Vita Chiesa

Il vero martire è colui che perdona

Il linguaggio è lo specchio della coscienza di un popolo. Forse è per questo che provo un sottile ed insistente disagio ogni volta che sento usare la parola «martire» in modo improprio, spesso come sinonimo di kamikaze, altre volte attribuito alle vittime della violenza. Così che ad un tempo lo stesso vocabolo, fin anche all’interno di un unico articolo, indica l’ucciso e l’uccisore. Semplice incoerenza linguistica o segno di una debolezza culturale? Non si possono dire martiri tutti quelli che vengono uccisi ingiustamente, né sono martiri tutti coloro che espongono la propria vita per una causa superiore, fosse anche religiosa. Perché il martirio porta con sé la categoria irrinunciabile del perdono. È questo che il martire testimonia: il coraggio e la volontà del perdono, da cui soltanto scaturisce la portata salvifica e vitale della morte subita. Così scriveva p. Christian nel suo testamento, poco prima di venire ucciso con i suoi fratelli trappisti: «Se mi capitasse un giorno (e potrebbe essere oggi) di esser vittima del terrorismo che sembra voler coinvolgere ora tutti gli stranieri che vivono in Algeria, vorrei che la mia comunità, la mia chiesa, la mia famiglia ricordassero che la mia vita era donata a Dio e a questo paese… Venuto il momento, vorrei avere quell’attimo di lucidità che mi permettesse di sollecitare il perdono di Dio e quello dei miei fratelli in umanità, e nel tempo stesso di perdonare con tutto il cuore che mi avesse colpito».

Per questa dipendenza dal perdono il martirio è all’origine e al vertice dell’esperienza cristiana: fuori di questo orizzonte ci sono deprecabili morti di innocenti e il doloroso calvario degli inermi, ma non si può parlare di «martirio», se non facendone un neologismo.

Tanto meno si può accettare di tradurre con «martire» il nome proprio di organizzazioni che fanno della scelta suicida dei propri adepti uno strumento di terrore. Se proprio vogliamo rispettare l’alone di «sacralità» con cui questi personaggi si presentano al mondo usiamo la più adatta parola «kamikaze» (vento di dio), che deriva da un tifone che sbaragliò nel 1281 la flotta mongola alle porte del Giappone. Ma non chiamiamoli «martiri», per amore della verità e per consentire ancora alla nostra cultura di conservare una qualche identità storica e spirituale.

I martiri non sono giganti, né eroi, perché non si impongono con la propria forza, ma si affidano alla vita e a Colui che della vita è l’unico giudice. Nel martire non c’è alcuna volontà suicida, nessuna accusa, nessun giudizio, ma solo l’offerta piena della propria vita a vantaggio degli altri: non è un essere «contro», ma un essere «con» e «per». Dal corpo dei martiri scaturisce prepotente la vita, non la morte. Su di essi si edifica la speranza, che è già certezza, di un mondo migliore.a cura delle Clarisse di San Casciano Val di Pesa