Vita Chiesa

Quarant’anni fa il ritorno di Pietro nella Terra di Gesù

“Noi guardiamo al mondo con immensa simpatia. Se il mondo si sente estraneo al cristianesimo, il cristianesimo non si sente estraneo al mondo”. Giovanni Paolo II, nell’Angelus dell’Epifania, ha citato questa frase di Paolo VI ricordando lo «storico pellegrinaggio in Terra Santa» del suo predecessore Paolo VI, che proprio «il 6 gennaio 1964, a Betlemme, nella Basilica della Natività, pronunciò parole memorabili». «E da quel luogo che ha visto nascere il Principe della Pace, – ha proseguito Giovanni Paolo II -esortò i Responsabili delle Nazioni ad una sempre più stretta collaborazione per “instaurare la pace nella verità, nella giustizia, nella libertà e nell’amore fraterno”».di Silvano SpaccatosiQuarant’anni fa avvenne il viaggio di Paolo VI in Terra Santa. Si era in pieno Concilio Vaticano II e l’annuncio venne dato dallo stesso papa Montini, all’assemblea dei padri sinodali: dal 4 al 6 gennaio del 1964 egli si sarebbe recato nella terra di Gesù. Lo stupore e l’applauso furono irrefrenabili: per la prima volta, dopo oltre un secolo e mezzo, un romano pontefice lasciava l’Italia. L’ultimo che l’aveva fatto, Pio VII, era stato costretto all’esilio a Fontainbleau da Napoleone. Altra novità: come un viaggiatore qualsiasi egli usava un aereo. Ma non era un pellegrino qualunque: era Pietro che dopo venti secoli tornava nella santa terra di Dio, alle radici stesse della cristianità.

Il clamore fu tanto più alto in quanto il viaggio, ardito per la situazione politica della regione e pericoloso per la stessa persona del Pontefice, era stato preparato con molta discrezione, su indicazione precisa dello stesso Montini. Il Papa era estremamente determinato a portare il progetto a buon fine. All’inizio del suo pontificato, voleva dare un segnale forte alla Chiesa e al mondo, una dimostrazione visibile dell’aria che spirava nel Concilio, di quell’esigente apertura ai segni dei tempi che aveva guidato già Giovanni XXIII, il suo predecessore.

Era la Chiesa che usciva dal fortino romano per andare incontro, ad esempio, ai fratelli ortodossi; che apriva un dialogo con le altre religioni; che soprattutto poneva il problema della pace e della solidarietà tra tutti i popoli in testa alle sue preoccupazioni. Senza tuttavia rinunciare alla sua identità. Abbiamo voluto, osservò il Papa tornando a Roma il 6 gennaio, «proclamare davanti al mondo la sublime realtà ed universalità della Redenzione», con un atteggiamento tuttavia «di preghiera e di penitenza».

Giovanni Battista Montini era consapevole che ogni suo gesto assumeva un valore simbolico, ma che anche poteva rappresentare una sfida, agli occhi di una parte della Chiesa e del mondo. Lui stesso metteva in discussione quell’immagine romanocentrica del papa, così naturale in Pio XII. L’abbraccio con Atenagora, il Patriarca di Costantinopoli – che si presentò all’appuntamento con undici metropoliti – non serviva soltanto a far cadere le reciproche, antiche scomuniche ma dissolveva anche quell’idea cattolica tradizionale che l’ecumenismo fosse un semplice ritorno dei fratelli che hanno sbagliato nella Chiesa di Roma.

I mass media esagerarono, accreditando l’idea che Paolo VI avesse incontrato un altro «papa», quello ortodosso, mentre in realtà Atenagora era più grande di prestigio che di potere, essendo solo un «primus inter pares», nella variegata costellazione delle Chiese autocefale dell’ortodossia. Eppure quell’abbraccio rimase una pietra miliare sulla strada di un ecumenismo rispettoso delle altrui identità e situazioni storiche. E fece breccia, forse, con il suo messaggio di pace e riconciliazione tra i fratelli cristiani separati, nell’opinione pubblica mondiale più di tante sottili discussioni, incomprensibili per i non addetti, in corso nel Concilio tra i padri sinodali.

Così come fu suggestivo e di grande valore il ritorno ai legami tra le religioni abramitiche, che in Terra Santa avevano dato occasione nel corso dei secoli a conflitti aspri e a sopraffazioni.

Non era facile allora programmare un viaggio in Palestina, dove si confrontavano arabi ed ebrei, e in cui di lì a poco sarebbe scoppiata un’altra sanguinosa guerra, quella del 1967. Ed infatti non lo sarebbe stato nemmeno in seguito, visto che Giovanni Paolo II vi sarebbe riuscito solo dopo 36 anni, durante il Giubileo. Ma l’ansia di pace che faceva ardere il cuore di Montini sopportò anche questa sfida. Incontrò il giovane Hussein, re di Giordania, e le autorità politiche d’Israele, con grande capacità diplomatica. E alla pace dedicò appassionatamente la sua preghiera: «Nella grotta di Betlem – disse al suo ritorno a Roma – abbiamo chiesto per tutti gli uomini di buona volontà il dono della pace, vera e duratura».

Quel viaggio di quarant’anni fa avrebbe segnato l’inizio dei viaggi di Paolo VI in tutti i continenti, a sottolineare proprio quella riaffermata universalità della Chiesa che il Vaticano II stava approfondendo nei suoi documenti. E la necessità inderogabile del pellegrinaggio dei successori di Pietro, verso tutte le comunità cattoliche, in ogni parte della Terra, che poi Giovanni Paolo II avrebbe esaltato in ogni modo.

Il ritorno alle radici della cristianità fu anche un passaggio obbligato del Pontificato per rilanciare quella strategia di pace tra i popoli, di cui Giovanni XXIII aveva sentito l’urgenza nella Pacem in terris. Ed infatti il secondo dei viaggi montiniani avrebbe avuto come meta le Nazioni Unite, dove tutto il mondo potè ascoltare quell’invocazione appassionata «Mai più la guerra!» rimasta purtroppo troppo spesso inascoltata.

I discorsi di Paolo VI in Terra Santa