutto, mi mandavano fiori, mi hanno scritto lettere bellissime. Mi sono sentito sommerso dall’amore. Gli stessi ammalati, in generale, si sono sentiti rincuorati. Quando vado all’ospedale di Belluno per la chemio, i malati sono contenti di vedermi, si sentono molto incoraggiati».
Ripercorrendo quest’ultimo anno, monsignor Savio ammette che all’iniziale «cammino interiore di sereno apprendimento della malattia» è seguita una fase più critica: «Mi sono posto dice tante domande, anche sulla fede, il Paradiso, il Giudizio…. Entrando nella malattia ho dovuto imparare l’alfabeto della malattia, mi sono messo alla scuola del dolore. Adesso devo veramente capire cosa vuol dire continuare ad essere evangelizzatori, a non tirarsi indietro dal proprio dovere, capire quello che posso fare, assumerlo e farlo da pastore anche se non più come prima. La cosa grande ribadisce è di aver sentito Dio nell’amore sconfinato della gente».
Ed eccoci a Margherita, 8 anni. «Dal suo invito a non perdere il sorriso ho preso spunto conclude l’ex vescovo ausiliare di Livorno per scrivere una preghiera, per dire come il sorriso possa essere l’emblema del Dio presente. Mi emoziona moltissimo questo invito di una bambina che ha capito qual è la cosa che mi sta più a cuore».
«Il cambiamento della pastorale sanitaria, sia nella mentalità delle persone, sia nelle modalità di azione si realizzerà non in un breve momento, né attraverso gesti clamorosi, ma mediante piccoli e significativi passi che avvengono in comunione e solidarietà con tutti i membri della comunità». Monsignor Italo Monticelli, direttore dell’Ufficio pastorale della sanità della diocesi di Milano, intervenuto al convegno, ne è certo. Secondo monsignor Monticelli «la comunità da un lato deve rivisitare la propria azione e predicazione, giungendo al superamento dell’atteggiamento puramente ascetico nei confronti della sofferenza, dall’altro, va anche superato il pericolo di isolamento del malato all’interno della Chiesa, considerandolo un soggetto passivo, sottacendo la sua singolare soggettività. La malattia è pedagogia per tutti: ci fa imparare la riconoscenza a Dio per tanti doni e a ridimensionare i problemi».
A suo avviso «le comunità cristiane oggi devono aver presente alcune priorità, specie in ambito formativo, quali: far riscoprire ai fedeli la loro vocazione missionaria o apostolica; puntare ad un reale coordinamento delle associazioni che operano nel settore sanitario e sono presenti sul territorio; valorizzare veramente nelle comunità parrocchiali la giornata mondiale dei malati; far sorgere o animare, se già ci sono, nelle parrocchie delle microstrutture o concrete iniziative, che mirino a realizzare luoghi di assistenza ricchi di umanità, che creino un clima familiare, non permettano l’isolamento del malato».
Una missione che, secondo monsignor Monticelli, non consiste nel «togliere o spiegare la sofferenza, ma nel riempirla della presenza divina, amando i propri malati e sofferenti, con la convinzione che a sostenerli nell’angoscia della loro sofferenza, anche senza riuscire a cancellarla pienamente, è continuare l’opera sanatrice e salvifica di Cristo». Ciò con la consapevolezza che quello che i malati chiedono e quello che le comunità possono dare è una cosa sola: «non tanto la guarigione, ma l’amore».