Vita Chiesa

La Chiesa italiana vista dall’Africa

«Non si deve avere paura di stare in mezzo alla gente. Ecco il contributo che la Chiesa dell’Africa ha portato al Convegno di Verona».

Monsignor Virgilio Pante è il vescovo di Maralal, diocesi nata appena cinque anni fa in Kenya. Da trentaquattro anni è in Africa. E al Convegno ecclesiale ha partecipato come delegato «speciale».

«Invitato come figlio della Chiesa italiana che è stato mandato a portare speranza al di fuori dei confini della penisola», spiega.

Pante ha un forte legame con la Toscana: la sua missione è stata visitata dal cardinale Silvano Piovanelli quando era arcivescovo di Firenze e dal paese di Settignano sono partiti aiuti per le sue attività.

Nelle cinque giornate di Verona il vescovo ha seguito gli incontri e i lavori di gruppo. «Ho visto una Chiesa che è al tempo stesso stanca ma anche ansiosa di risvegliarsi – afferma –. Qui la povertà economica è risolta ma il Paese si è adagiato sulla ricchezza che dà un’apparente autosufficienza. Invece, in Africa si combatte quotidianamente per un pasto. La gente vive con un euro al giorno ma nonostante tutto ha il tempo per incontrarsi, parlare, aiutarsi a vicenda. Si è più interessati alla comunità che a se stessi. Forse perché soltanto se si sopravvive come gruppo non si crolla».

Dal sud del mondo soffia il vento della freschezza e della vivacità che dovrebbe contagiare anche l’Italia. «La Chiesa africana – spiega il vescovo – è una Chiesa giovane che può insegnarci ad essere più vicini alle persone e a non essere prigionieri di strutture rigide. E poi può stimolare il coinvolgimento dei laici. In Kenya esistono pochissime parrocchie che sono grandi come le nostre diocesi. Tocca ai laici mandarle avanti. Il prete arriva una volta al mese mentre il lavoro di ogni giorno viene svolto dai fedeli». Anche le celebrazioni potrebbero essere rivitalizzate guardando al continente nero. «In Italia le liturgie sono spente – sostiene Pante –. Invece, le celebrazioni africane sono davvero una festa in cui trova posto anche la corporeità. Qui c’è timore di cantare, sorridere o salutarsi. Al contrario l’esperienza dell’Africa è ben più coinvolgente». Un entusiasmo che potrebbe avvicinare anche i giovani.

«Se nel tempo libero i ragazzi italiani ballano e cantano insieme, anche la Chiesa dovrebbe seguire lo stile “africano” per recuperarli. Di fatto, ci vogliono meno Messe e più Messa».

E quale immagine del Convegno porterà a Maralal? «Quella – risponde il vescovo – dei laici che hanno fatto sentire la loro voce e dei sacerdoti che, quasi in silenzio, sono stati a sentire le proposte giunte da chi vive il quotidiani. Forse come gerarchia dovremmo veramente trovare il coraggio di tornare ad ascoltare».Giacomo Gambassi