Vita Chiesa
L’intervento conclusivo del card. Ruini
Pubblichiamo il testo integrale dell’intervento del card. Camillo Ruini, presidente dei vescovi italiani, tenuto venerdì 20 ottobre 2006, a conclusione del IV Convegno ecclesiale nazionale di Verona.
1. Venerati e cari Confratelli nell’episcopato, fratelli e sorelle nel Signore, giunge ormai a termine questo IV Convegno nazionale delle Chiese che sono in Italia, dopo intense giornate di preghiera, di ascolto e di dialogo. Siamo dunque, forse, un poco affaticati, ma siamo soprattutto pieni di quella gioia del cuore che è frutto dello Spirito Santo (cfr Sir 50,23; Gal 5,22) e alla quale il Papa Benedetto sempre ci richiama.
Questi sono stati, infatti, giorni felici, nei quali abbiamo sentito e gustato la bellezza e la fecondità del trovarci insieme, come fratelli, nel nome del Signore (cfr Mt 18,20). Il mio primo compito, quindi, è dare voce alla nostra comune gratitudine. Vogliamo anzitutto rinnovare il nostro grazie a Dio, Padre, Figlio e Spirito. Da Lui proviene tutto ciò che di buono e positivo abbiamo vissuto qui a Verona e nel lungo cammino di preparazione, da Lui imploriamo la forza e la grazia perché i germogli che sono stati piantati possano giungere a maturazione: in concreto perché si mantenga e si approfondisca la nostra comunione e aumentino in noi la consapevolezza e l’audacia di essere, ogni giorno, suoi testimoni.
Un pensiero di speciale gratitudine lo inviamo al Santo Padre: per la sua presenza tra noi che ci ha permesso di esprimergli anche visibilmente il bene che gli vogliamo; per il discorso che ci ha rivolto e che costituisce la piattaforma fondamentale per la vita e la testimonianza delle nostre Chiese nei prossimi anni, avendoci indicato con la profondità e la chiarezza che gli sono proprie quel che appare davvero importante per la presenza cristiana in Italia; per la S. Messa che abbiamo celebrato con lui e con tutta la Chiesa di Verona, oltre che con tante persone e gruppi venuti da ogni parte. In questa Messa Benedetto XVI ha sentito l’abbraccio del nostro popolo, mentre noi, guidati dalla sua parola, siamo andati alla radice della nostra gioia e della nostra comunione.
Ma vogliamo anche ringraziarci l’un l’altro per quel che insieme, tra noi e con il Signore, abbiamo potuto vivere e costruire: questa reciproca gratitudine, amicizia e stima è anche la premessa del cammino che dopo Verona dobbiamo proseguire insieme. Speciale riconoscenza esprimiamo al Cardinale Dionigi Tettamanzi, ai vari relatori e a tutti coloro che hanno lavorato alla preparazione del Convegno. Nel dire questo avvertiamo però che il raggio della nostra gratitudine non si restringe ad alcuni tra noi, ma piuttosto si allarga ben al di là del numero di coloro che sono qui riuniti. Una nota saliente dell’attuale Convegno è infatti la quantità e qualità della partecipazione che lo ha preceduto e lo ha fatto lievitare, specialmente a partire dalla pubblicazione, nel luglio dello scorso anno, della Traccia di riflessione: straordinario è stato il coinvolgimento delle Chiese locali – non solo di quelle che hanno ospitato e curato gli eventi legati ai cinque ambiti del Convegno -, intensa la partecipazione spirituale, serio e condiviso l’approfondimento delle problematiche, particolarmente sentita la ricerca dei segni di speranza presenti oggi nella società e nella Chiesa, così come la valorizzazione di quelle figure di cristiani del Novecento che costituiscono per l’Italia di oggi modelli convincenti di testimonianza evangelica: tutto ciò in un clima di fiducia e di spontanea comunione.
Un vivissimo grazie lo diciamo ai Vescovi venuti a testimoniarci la fraterna vicinanza di tutta la Chiesa cattolica che vive in Europa ed anche negli altri continenti. Ringraziamo inoltre di cuore i delegati fraterni delle altre Chiese e Comunità cristiane, e parimenti i rappresentanti della Comunità ebraica, di quella islamica e di altre religioni.
Uno speciale e ingente debito di gratitudine abbiamo verso mons. Flavio Roberto Carraro e tutta la Chiesa di Verona: l’affetto con cui ci hanno accolto e la premura di cui ci hanno circondato sono stati un contributo prezioso alla buona riuscita del Convegno e per ciascuno di noi un incoraggiamento e un motivo di gioia.
Vorrei poi ricordare con voi un nostro fratello, l’Arcivescovo di Monreale mons. Cataldo Naro, che abbiamo molto amato ed ammirato e che ha collaborato con straordinaria partecipazione, intelligenza e apertura di cuore, in qualità di Vicepresidente del Comitato preparatorio, all’ideazione e alla progressiva realizzazione del Convegno. Per molti di noi egli è stato un amico personale, per tutti un esempio e un testimone di amore alla Chiesa e di una cultura compenetrata dal Vangelo. Lo sentiamo vivo e presente in mezzo a noi, nel mistero del Dio che si è fatto nostro fratello, per il quale Mons. Cataldo ha speso la sua vita.
Questo mio intervento è stato indicato, nel programma del Convegno, come discorso conclusivo: un titolo giustificato solo dal fatto che è l’ultimo della serie, ma non da quello che potrò dire. In realtà le conclusioni sono state in buona misura già proposte nelle ottime relazioni che abbiamo appena ascoltato sui lavori dei cinque ambiti e saranno ulteriormente formulate nel documento che, come è d’uso, l’Assemblea della CEI dovrebbe approvare qualche mese dopo il Convegno. Soprattutto, la vera conclusione, o meglio il frutto e lo sviluppo concreto dei lavori di queste giornate e di tutto il cammino preparatorio, consisterà in quello che, come Chiesa italiana, sapremo vivere e testimoniare nei prossimi anni, cercando in primo luogo di essere docili alla guida del Signore. Il mio intervento si pone dunque semplicemente come un contributo alla riflessione comune, affinché le grandi indicazioni offerteci dal Santo Padre e tutto il lavoro svolto prima e durante il Convegno trovino sbocchi concreti nella vita e nella testimonianza della Chiesa italiana. Spero di rimediare così, in qualche misura, all’impegno troppo scarso con cui ho partecipato al cammino preparatorio, per il quale si è speso invece con eccezionale competenza, disponibilità e amore il nostro carissimo Mons. Giuseppe Betori, che non ha potuto essere fisicamente con noi in queste giornate ma è ormai pronto a riprendere il suo lavoro di Segretario della C.E.I. e a contribuire come egli sa fare agli sviluppi che tutti attendiamo dal Convegno: a lui vanno il nostro affetto e la nostra gratitudine, nel vincolo di fraternità che ci unisce nel Signore.
2. Cari fratelli e sorelle, questo incontro di Verona deve aiutare le nostre comunità a testimoniare Gesù risorto entro un contesto sociale e culturale, nazionale ed internazionale, che cambia molto rapidamente, mentre si rinnova anche la realtà ecclesiale. Proprio la coscienza di questi cambiamenti, dei problemi che essi pongono alla pastorale quotidiana e della necessità di non subirli passivamente, ma piuttosto di saperli interpretare alla luce del Vangelo, per poter interagire con essi e orientare in senso positivo il loro corso, è forse il principale motivo per il quale molte attese si concentrano sul nostro Convegno.
Nei quasi undici anni che ci separano dall’incontro di Palermo abbiamo ricevuto anzitutto alcuni grandi doni, come l’Anno Santo del 2000, un’esperienza di fede, di preghiera, di partecipazione ecclesiale i cui frutti, nell’economia di salvezza, non si sono certo esauriti. Poi abbiamo vissuto gli ultimi anni del Pontificato di Giovanni Paolo II, la sua straordinaria testimonianza di abbandono in Dio e di dedizione totale alla causa del Vangelo, di cui proprio nei giorni della sua morte è divenuta manifesta al mondo la grandissima efficacia, capace di far riscoprire il senso cristiano – e autenticamente umano – del vivere, del soffrire e del morire, e al contempo l’unità profonda della famiglia umana. Con il nuovo Papa Benedetto XVI abbiamo sperimentato come, nell’avvicendarsi delle persone, possa essere piena la continuità nella guida della Chiesa e nel legame di amore che unisce il popolo di Dio al Successore di Pietro. Ma godiamo anche della luce di intelligenza e di verità con cui Papa Benedetto propone il mistero della fede e illumina le realtà e le sfide che tutti viviamo: ieri di questa luce abbiamo usufruito qui in modo speciale. Ci fa bene, cari fratelli e sorelle, rammentarci di questi e di altri grandi doni del Signore, che non rimangono esterni a noi ma fanno parte della nostra vita, anche per non rinchiuderci nel breve raggio del nostro lavoro quotidiano e per non cedere a quella miopia spirituale che fa male alla speranza.
Quando celebravamo il Convegno di Palermo prevaleva ancora, sebbene già in parte offuscata, quell’atmosfera di sollievo e di fiducia, a livello di scenari europei e mondiali, che era nata dalla caduta della cortina di ferro e dalla fine della lunga stagione della guerra fredda. Oggi non è più così, per delle cause profonde e di lungo periodo che hanno nella tragica data dell’11 settembre 2001 un’espressione emblematica ma assai parziale. La sfida rappresentata dal terrorismo internazionale, per quanto ardua e minacciosa, è infatti soltanto un aspetto di una problematica molto più ampia, che si riconduce al risveglio religioso, sociale e politico dell’Islam e alla volontà di essere di nuovo protagoniste sulla scena mondiale che accomuna almeno in qualche misura le popolazioni islamiche, pur con tutte le differenze e le tensioni che esistono tra di esse. Questo grande processo ci tocca da vicino, a nostra volta, sotto il profilo religioso e non soltanto sociale, economico e politico, anche perché, nel quadro generale dei grandi fenomeni migratori, è forte la presenza islamica in Europa e ormai anche in Italia. Lo stesso risveglio dell’Islam, d’altronde, si accompagna ad altri importanti sviluppi che sono in corso e che vedono protagoniste altre grandi nazioni e civiltà, come la Cina e l’India, configurando ormai uno scenario mondiale assai diverso da quello che faceva perno unicamente sull’Occidente. Nello stesso tempo rimangono in tutta la loro drammatica gravità le situazioni di povertà estrema e mancato sviluppo di numerosi Paesi e aree geografiche, specialmente ma certo non esclusivamente in Africa. In questo contesto di grandi trasformazioni sta assumendo dimensioni nuove e diventa sempre più vitale e irrinunciabile il compito della costruzione della pace, mentre persistono e si aggravano tante forme di guerra e minacce di guerra. Tutto ciò, di nuovo, ci interpella anche e specificamente in quanto credenti in Cristo: la Chiesa italiana, pertanto, non può non essere attenta e partecipe verso queste tematiche, decisive per gli anni che ci attendono.
Un’altra novità di grande spessore e implicazioni che ha guadagnato molto spazio nell’ultimo decennio è quella che viene indicata come questione antropologica: nei lavori del nostro Convegno essa è stata, giustamente, assai presente. Negli interrogativi intorno all’uomo, infatti, nelle domande su chi egli realmente sia, sui suoi rapporti con il mondo e con la natura, ma anche nelle questioni che riguardano l’evolversi dei suoi comportamenti personali e sociali e le nuove e rapidamente crescenti possibilità di intervento sulla sua stessa realtà che le scienze e le tecnologie stanno aprendo, la fede cristiana e la conoscenza dell’uomo che essa ha in Cristo (cfr Gaudium et spes, 22) vengono messe inevitabilmente a confronto con le prospettive e i punti di vista, talora assai divergenti, che riguardo all’uomo stesso hanno oggi largo corso e cercano di imporsi. Questo confronto, che si svolge in tutto l’Occidente ed anzi si estende sempre più a livello planetario, coinvolge profondamente anche l’Italia ed appare chiaramente destinato a proseguire e ad intensificarsi negli anni che ci attendono. Esso si sviluppa, contestualmente, a molteplici livelli: sul piano culturale e morale, su quello della ricerca scientifica e delle sue applicazioni terapeutiche, su quello del vissuto delle persone e delle famiglie come su quello delle scelte politiche e legislative. Dobbiamo dunque continuare a sostenere questo confronto, che è stato già di grande stimolo per il nostro progetto culturale, essendo anzitutto consapevoli che la luce della fede ci fa comprendere in profondità non un modello di uomo ideale e utopico, ma l’uomo reale, concreto e storico, che di per sé la stessa ragione può conoscere, e che, come ha detto Benedetto XVI il 30 maggio 2005 aggiungendo a braccio queste parole al suo discorso all’Assemblea della C.E.I., non lavoriamo per l’interesse cattolico ma sempre per l’uomo creatura di Dio.
Un ulteriore elemento di novità, meno evidente ed appariscente ma che si riferisce alla vita stessa della Chiesa e dei cattolici in Italia, mi sembra possa individuarsi in una crescita che ha avuto luogo in questi anni, sotto vari aspetti, tra loro certamente connessi. Si sono rafforzati cioè i sentimenti e gli atteggiamenti di comunione tra le diverse componenti ecclesiali, e in particolare tra le aggregazioni laicali, mentre si è fatto nettamente sentire, anche nel corso del nostro Convegno, il desiderio di una comunione ancora più concreta e profonda. A un tale positivo sviluppo ha certamente contribuito l’approfondirsi e il diffondersi della consapevolezza circa la necessità e l’urgenza, e al contempo le molte innegabili difficoltà, di una effettiva opera di rievangelizzazione del nostro popolo: ciò ha suscitato nuove energie ed ha fatto sentire più forte il bisogno di lavorare insieme, per una missione che è comune a noi tutti (cfr Apostolicam actuositatem, 2). È cresciuto inoltre, in maniera visibile, il ruolo della Chiesa e dei cattolici in alcuni aspetti qualificanti della vita dell’Italia: in particolare nel porre all’attenzione di tutti il significato e le implicazioni della nuova questione antropologica. In questo contesto si sono formate, o hanno intensificato la loro presenza, realtà come Scienza & Vita, il Forum delle Famiglie, RetInOpera, con una forte unità tra i cattolici e una assai significativa convergenza con esponenti della cultura laica. Si è potuto interpretare così, come è apparso specialmente in occasione del referendum sulla procreazione assistita, il sentire profondo di gran parte del nostro popolo. Ho ricordato questi aspetti di crescita non per nascondere le difficoltà che persistono, e sotto qualche profilo si aggravano, nella presenza cristiana in Italia, ma per mostrare come i giudizi e gli atteggiamenti improntati alla stanchezza e al pessimismo, che esistono anche all’interno della Chiesa e possono essere umanamente assai comprensibili, si rivelino unilaterali già sul piano dei fatti e dell’esperienza.
3. Proprio alla luce delle novità intercorse nell’ultimo decennio appare assai felice la scelta di concentrare l’attenzione del 4º Convegno della Chiesa italiana sulla testimonianza di Gesù risorto, speranza del mondo. Nell’articolazione di questo titolo è facile ravvisare la duplice attenzione, ormai tradizionale in questi nostri Convegni, alla missione evangelizzatrice della Chiesa e al suo determinante influsso positivo sulla vita della società. Questa duplice attenzione, però, non degenera in una dicotomia, ma si mantiene all’interno dell’unità dell’esperienza credente: è la testimonianza stessa di Gesù risorto, infatti, a costituire la speranza del mondo. Ancor più significativo è il fatto di essere andati, facendo perno sulla risurrezione di Cristo, al centro della predicazione e della testimonianza cristiana, dall’inizio e fino alla fine dei tempi, come ci ha detto ieri il Papa, che ha anche fatto risaltare in tutta la sua forza il motivo di questa centralità. Uno sguardo d’insieme all’evoluzione del mondo in cui viviamo, delle sue direttrici culturali e dei suoi comportamenti, fa vedere infatti come i problemi che emergono tocchino le fondamenta stesse della nostra fede, e anche di una civiltà che voglia essere umanistica. Le possibilità di darvi risposta dipendono pertanto, in primo luogo, dall’autenticità e profondità del nostro rapporto con Dio. Soltanto così si formano quei testimoni di Cristo che l’allora Cardinale Ratzinger ha chiesto a Subiaco il 1º aprile 2005, con parole che è bene riascoltare in questo Convegno: Ciò di cui abbiamo soprattutto bisogno in questo momento della storia sono uomini che, attraverso una fede illuminata e vissuta, rendano Dio credibile in questo mondo. La testimonianza negativa di cristiani che parlavano di Dio e vivevano contro di Lui ha oscurato l’immagine di Dio e ha aperto le porte dell’incredulità. Abbiamo bisogno di uomini che tengano lo sguardo dritto verso Dio, imparando da lì la vera umanità. Abbiamo bisogno di uomini il cui intelletto sia illuminato dalla luce di Dio e a cui Dio apra il cuore, in modo che il loro intelletto possa parlare all’intelletto degli altri e il loro cuore possa aprire il cuore degli altri. Soltanto attraverso uomini toccati da Dio, Dio può far ritorno presso gli uomini.
Grande attenzione e cura sono state dedicate pertanto, già nella preparazione del Convegno, a ciò che nelle nostre comunità può meglio disporci a quell’evento gratuito per il quale gli uomini e le donne di ogni età e condizione sono toccati da Dio, e questo è anche il primo obiettivo a cui puntare per il dopo-Convegno. Si tratta di riproporre a tutti con convinzione quella misura alta della vita cristiana ordinaria che è la santità, come ci ha chiesto Giovanni Paolo II al termine del Grande Giubileo (Novo millennio ineunte, 31). Paola Bignardi, nel suo intervento di martedì, definendo la santità unica misura secondo cui vale la pena essere cristiani, ha rimarcato come a questa richiesta non ci siano per noi alternative praticabili. Infatti il cammino verso la santità non è altro, in ultima analisi, che il lasciar crescere in noi quell’incontro con la Persona di Cristo che dà alla vita un nuovo orizzonte e con ciò la direzione decisiva, secondo le parole della Deus caritas est riprese ieri dal Papa nel suo discorso: così, nonostante tutte le nostre miserie e debolezze, possiamo essere riplasmati e trasformati dallo Spirito che abita in noi.
In concreto, nella preparazione e nello svolgimento del nostro Convegno, sono ritornate con insistenza le richieste di dare spazio alla gratuità, alla contemplazione, alla lode e alla gratitudine della risposta credente al dono che Dio sempre di nuovo fa di se stesso a noi. Nella sostanza è lo stesso invito che ci ha fatto ieri il Papa, quando ci ha detto che prima di ogni nostra attività e di ogni nostro programma deve esserci l’adorazione, che ci rende davvero liberi e ci dà i criteri per il nostro agire. Abbiamo a che fare qui con quello che è il vero fondamentale del nostro essere di cristiani. Esso, certamente in forme congruenti alle diverse vocazioni e situazioni di vita, riguarda ugualmente tutti noi, sacerdoti, religiosi e laici (cfr Lumen gentium, 40-41), che abbiamo per condizione la dignità e la libertà dei figli di Dio, nel cuore dei quali dimora lo Spirito Santo (Lumen gentium, 9). Il mistero cristiano, vissuto nella pienezza delle sue dimensioni di amore gratuito e sovrabbondante, di sequela di Cristo crocifisso e risorto e così di partecipazione alla vita stessa di Dio, è infatti l’unica realtà che possiamo davvero proporre come quel grande sì a cui si è riferito anche ieri Benedetto XVI, che salva e che apre al futuro, anche all’interno della storia. È questo il motivo di fondo per il quale il Santo Padre insiste sul posto fondamentale della liturgia nella vita della Chiesa, come anche sull’opportunità di non pianificare troppo e di non lasciar prevalere gli aspetti organizzativi e tanto meno burocratici: con tutte queste indicazioni il nostro Convegno si è mostrato in spontanea e sentita sintonia. Da questa assemblea sale dunque un’umile preghiera, che implica anche un sincero proposito, affinché il primato di Dio sia il più possibile visibile e palpabile nell’esistenza concreta e quotidiana delle nostre persone e delle nostre comunità.
4. Cari fratelli e sorelle, ciascuno di noi constata ogni giorno quanti siano gli ostacoli che l’ambiente sociale e culturale in cui viviamo frappone al cammino verso la santità. Tutto ciò rende ancor più necessaria e importante l’opera formativa che le nostre comunità sono chiamate a compiere e che si rivolge, senza dualismi, alla persona concreta dell’uomo e del cristiano, con l’intero complesso delle sue esperienze, situazioni e rapporti. Queste giornate di lavoro e le relazioni che abbiamo appena ascoltato hanno già approfondito i molteplici aspetti di un tale impegno formativo, mentre Benedetto XVI ha sottolineato che l’educazione della persona è questione fondamentale e decisiva, per la quale è necessario risvegliare il coraggio delle decisioni definitive. Per parte mia vorrei solo confermare che il nostro Convegno, con la sua articolazione in cinque ambiti di esercizio della testimonianza, ognuno dei quali assai rilevante nell’esperienza umana e tutti insieme confluenti nell’unità della persona e della sua coscienza, ci ha offerto un’impostazione della vita e della pastorale della Chiesa particolarmente favorevole al lavoro educativo e formativo. Si tratta di un notevole passo in avanti rispetto all’impostazione prevalente ancora al Convegno di Palermo, che a sua volta puntava sull’unità della pastorale ma era meno in grado di ricondurla all’unità della persona perché si concentrava solo sul legame, pur giusto e prezioso, tra i tre compiti o uffici della Chiesa: l’annunzio e l’insegnamento della parola di Dio, la preghiera e la liturgia, la testimonianza della carità.
Non è necessario aggiungere che l’opera formativa, sebbene oggi debba essere rivolta a tutti, mantiene un orientamento e una rilevanza speciale per i bambini e i ragazzi, gli adolescenti e i giovani: sono proprio le nuove generazioni, del resto, le più esposte a un duplice rischio: quello di crescere in un contesto sociale e culturale nel quale la tradizione cristiana sembra svanire e dissolversi – perfino in rapporto al suo centro che è Gesù Cristo – rimanendo viva e rilevante soltanto all’interno degli ambienti ecclesiali, e quello di pagare le conseguenze di un generale impoverimento dei fattori educativi nella nostra società. Anche di questi problemi e delle possibilità di rispondervi il nostro Convegno si è occupato approfonditamente. In particolare l’iniziazione cristiana si presenta oggi alle nostre Chiese come una sfida cruciale e come un grande cantiere aperto, dove c’è bisogno di dedizione e passione formativa ed evangelizzatrice, di sicura fedeltà e al contempo del coraggio di affrontare creativamente le difficoltà odierne. Di un’analoga passione educativa c’è forte necessità nelle scuole e specificamente nelle scuole cattoliche. È giusto ricordare qui che la Chiesa italiana nel prossimo triennio realizzerà un progetto denominato Agorà dei giovani, il cui primo e assai importante appuntamento sarà l’incontro dei giovani italiani a Loreto l’1 e il 2 settembre 2007, al quale abbiamo invitato il Santo Padre.
Un aspetto sul quale occorre insistere è quello dell’orientamento e della qualificazione missionaria che la formazione dei cristiani deve avere, ad ogni livello. Non si tratta di aggiungere un elemento dall’esterno, ma di aiutare a maturare la consapevolezza di ciò che alla nostra fede è pienamente intrinseco. Come ha detto il Papa al Convegno della Diocesi di Roma il 5 giugno scorso, Nella misura in cui ci nutriamo di Cristo e siamo innamorati di Lui, avvertiamo anche lo stimolo a portare altri verso di Lui: la gioia della fede infatti non possiamo tenerla per noi, dobbiamo trasmetterla.
5. Questa tensione missionaria rappresenta anche il principale criterio intorno al quale configurare e rinnovare progressivamente la vita delle nostre comunità. Dal nostro Convegno emerge chiara l’esigenza di superare le tentazioni dell’autoreferenzialità e del ripiegamento su di sé, che pure non mancano, come anche di non puntare su un’organizzazione sempre più complessa, per imboccare invece con maggiore risolutezza la strada dell’attenzione alle persone e alle famiglie, dedicando tempo e spazio all’ascolto e alle relazioni interpersonali, con particolare cura per la confessione sacramentale e la direzione spirituale. In un contesto nuovo e diverso, avremo così il ricupero di una dimensione qualificante della nostra tradizione pastorale.
Per essere pienamente missionaria, questa attenzione alle persone e alle famiglie deve assumere però un preciso orientamento dinamico: non basta cioè attendere la gente, ma occorre andare a loro e soprattutto entrare nella loro vita concreta e quotidiana, comprese le case in cui abitano, i luoghi in cui lavorano, i linguaggi che adoperano, l’atmosfera culturale che respirano. È questo il senso e il nocciolo di quella conversione pastorale di cui sentiamo così diffusa l’esigenza: essa riguarda certamente le parrocchie, ma anche, in modo differenziato, le comunità di vita consacrata, le aggregazioni laicali, le strutture delle nostre Diocesi, la formazione del clero nei seminari e nelle università, la Conferenza Episcopale e gli altri organismi nazionali e regionali.
Proprio qui si inserisce la proposta, o meglio il bisogno, della pastorale integrata. Dobbiamo precisare i suoi contorni e darle man mano maggiore concretezza, ma sono già chiari il suo obiettivo e la sua direzione di marcia: essa trova infatti nella comunione ecclesiale la sua radice e nella missione, da svolgere nell’attuale società complessa, la sua finalità e la sua concreta ragion d’essere. Punta quindi a mettere in rete tutte le molteplici risorse umane, spirituali, pastorali, culturali, professionali non solo delle parrocchie ma di ciascuna realtà ecclesiale e persona credente, al fine della testimonianza e della comunicazione della fede in questa Italia che sta cambiando sotto i nostri occhi.
Fin da quando si è incominciato a progettare il presente Convegno è apparso centrale, proprio nella prospettiva della missione, il tema dei cristiani laici e molto è maturato in proposito sia in queste giornate sia nel lavoro preparatorio, nella linea del Concilio Vaticano II e dell’Esortazione Apostolica Christifideles laici. È chiaro a tutti noi che il presupposto di una piena e feconda presenza e testimonianza laicale è costituito dalla comunione ecclesiale e specificamente da quella spiritualità di comunione che è stata invocata da Giovanni Paolo II con queste parole appassionate: Fare della Chiesa la casa e la scuola della comunione: ecco la grande sfida che ci sta davanti nel millennio che inizia, se vogliamo essere fedeli al disegno di Dio e rispondere anche alle attese profonde del mondo (Novo millennio ineunte, 43). In particolare è indispensabile una comunione forte e sincera tra sacerdoti e laici, con quell’amicizia, quella stima, quella capacità di collaborazione e di ascolto reciproco attraverso cui la comunione prende corpo. Anzitutto noi Vescovi e presbiteri, proprio per la peculiare missione e responsabilità che ci è affidata nella Chiesa, siamo chiamati a farci carico di questa comunione concreta, prendendo sul serio la parola di Gesù, ripresa nella Lumen gentium (n. 18), che ci dice che siamo a servizio dei nostri fratelli. Ciò non significa che si debba abdicare al nostro compito specifico e all’esercizio dell’autorità che ne fa parte. Implica e richiede però che questo compito e questa autorità siano protesi a far crescere la maturità della fede, la coscienza missionaria e la partecipazione ecclesiale dei laici, trovando in ciò una fonte di gioia personale e non certo di preoccupazione o di rammarico, e promuovendo la realizzazione di quegli spazi e momenti di corresponsabilità in cui tutto ciò possa concretamente svilupparsi. Analogo spirito e comportamento è evidentemente richiesto nei cristiani laici: tutti infatti dobbiamo essere consapevoli che tra sacerdoti e laici esiste un legame profondo, per cui in un’ottica autenticamente cristiana possiamo solo crescere insieme, o invece decadere insieme.
Il risultato di un simile contrasto alla fine non è positivo né per la razionalità scientifica, che rischia di essere percepita come una minaccia piuttosto che come un grande progresso e una straordinaria risorsa, né per il senso religioso che, quando appare tagliato fuori dalla razionalità, rimane in una condizione precaria e può essere preda di derive fantasiose o fanatiche.
È dunque davvero provvidenziale l’insistenza con cui Benedetto XVI stimola e invita ad allargare gli spazi della nostra razionalità, come ha fatto anche ieri al nostro Convegno e più ampiamente nel grande discorso all’Università di Regensburg, dove ha messo in luce il legame costitutivo tra la fede cristiana e la ragione autentica. A questa opera la Chiesa e i cattolici italiani devono dedicarsi con fiducia e creatività: anch’essa fa parte della seconda fase del progetto culturale e ne costituisce una dimensione caratterizzante. Va compiuta nella linea del sì all’uomo, alla sua ragione e alla sua libertà, che il Papa ieri ci ha riproposto con forza, attraverso un confronto libero e a tutto campo. Abbraccia dunque le molteplici articolazioni del pensiero e dell’arte, il linguaggio dell’intelligenza e della vita, ogni fase dell’esistenza della persona e il contesto familiare e sociale in cui essa vive. È affidata alla responsabilità dei Vescovi e al lavoro dei teologi, ma chiama ugualmente in causa la nostra pastorale, la catechesi e la predicazione, l’insegnamento della religione e la scuola cattolica, così come la ricerca filosofica, storica e scientifica e il corrispondente impegno didattico nelle scuole e nelle università, e ancora lo spazio tanto ampio e pervasivo della comunicazione mediatica. Di più, la sollecitudine specifica per la questione della verità è parte essenziale di quella missionarietà a cui, come ho già sottolineato, i cristiani laici sono chiamati nei molteplici spazi della vita quotidiana, familiare e professionale.
La forma e modalità in cui la verità cristiana va proposta ci riconduce al tema del nostro Convegno: è infatti, necessariamente, quella della testimonianza. Ciò non soltanto perché l’uomo del nostro tempo ascolta più volentieri i testimoni che i maestri (cfr Evangelii nuntiandi, 41), ma per un motivo intrinseco alla verità cristiana stessa. Essa infatti apre al mistero di Dio che liberamente si dona a noi e mette in gioco, insieme con la nostra ragione, tutta la nostra vita e la nostra salvezza. Non si impone quindi con evidenza cogente ma passa attraverso l’esercizio della nostra libertà. La coerenza della vita, pertanto, è richiesta a ciascuno di noi se vogliamo aiutare davvero i nostri fratelli a compiere quel passo che porta a fidarsi di Gesù Cristo.
Proprio riguardo alla concezione dell’amore si è sviluppata negli ultimi secoli, come ha scritto Benedetto XVI nella Deus caritas est (n. 3), una critica sempre più radicale al cristianesimo, che il Papa così riassume: la Chiesa con i suoi comandamenti e i suoi divieti non ci rende forse amara la cosa più bella della vita? Già Nietzsche riteneva decisivo, per superare e sconfiggere definitivamente il cristianesimo, attaccarlo non tanto sul piano della sua verità quanto su quello del valore della morale cristiana, mostrando che essa costituirebbe un crimine capitale contro la vita, perché avrebbe introdotto nel mondo il sentimento e la coscienza del peccato, autentica malattia dell’anima.
Un simile attacco sembra davvero in corso, anche se in maniera per lo più inconsapevole, come appare da quel processo di alleggerimento che tende a rendere fragili e precari sia la solidarietà sociale sia i legami affettivi. Tra i suoi fattori ci sono certamente l’affermarsi di un erotismo sempre più pervasivo e diffuso, così come la ricerca del successo individuale ad ogni costo, sulla base di una concezione della vita dove il valore prevalente sembra essere la soddisfazione del desiderio, che diventa anche la misura e il criterio della nostra personale libertà.
Anche sotto questo profilo siamo dunque chiamati a rendere ragione della nostra speranza (cfr 1Pt 3,15), con tutta quell’ampiezza di impegno e di servizio che ci ha illustrato il Papa nel suo discorso. Si tratta infatti della vita concreta delle persone e delle famiglie e del sostegno che esse nella comunità ecclesiale trovano o non trovano. Si tratta in particolare del modo in cui è concepito, proposto e vissuto il matrimonio, come del tipo di educazione che offriamo alle nuove generazioni. Al riguardo deve crescere la nostra fiducia e il nostro coraggio nell’affrontare la grande questione dell’amore umano, che è decisiva per tutti e specialmente per gli adolescenti e i giovani: è illusorio dunque pensare di poter formare cristianamente sia i giovani sia le coppie e le famiglie senza cercare di aiutarli a comprendere e sperimentare che il messaggio di Gesù Cristo non soffoca l’amore umano, ma lo risana, lo libera e lo fortifica.
All’interno di questa linea costante l’ultimo decennio ha visto crescere delle attenzioni specifiche, specialmente in rapporto all’aggravarsi della situazione internazionale, con l’esplosione del terrorismo di matrice islamica e di guerre funeste, e soprattutto con l’impatto che sta avendo anche da noi la questione antropologica. Pertanto, in stretta sintonia con l’insegnamento dei Pontefici, abbiamo messo l’accento sulla cultura della pace, fondata sui quattro pilastri della verità, della giustizia, dell’amore e della libertà, come afferma la Pacem in terris (nn. 18-19; 47-67). Abbiamo inoltre concentrato il nostro impegno sulle tematiche antropologiche ed etiche, in particolare sulla tutela della vita umana in tutte le sue fasi, dal concepimento alla morte naturale, e sulla difesa e promozione della famiglia fondata sul matrimonio, contrastando quindi le tendenze ad introdurre nell’ordinamento pubblico altre forme di unione che contribuirebbero a destabilizzarla. Con lo stesso spirito abbiamo incoraggiato l’impegno pubblico nell’educazione e nella scuola e insistito con pazienza e tenacia, anche se finora con risultati modesti, per la parità effettiva delle scuole libere.
Per il modo in cui interpretare storicamente il nostro essere Chiesa negli anni che ci attendono, Benedetto XVI ci ha dato dei grandi ammaestramenti, specialmente nel discorso alla Curia Romana del 22 dicembre scorso, invitandoci a proseguire e sviluppare l’attuazione del Concilio Vaticano II sulla base dell’ermeneutica della riforma, cioè del rinnovamento nella continuità dell’unico soggetto Chiesa e dei principi del suo insegnamento, continuità che ammette forme di discontinuità in rapporto al variare delle situazioni storiche e ai problemi nuovi che via via emergono. Il Papa stesso ha aggiunto che il Concilio ha tracciato, sia pure solo a larghe linee, la direzione essenziale del dialogo attuale tra fede e ragione e che adesso questo dialogo è da sviluppare con grande apertura mentale, ma anche con quella chiarezza nel discernimento degli spiriti che il mondo con buona ragione aspetta da noi proprio in questo momento: a un tale compito affascinante anche il nostro Convegno confida di aver dato un contributo, per quanto modesto.
La parola discernimento ci richiama ad un obiettivo che ci eravamo dati nel Convegno di Palermo, anche con l’impulso di Giovanni Paolo II, specialmente in rapporto al discernimento comunitario che consenta ai fratelli nella fede, collocati in formazioni politiche diverse, di dialogare e di aiutarsi reciprocamente ad operare in maniera coerente con i comuni valori a cui aderiscono. È diffusa l’impressione che questo obiettivo sia stato mancato in larga misura nel decennio scorso, anche se una valutazione più attenta potrebbe suggerire che esso ha avuto pure delle realizzazioni non piccole, principalmente, ma non esclusivamente, in occasione della legge sulla procreazione assistita e del successivo referendum. Per fare meglio in futuro può essere utile tener accuratamente presente la differenza tra il discernimento rivolto direttamente all’azione politica o invece all’elaborazione culturale e alla formazione delle coscienze: di quest’ultimo infatti, piuttosto che dell’altro, la comunità cristiana come tale può essere la sede propria e più conveniente, mentre partecipando da protagonisti a un tale discernimento culturale e formativo i cristiani impegnati in politica potranno aiutare le nostre comunità a diventare più consapevoli della realtà concreta in cui vivono e al contempo ricevere da esse quel nutrimento di cui hanno bisogno e diritto.
La premessa decisiva per una buona riuscita del discernimento comunitario, da realizzarsi in ambito pastorale non meno che riguardo ai problemi sociali e politici, come assai più largamente per una più piena testimonianza cristiana a tutti i livelli, è in ogni caso la crescita e l’approfondimento di quel senso di appartenenza ecclesiale che purtroppo fatica a penetrare l’intero corpo del popolo di Dio e talvolta anche in sue membra qualificate sembra scarso. Benedetto XVI, mettendo davanti a noi la vera essenza della Chiesa, come la incontriamo, pura e non deformata, nella Vergine Maria, ci ha indicato ieri la strada giusta per maturare in noi il significato e il motivo autentico della nostra appartenenza, che non ignora, non nasconde e non giustifica le tante carenze, miserie e anche sporcizie di noi stessi e delle nostre comunità, ma sa bene perché non deve arrestare soltanto lì il proprio sguardo e perché esse non devono attenuare la sincerità e profondità della nostra appartenenza.
Cari fratelli e sorelle, su questa nota ecclesiale vorrei terminare il mio troppo lungo discorso, intimamente convinto che l’amore alla Chiesa fa alla fine tutt’uno con l’amore a Cristo, pur senza dimenticare mai che tra la Chiesa e Cristo vige non un’identità ma una non debole analogia (cfr Lumen gentium, 8). Questo amore indiviso, dunque, dobbiamo far rifiorire in noi. Ci affidiamo per questo all’intercessione di Maria, Madre della Chiesa, del suo sposo Giuseppe, che della Chiesa è universale patrono, e di San Zeno patrono della Chiesa di Verona, a cui rinnoviamo il nostro grazie. Il Signore Gesù benedica la nostra umile fatica di questi giorni e faccia germinare da essa qualche frutto dello Spirito, così che possiamo essere davvero testimoni della sua risurrezione, per quella speranza di cui tutti abbiamo bisogno.