Vita Chiesa

La nuova Monte Oliveto ha i colori dell’Africa

di Michelangelo TiribilliAbate Generale degli OlivetaniIl 21 marzo, giorno del transito di San Benedetto, Patriarca dei Monaci d’occidente, è sorto un nuovo monastero in Africa, e precisamente in Ghana, per opera della Congregazione benedettina di S. Maria di Monte Oliveto.La chiesa monastica è stata consacrata dal Nunzio apostolico in Ghana, alla presenza dell’Arcivescovo di Kumasi, nella cui diocesi è situato il monastero, di altri vescovi ghanesi e dell’Ambasciatore d’Italia. Erano presenti anche le autorità civili locali del Ghana.

Il nuovo monastero, che ha preso il nome di Monte Oliveto è situato a due chilometri dal villaggio di Akwaboa, come l’abbazia di Monte Oliveto dista due chilometri dal villaggio di Chiusure. La Comunità è formata da due monaci professi perpetui e da sette monaci juniores (tutti ghanesi, eccetto un italiano).

Dal 1313 al 2006Dunque, presso il paesino di Akwaboa la Congregazione di Monte Oliveto ha piantato una nuova tenda, una tenda ricca di plurisecolare storia a partire dal 1313, quando i tre fondatori della Congregazione olivetana Bernardo Tolomei, Patrizio e Ambrogio scelsero un luogo simile: 30 chilometri da Siena, in una boscaglia, vicino ad un villaggio.

Come allora in Italia, in Ghana quattro anni fa, con tre monaci si è dato inizio a quest’esperienza monastica. Come allora il Vescovo di Arezzo Guido Tarlati, così oggi l’Arcivescovo di Kumasi Peter Sarpong ci ha accolto più che volentieri, incoraggiato ed aiutato. Come allora, molti giovani oggi stanno popolando il nuovo Monte Oliveto ed è stata costruita la chiesa, dedicandola oggi come allora alla Natività di Maria.

Filtrati dalla boscaglia, i canti dei monaci africani biancovestiti si propagano dal buio del primo mattino fino a sera, intercalando le ore del lavoro con i momenti delle lodi al Signore. Come allora il complesso dell’edificio monastico rifletteva l’edilizia monastica del tempo, il nuovo monastero rispecchia il villaggio tipico della regione degli Ashanti, la popolazione che occupa il centro-sud del Ghana, che ha il suo centro nella città di Kumasi: strutture ad una sola elevazione, aperte verso l’interno del villaggio e chiuse all’esterno.

La costruzioneIl nuovo complesso monastico è articolato al suo interno in due zone destinate: la prima entrando dal lato della chiesa, è quella riservata alla foresteria monastica e per l’accoglienza dei visitatori; la seconda, dietro la chiesa, è la zona di clausura, riservata ai monaci. La struttura architettonica si sviluppa in sei corpi di fabbrica funzionalmente ben individuati e relazionati da un percorso esterno oltre la chiesa monastica: questa è un ottagono regolare sormontato da un tiburio sempre ottagonale, che richiama la chiesa romanica del S. Sepolcro nel complesso della Sancta Jierusalem a Bologna affidata al nostro Monastero di S. Stefano, che è la Comunità madre di quella del monastero ghanese.

All’esterno, la chiesa si presenta a pianta quadrata, con un elegante pronao. Il quadrato che inscrive l’ottagono genera sui vertici quatto ambienti destinati ad essere: Cappella del SS.mo Sacramento, Sacrestia, e due Cappelle devozionali. Ai lati della chiesa sono ubicate le due strutture destinate ad essere la foresteria monastica. In posizione centrale troviamo due blocchi con gli spazi residenziali organizzati attorno al perimetro di due chiostri: uno a destra, l’altro a sinistra su ognuno dei quali si affacciano quattordici «celle» o stanze per i monaci.

In asse con la chiesa monastica, dal lato opposto, è posizionato il blocco riservato alla vita comunitaria; aula capitolare-biblioteca, refettorio, cucina, dispensa, lavanderia, spazi per attività lavorativa. Tutto il complesso è cinto da un muro perimetrale, che definisce lo spazio residenziale, diversificandolo dallo spazio esterno, adibito alla coltivazione per il sostentamento della Comunità, che come il villaggio, tende ad avere vita autonoma.

Le attivitàIl monastero è circondato da ventisei ettari di terreno tutti coltivabili. Nella sintesi classica dell’Ora et Labora la Comunità avrà una cura privilegiata per il settore agricolo, in vista del quale un monaco ghanese, con il contributo dei Lions Clubs del Distretto 108 della Toscana, è attualmente in Italia per diventare tecnico agrario ed apprendere le tecniche e l’organizzazione di una moderna azienda agricola, così da ottenere da una cooperativa un contratto di cooperazione per la scelta e il commercio dei prodotti agricoli; un altro monaco ghanese è in un’azienda di prodotti erboristi per l’export verso l’Italia.

Non si tratta del lavoro per il lavoro; ma attraverso la Croce, il Libro, l’Aratro, modellare l’uomo nuovo, con la fantasia e la creatività. Vescovi illuminati dell’Africa si sono fatti questa convinzione: terminata l’era delle missioni, ora è necessario riferirsi ai valori e alla cultura del monachesimo benedettino, perché ciò che essa fece in Europa tra i secoli VIII-XII, lo riproponga in Africa. Si tratta di quella «diaconia» dei monasteri fin dal loro inizio, nel IV secolo già in Egitto, ricordata da Benedetto XVI, nella sua prima enciclica, a cui si è richiamato anche l’Arcivescovo di Kumase nel suo discorso in occasione della consacrazione della chiesa monastica. È questa la «missio monastica» alla quale il Concilio Vaticano II nel decreto sull’attività missionaria ha invitato l’istituzione monastica ad aprirsi.

Impatto culturalePer questo la Congregazione benedettina di Monte Oliveto ha iniziato l’avventura di un monastero di «ghanesi per i ghanesi». È stata una sfida che oggi assume contorni più precisi, ma suscita anche interrogativi più stringenti, sui quali s’impone la domanda di fondo: è possibile che la Regola di S. Benedetto possa coniugarsi con la cultura ghanese?

Per rispondere è anzitutto necessario cogliere l’essenzialità di quell’esperienza monastica, sfrondandola dalle inevitabili incrostazioni e appesantimenti provocati dalla storia. La risposta non è affatto scontata e tanto meno facile. Rimangono, ed è naturale, i dubbi e le perplessità. Si tratta di saper cogliere, tra i settantatre capitoli della Regola benedettina quelli che possono coniugarsi con la cultura ghanese, quei capitoli nei quali la romanità e il contesto storico-geografico è più sfumato, tenendo fermi però alcuni punti irrinunciabili. Infatti sono molti i contenuti, i valori che vanno oltre la storicità della Regola, per incunearsi nel cuore dell’uomo, di ogni uomo: europeo, africano o asiatico che esso sia. Del resto il monachesimo, prima di essere un fatto cristiano, è un fenomeno umano, che caratterizza, sia pure con modalità diverse, tutte le religioni.

Si tratta però di un processo lungo, che richiede tra l’altro una bella dose di pazienza, di creatività, e soprattutto di fiducia nel Signore.

San Benedetto, padre per molti popoliDel resto S. Benedetto è stato e continua ad essere padre di molti popoli europei grandemente differenti per etnia e per cultura, come oggi molte sono le diversità fra noi europei e i popoli africani per mentalità, per usi, per modi di vedere e d’interpretare la realtà. Eppure ai molti popoli di cui Benedetto è padre, si possono aggiungere anche quelli africani, essendo egli operatore di unità, artefice di comunione nelle diversità, con quei principi e con la legislazione «a noi trasmessa attraverso quel testo che egli chiama «piccola Regola tracciata per principianti». Ed infatti già da diversi decenni, altre Congregazioni benedettine e i Trappisti hanno impiantato la vita monastica nelle varie nazioni africane: Nigeria, Kenia, Tanzania, Senegal, Congo, ed altre ancora.

La progressiva crescita delle Chiese locali africane richiede spazi di silenzio, luoghi di operosità produttiva spirituale e materiale. Con le loro occupazioni, i monaci, pur cercando anzitutto Dio nella storia attraversata e redenta da Gesù Cristo, come nella natura, espressione sublime della bellezza divina, si sono mossi in un ventaglio di ambiti che spazia dalla cultura all’economia, dai manoscritti all’agricoltura, dalle scuole alle distellerie. I monaci amano Dio, ma anche gli uomini e la natura, percependone appieno i doni. Infatti il monaco, secondo la definizione di Evagrio Pontico è «colui che vive separato da tutti, ma unito a tutti».

Anche quest’ultima Comunità benedettina di Monte Oliveto, ultimo promettente germoglio del secolare tronco benedettino, illuminerà di fede, di carità, di speranza di operosità la terra d’Africa.