Vita Chiesa

Le dieci parole per la Chiesa italiana

È un’agenda fitta quella che le cinque giornate di Verona (16-20 ottobre) consegnano alla Chiesa italiana. Un’agenda che, vista alla luce del Risorto e aperta sulla vita quotidiana, parla di formazione delle coscienze e impegno per il bene comune, dignità inviolabile dell’uomo e valorizzazione dei laici. Sfogliamone qualche pagina.

DISCERNIMENTO. Si riparte dai “sentieri interrotti” del Convegno di Palermo: la conversione missionaria della pastorale e il discernimento comunitario. Ai tremila delegati riuniti nella Fiera non manca il coraggio della verifica. E neppure al cardinal Ruini, che conclude il suo intervento con l’invito al discernimento “culturale e formativo”, da realizzarsi in ambito pastorale non meno che riguardo ai problemi sociali e politici, e che si alimenta di un atteggiamento sincero e profondo di appartenenza alla Chiesa.

SÌ E NO. L’esito del discernimento è la capacità di fare delle scelte. Il profilo del testimone disegnato a Verona è quello di chi ha occhi capaci di vedere nella croce il “sì” estremo di Dio all’uomo, alla vita e all’amore, alla nostra libertà e intelligenza. E voce per pronunciarne altrettanti, anche se prendono la forma dei “no” alle guerre e al terrorismo, alla fame e alle epidemie che colpiscono interi continenti, alle contraffazioni della libertà e dell’amore; alle minacce rivolte alla vita umana, sacra in tutte le sue fasi.

UOMO. Al centro dei lavori stanno le sfide del mondo di oggi: una soprattutto, la questione antropologica. In una cultura in cui Dio sembra divenuto superfluo ed estraneo – ha ricordato Benedetto XVI – assistiamo a una radicale riduz ione dell’uomo, considerato un semplice prodotto della natura. Egli, invece, è ragione, intelligenza e amore, affacciati su una prospettiva di eternità. La speranza cristiana genera un nuovo pensiero sull’uomo. Anche questo fa parte della missione della Chiesa, che non opera per l’interesse cattolico ma per l’uomo creatura di Dio.

SECONDA FASE. Il riferimento è al progetto culturale della Chiesa italiana, nato a metà degli anni Novanta con l’intento di saldare più strettamente fede e vita quotidiana. Un compito che non è certo archiviato e che deve trovare i passi di un radicamento ulteriore nella pastorale ordinaria, nella dimensione popolare e nell’investimento educativo della comunità cristiana del nostro Paese. “Una fede amica dell’intelligenza”, per dirla con Papa Ratzinger, può dare slancio alla cultura del nostro tempo e restituire in essa piena cittadinanza alla fede cristiana. L’Italia, da questo punto di vista, è terreno bisognoso e favorevole.

EDUCAZIONE. Indicata nel cammino preparatorio come una vera e propria emergenza – in tutti gli ambiti: dalla sfera affettiva a quella sociale, passando attraverso la partecipazione e il dialogo – la formazione delle coscienze è l’unica via in grado di “risvegliare il coraggio delle decisioni definitive”. Le sintesi dei gruppi di lavoro al Convegno ne sono una chiara conferma: educare l’intelligenza, la libertà e la capacità di amare costituiscono i grandi capitoli di un “progetto formativo permanente” in cui la parrocchia è la prima scuola di educazione e di comunione, luogo di confronto e di rigenerazione del linguaggio credente.

IL CASO SERIO DELLA FEDE. Pochi giorni prima di venire eletto Papa, il cardinal Ratzinger individuava la necessità di persone capa ci di “rendere Dio credibile in questo mondo”. A Verona Benedetto XVI ha messo in guardia dalla “secolarizzazione interna” che insidia la Chiesa nel nostro tempo. Dietro c’è il riconoscimento della debolezza di una testimonianza spesso incapace di portare le ragioni, di porre in luce il legame tra verità e libertà, all’origine di ogni forma di dialogo degna di questo nome. “Che ne è della nostra fede?”, ha gridato dall’altare eretto sotto gli spalti del “Bentegodi”.

Non si tratta di difendere un’identità minacciata, ma di raccogliere l’eredità dei testimoni che hanno lasciato tracce indelebili in ogni angolo della Penisola. Volti luminosi di una santità che è “quel comportamento perfettamente umano che è divino” (dom Franco Mosconi).

LAICI. Sono stati i grandi protagonisti dell’appuntamento veronese, fin dal primo momento. È venuta l’ora – sono le parole del cardinal Tettamanzi che hanno scaldato l’Arena – in cui la splendida teoria conciliare sul laicato diventi un’autentica prassi ecclesiale. Cosa manca? Il trinomio indicato dallo stesso arcivescovo di Milano: comunione, collaborazione e corresponsabilità. Nonostante i molti passi in avanti, subiamo ancora gli effetti di un’anacronistica frammentazione e dello scarso riconoscimento dell’esperienza secolare dei laici nel pensare e interpretare la pastorale. Su di essi il Convegno ha concentrato fiducia e attesa; non rispondere con maturità sarebbe sprecare la grazia di questo momento.

LA RESPONSABILITÀ POLITICA. Una ripresa di soggettività del laicato non è essenziale solo per rispondere alla fondamentale esigenza dell’evangelizzazione. Anche la qualità della convivenza civile ne trae vantaggio. La Chiesa – ha ricordato il Papa – ha un interesse profondo per il bene della comunità politica, ma “non è e non intende essere un agente politico” , per cui non tocca a essa in quanto tale ma ai fedeli laici, “sotto la propria responsabilità”, agire in questo ambito per costruire una società più giusta. La comunità ecclesiale, da parte sua, ha un duplice contributo da offrire alla vita pubblica: aiutare la ragione a essere meglio se stessa e radicare nelle coscienze le energie morali e spirituali necessarie alla costruzione del bene comune.

Organizzare la speranza è un compito molto concreto: significa affrontare la questione demografica, la precarietà lavorativa dei giovani e i problemi dell’immigrazione; contrastare le povertà e superare i divari interni al Paese; accrescere la dimensione relazionale dell’economia e riconoscere il ruolo sociale della famiglia.

UNA PASTORALE UNITARIA. L’unità della persona e della sua coscienza è una sfida culturale dai riflessi fortemente rilevanti per la vita delle comunità cristiane. Le tentazioni dell’autoreferenzialità e del ripiegamento su di sé non si sconfiggono con un’organizzazione sempre più complessa, ma con un’attenzione maggiore alle persone e alle famiglie, valorizzando le relazioni interpersonali e superando un’azione troppo settoriale.Da Verona esce rafforzato il bisogno di mettere in rete le molteplici risorse delle parrocchie e delle varie realtà ecclesiali, nella direzione di una pastorale “integrata”, meno dispersa e affannata. La linfa che può sostenerla è la spiritualità di comunione chiesta da Giovanni Paolo II come cifra del nuovo millennio; le modalità concrete non potranno prescindere da spazi e momenti di corresponsabilità. “In un’ottica autenticamente cristiana – ha ribadito il cardinal Ruini – possiamo solo crescere insieme, o invece decadere insieme”. AMORE. C’è una definizione particolarmente efficace di Benedetto XVI sugli effetti della risurrezione di Gesù sul cre dente: “Io, ma non più io”. È la logica dell’amore, che rigenera e trasfigura; di quella esplosione di vita che immette la speranza nel dna dell’uomo nuovo.Fra le voci di questo essenziale decalogo dell’eredità di Verona, la parola speranza non compare. Forse è perché la Chiesa riunita all’ombra dell’Arena, più che discutere sulla speranza, ha cercato di parlare a tutti con speranza: tappa ulteriore di quella “corrente d’affetto” che dal Concilio ad oggi la Chiesa continua a riversare sull’Italia, sull’Europa e sul mondo.Sir