Vita Chiesa

Il prete, «segno dell’eterno». ma anche «uomo della gente»

di Chiara DomeniciNella tensione tra la terra e il cielo, tra il già e il non ancora, tra responsabilità per il presente e destinazione all’eterno il prete è testimone tutto particolare, come pochi: «uomo della gente» e al tempo stesso «segno dell’eterno», servitore di ogni povertà e difensore della sacralità dell’umano. Potranno esserci accentuazioni diverse, a seconda degli ambiti e dei modi con cui a ciascuno è chiesto di esercitare il proprio ministero; non potrà però rompersi del tutto il legame e l’equilibrio di fondo tra i due poli di questa identità, per non confonderci con un qualsiasi operatore sociale o scivolare verso la figura di un agente di vaga spiritualità, incapace di incrociare gli interrogativi e le attese degli uomini e delle donne di oggi». Si è rivolto in questi termini monsignor Giuseppe Betori ai sacerdoti della Toscana nell’ambito della giornata presbiterale regionale svoltasi al Santuario di Montenero. Partendo dalla I Lettera di Pietro, testo fondamentale per il prossimo convegno ecclesiale di Verona, il segretario generale della CEI ha sottolineato come i preti siano un segno «grande» della cura che «il Pastore supremo», Cristo, ha per il gregge dei fedeli, ma ha anche ricordato come questo ruolo implichi delle disposizioni: «i responsabili delle comunità guidino la porzione del “gregge di Dio” loro affidata non per costrizione ma con libertà e gioia, non per interesse ma con animo generoso, non da padroni ma da modelli del gregge». E nel suo intervento monsignor Betori ha fatto anche un velato riferimento alle polemiche sul “Codice da Vinci»: «Radicati nel Crocifisso Risorto – ha detto – i preti sono chiamati a riconoscere il Signore, contro ogni falsificazione della sua figura: riaffermando il fatto della sua esistenza, l’identità della sua persona, il significato salvifico che essa ha per la storia dell’uomo. Conosciamo bene i diversi tentativi con cui si cerca di diminuire lo spessore storico e quello salvifico della figura di Cristo. Come pure conosciamo i tentativi di separare Cristo dalla Chiesa fino ad opporli. Il cammino della testimonianza comincia dal rifiuto di attentati alla verità, che ha la sua chiave di volta nell’evento della risurrezione e nella permanente presenza del Risorto nella storia».

«Non si tratta – ha continuato Betori – di un riconoscimento di carattere puramente intellettuale, pur includendo una dimensione noetica e razionale. Nella sua globalità esso però è un’esperienza spirituale, cioè un’esperienza che coinvolge le strutture fondamentali dell’esistenza umana e le indirizza verso orizzonti di novità. In questa esperienza spirituale del Risorto il prete deve essere il primo a coinvolgersi, per farsi modello ai fratelli di cui è posto al servizio. È un’esperienza in cui va messa in gioco tutta la vita (è questa al fondo la radice del nostro celibato, come pure della nostra obbedienza e della essenzialità nel rapporto con i beni!) e che si sostanzia di un rapporto d’amore, nutrito di ascolto della Parola, di esperienza di grazia mediante i sacramenti, di gesti di perdono e di fraternità. In mezzo ai tanti problemi, tensioni e difficoltà della vita presbiterale non sarà mai abbastanza la cura assidua della dimensione mistica, orante e contemplativa, che dà radici e alimento al nostro rapporto personale con Gesù Cristo».

Riferendosi poi alla dimensione della speranza, che sarà al centro del convegno di Verona, il Segretario della Cei, ha invitato i presbiteri ad essere testimoni reali: «La disillusione e la stanchezza che connotano tanta cultura contemporanea potrebbero aggredire anche i nostri cuori, complici anche l’invecchiamento e il depauperamento dei nostri presbitèri, l’accresciuto carico di servizi cui dover far fronte, un certo senso di solitudine che potrebbe aggredirci di fronte alla crescente secolarizzazione che ci allontana la gente. Essere testimoni di speranza, in queste circostanze, vuol dire sapere di poter contare, con umiltà ma con fierezza, su un tesoro grande che è il Vangelo di Gesù. Non si tratta di farci e di far coraggio, ma di riconoscere come l’opera grande dello Spirito agisce ben oltre i nostri limiti, e come la generosa dedizione di tanti preti – da quelli che si offrono fino all’effusione del sangue a quelli che nel nascondimento consumano la loro vita per i fratelli – ci appartiene come il bene di un amore oblativo che è l’essenza della nostra esistenza sacerdotale».