Vita Chiesa

Capraia, monaci alla ricerca del silenzio sull’isola delle contraddizioni

di Gianluca Della MaggioreIsola di contraddizioni Capraia. Terra di detenzione e luogo dello spirito. Prigione e rifugio. Nella sua storia è stata un’enciclopedia di silenzi e solitudini così opposte che quasi si incontrano. Davanti al suo mare si è specchiata l’inquietudine del detenuto e quella del monaco. E subito affascina dell’isola la commistione stridente tra sacro e profano: come la vecchia chiesa di Sant’Antonio eretta dai francescani nel 1660 incastonata tra le pareti del complesso edilizio dove era situato il nucleo direttivo della Colonia Penale. Per 113 anni infatti, dal 1873 al 1986, la Colonia Penale si è aggrappata come una mignatta al cuore verde dell’isola, ma quel salasso indesiderato l’ha protetta per lungo tempo dalle “razzie” dei turisti, conservando intatta gran parte della sua anima selvaggia, senza interferenze di umanità.E qui già agli inizi del IV secolo sbarcarono alcuni monaci che, seguendo la regola di S. Antonio abate, cominciarono a misurare la capienza del suo silenzio e a scoprire il volto della solitudine, che tanto proficuo è allo spirito, e che nell’isola ha i lineamenti aspri delle guglie, dei picchi, e delle scogliere vergini e gli aromi intensi di macchia e di garighe, erica ed elicriso. Gli ultimi religiosi a vivere sull’isola furono i francescani che se ne andarono nel 1866, poi un “digiuno monastico” lungo quasi 150 anni fino a quel 22 febbraio 2002, giorno in cui il traghetto “Liburna” fece sbarcare a Capraia tre monaci in grigio.

Anche noi sbarchiamo sull’isola, e come gli antichi capraiesi, percorriamo quel brevissimo tratto di strada che dal porto giunge alla piccola chiesa di S. Maria Assunta. Qui duemila anni fa sorgeva la domus di una famiglia romana. In questa chiesetta i pescatori nascondevano barche e reti quando si avvicinavano le navi dei pirati o dei saraceni. Qui si narra che nel 1244 celebrò una messa papa Innocenzo IV mentre fuggiva dalla flotta imperiale. E tra queste quattro mura ricche di storia ci accoglie padre Nino Barile, che guida la Fraternità monastica di Capraia, costituita due anni fa dal vescovo di Livorno, monsignor Diego Coletti: «Non siamo certo i primi monaci su quest’isola – ci conferma padre Nino -. Possiamo dirci i prosecutori di un’antica tradizione. Perfino Sant’Agostino parla dei monaci di Capraia in una lettera che inviò all’abate Eudossio, ma anche San Girolamo li cita varie volte».

Lo sbarco sull’isola per padre Nino, Padre Marco Pavan e fra’ Francesco Ricci nasce però da un’esigenza ben precisa. Dopo l’esperienza tra le «grandi strutture» dell’abbazia cistercense di Casamari e un tentativo di esperienza monastica nella diocesi di Grosseto, si desta in loro il bisogno estremo di trovare un luogo che li riporti al nucleo ardente dell’esperienza monastica: il silenzio e la solitudine. «Ci portavamo dentro un desiderio lancinante di silenzio, quel silenzio in cui germoglia l’incontro con Dio e con i fratelli». Capraia, isola essenziale, si fa metafora degli aneliti profondi dell’animo umano: è come se le onde che la battono e i venti che la spazzano costantemente, si potessero portar vie le scorie ingombranti che separano l’uomo da Dio.

La giornata dei monaci è scandita dal ritmo della preghiera e dalla disciplina della Regola di San Benedetto: «Nella piccola sacrestia della parrocchia del Sacro Cuore e San Nicola vescovo abbiamo ricavato uno spazio per pregare: cominciamo alle 4 del mattino con l’orazione notturna e terminiamo alla 19 con la compieta». «Siamo qui per Dio, per una ricerca di Dio che sia autentica», dice con drastica chiarezza padre Nino. «Per noi l’investimento è alto, la nostra è una scommessa a lungo termine. Ci vuole pazienza e tanta tanta fede».

Perché in due anni non ci si inventa dal nulla una comunità monastica: ci sono problemi strutturali e burocratici da risolvere. Per ora i monaci vivono nel centro del paese, nella canonica adiacente alla parrocchia, dove silenzio e solitudine, soprattutto d’estate, sono compagni rari, ma la diocesi di Livorno sta lavorando intensamente per realizzare un eremo nel cuore incontaminato dell’isola.

Ma il cammino dei monaci di Capraia è cadenzato anche dalle tappe di un’altra scommessa: essere comunità monastica e porsi a servizio della comunità parrocchiale. «Intrinsecamente credo che le due esperienze siano inconciliabili – confessa padre Nino – ma non su quest’isola. Oltre alla speranza che lo Spirito soffi perché la nostra comunità cresca, ci sostiene la solidità della dimensione ecclesiale della nostra esperienza: siamo in profonda comunione con la diocesi e verso la diocesi proviamo profonda gratitudine. E poi l’impegno parrocchiale sull’isola non è soverchiante: d’inverno rimangono meno di 200 persone e d’estate l’isola raggiunge anche le 4000 presenze fra la fine di luglio e la metà di agosto». Sono questi forse i momenti più preziosi di contatto con i “fratelli” e dove forte emerge il bisogno di silenzio e di Dio dell’uomo di oggi: “Da quando siamo arrivati, la nostra presenza ha risvegliato qualcosa, soprattutto nei turisti. Si è creata una attenzione particolare ed è scaturita una disponibilità a confrontare la propria vita con la Parola del Vangelo”. Sull’isola i turisti abbassano le difese, si placano dallo stress quotidiano e trovano qualcuno pronto ad ascoltare i loro interrogativi profondi: «Oggi c’è un estremo bisogno di silenzio – dice padre Nino – da noi vengono molte tipologie di persone, chi ha già un cammino di fede alle spalle ma anche chi quel cammino non lo ha mai iniziato. Non hai idea di quante persone ci chiedono di venire per un periodo di ritiro. Noi attendiamo l’eremo…».

E Capraia attende di tornare ad essere un luogo dello spirito.