Vita Chiesa

Salviamo la domenica

di Andrea FagioliSalviamo la domenica, riscopriamo la sua centralità. Ma come si interpreta e si vive oggi il terzo comandamento: «Ricordati di santificare le feste»? Lo abbiamo chiesto al teologo don Severino Dianich, docente alla Facoltà teologica dell’Italia centrale.«A proposito del terzo comandamento, mi pare – risponde Dianich – che nel costume popolare più diffuso, tra la gente che vive anche una sensibilità di fede, il precetto del riposo sia praticamente caduto. Tra chi viene a confessarsi da me, nessuno mi dice di non aver rispettato il riposo festivo. Quello della partecipazione alla Messa, invece, viene ancora sentito dalle persone anziane in maniera molto rigida secondo i criteri che usavano nell’educazione cattolica dei loro tempi. Presso i giovani invece c’è molto soggettivismo, che vale per la precettistica di qualsiasi tipo, anche fuori dalla cose di Chiesa. A maggior ragione per questa».

Cosa si intende con «santificare le feste»?

«Essendo un comandamento della tavola dei dieci comandamenti, fa parte di uno schema fondamentale della moralità. Lì c’è scritto Ricordati di santificare le feste, che ha un significato preciso sia per gli ebrei che per i cristiani: non dimentichiamoci infatti che sono comandamenti dell’Antico testamento e quindi valgono anche per gli ebrei. Il comandamento significa che nell’uso del tempo ci deve essere un tempo di Dio, un tempo riservato a Dio, che l’ebraismo interpreta soprattutto attraverso il riposo: il sabato non si fa niente perché sia chiaro che l’uomo può fermarsi e il mondo va avanti lo stesso perché chi lo manda avanti è Dio. Questo il senso del santificare la festa nella tradizione ebraica. Nella tradizione cristiana tutto questo è rimasto con l’aggiunta della partecipazione all’Eucarestia, alla Messa. Questo è il problema di fondo al quale segue il precetto ecclesiastico di andare a Messa tutte le domeniche e le feste comandate. È stato un Concilio a tradurre in termini concreti di partecipazione alla Messa domenicale l’antico comandamento di santificare le feste».

Non andare a Messa lo si riteneva un peccato grave (un tempo si diceva mortale). Adesso si ha l’impressione che sia considerato un peccato veniale. È così?

«La domanda se sia peccato mortale o veniale se la sono posta anche i moralisti della tradizione cattolica. La risposta è che mancare a questo comandamento è peccato mortale perché è cosa importante, non è cosa lieve, in quanto applicazione del comandamento di Dio. Naturalmente questo senso un po’ meccanico, quasi tecnico, della distinzione tra peccato mortale e peccato veniale, questo direi è caduto nella coscienza cristiana di oggi, ma credo che qualsiasi cristiano serio non riterrà di poca importanza questo precetto della Messa domenicale. Allora se diciamo che è molto importante, vuol dire anche che non osservarlo è un peccato mortale. Naturalmente non nella materialità, perché se una volta manco alla Messa, magari perché sono malato, non devo pensare di aver fatto peccato mortale. Questa è una forma fiscale d’intendere i comandamenti. Grave è invece il momento in cui nella coscienza più profonda il dedicare questo giorno a Dio cessa di essere una cosa importante nella mia vita».

Diffusa sembra anche l’idea del fare tutto secondo la propria coscienza, se non addirittura il proprio stato d’animo: «Se vado a Messa è perché devo sentire la voglia di andarci, altrimenti preferisco farne a meno». Come commenta un atteggiamento del genere?«Direi che tutte le cose serie della vita possono partire sulla base di una “voglia”, nel senso di un’attrazione, di un desiderio, di un piacere che poi si concretizza in una decisione, in una scelta di vita. Anche quando uno si sposa è perché la sua ragazza o il suo ragazzo le piace o gli piace, la desidera o lo desidera. Però, una volta sposati il “quando voglio” diventa un quadro di vita, un impegno, un dovere. Quindi c’è una vocazione, un’attrazione, un desiderio che resta sul fondo dell’anima, ma l’attuazione seria dei valori nella vita non può essere lasciata alle voglie, perché le voglie vanno e vengono. Quindi una volta che uno ha fatto una scelta (nel caso nostro la scelta della fede), se ha un po’ di buon senso, non lascerà lo sviluppo della sua fede alle voglie, ma cercherà di guidare il timone della sua barca dicendo anche: “Se non ho voglia, è giusto: c’è un valore, vado”».

In molti casi, soprattutto per giustificare l’assenza dalla confessione ma anche dalla Messa, si ricorre al discorso del rapporto diretto con Dio: «Non ho bisogno di intermediazioni».

«A questo proposito è bene premettere che ci sono alcune persone che vivono questo discorso in maniera seria, cioè hanno effettivamente un rapporto profondo con Dio e magari sono del tutto lontani dalla vita della Chiesa. Che ci siano casi di questo genere non voglio negarlo e ne sono rispettoso. Però, devo anche dire che parlando in confidenza con alcune di queste persone, al momento in cui ho chiesto loro di dirmi con onestà quante volte concretamente si rapportano con Dio, in molti casi ho avuto per risposta un bel sorriso: “Beh! Veramente, ben poco”. Una vita religiosa lasciata alla propria inclinazione difficilmente si regge. Non per nulla Gesù ha voluto dietro a sé la Chiesa, ha voluto la Comunità, ha voluto i sacramenti, cioè tutto un complesso di cose dentro le quali ci si possa muovere aiutati, rinforzati, sostenuti. Altrimenti, lasciati a se stessi, va a finire che chi ci comanda è la voglia o la non voglia, ma sull’ho voglia o il non ho voglia, una vita non si costruisce».

Questa insistenza del Papa e dei vescovi sulla centralità della domenica, significa che è diventato uno dei problemi pastorali principali, se non addirittura il principale, anche in conseguenza delle modificate abitudini (negozi e ipermercati aperti nei giorni non feriali, ecc.) e delle «minacce» a livello europeo di abolire la festività?«Direi che siamo di fronte ad una forma del nostro materialismo, un materialismo invadente. Una volta si accusava di materialismo l’ideologia comunista, ma oggi viviamo in un materialismo dominante in cui i grandi poteri che conducono la produzione e tutta la vita economica peseguono il massimo dell’efficienza ed è perciò chiaro che riposarsi una volta alla settimana non giova necessariamente al massimo dell’efficienza. Dalla parte dell’uomo comune c’è poi la ricerca di un benessere, di un’efficienza funzionale ad un proprio star bene concepito spesso in termini materialistici. Per questo la domenica diventa una proposta importante e lo direi inclinandola verso la spiritualità ebraica del riposo, più ancora che verso il carattere cattolico della Messa domenicale, nel senso che dopo sei giorni in cui si lavora, si opera e si fatica e in cui non c’è tempo né di pensare, né di riflettere, né di pregare, abbiamo bisogno di una pausa che è sapienza di vita ed occasione per incontrare Dio».

A quarant’anni dalla riforma liturgica, che voleva favorire l’avvicinamento dei fedeli innanzitutto alla celebrazione eucaristica domenicale, si può dire che il progetto sia in parte fallito?

«Se qualcuno pensava che riformando la liturgia noi avremmo riempito le chiese e bloccato il fenomeno di abbandono della vita della Chiesa da parte delle popolazioni europee, questi era un ingenuo. Certamente coloro che hanno voluto la riforma liturgica non si illudevano in questa maniera. Il problema della fede, della partecipazione alla vita della Chiesa va ben al di là della qualità della liturgia, del richiamo che una celebrazione può avere sulle persone. Quindi la riforma liturgica andava fatta e va praticata e va continuata con fervore indipendentemente dal fatto che molta o poca gente venga in chiesa. Anzi, direi che se non avessimo avuto la riforma liturgica, avremmo avuto un allontanamento dalla Chiesa più marcato proprio perché quanto più la liturgia restava estranea dalla possibilità di comprensione e di partecipazione tanto più cresceva la sensazione della sua estraneità alla vita e quindi della opportunità di abbandonarla».

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