Vita Chiesa
Benedetto XVI, l’enciclica sulla speranza
“Spe salvi facti sumus” (“Nella speranza siamo stati salvati”): si apre con queste parole la Lettera Enciclica di Benedetto XVI, seconda del suo pontificato dopo “Deus caritas est” del 25 dicembre 2005. Il testo, che porta la data del 30 novembre 2007, festa di Sant’Andrea apostolo, è stato presentato in Vaticano nello stesso giorno (nella foto, la firma dell’Enciclica). Proponiamo una sintesi redazionale.
ELEMENTO DISTINTIVO. “La redenzione ci è offerta nel senso che ci è stata donata la speranza, una speranza affidabile, in virtù della quale noi possiamo affrontare il nostro presente”. È una delle prime affermazioni dell’Enciclica, sulla quale Benedetto XVI innesta la questione di apertura: “Ma di che genere è mai questa speranza per poter giustificare l’affermazione secondo cui a partire da essa, e semplicemente perché essa c’è, noi siamo redenti?”. L'”elemento distintivo dei cristiani” consiste nel “fatto che essi hanno un futuro: non è che sappiano nei particolari ciò che li attende, ma sanno nell’insieme che la loro vita non finisce nel vuoto – questa la prima risposta del Papa -. Solo quando il futuro è certo come realtà positiva, diventa vivibile anche il presente”. “Il messaggio cristiano non era solo «informativo», ma «performativo». Ciò significa: il Vangelo non è soltanto una comunicazione di cose che si possono sapere, ma è una comunicazione che produce fatti e cambia la vita. La porta oscura del futuro è stata spalancata. Chi ha speranza vive diversamente; gli è stata donata una vita nuova”.
L’ESEMPIO DI BAKHITA. Per illustrare questo cambiamento profondo prodotto dalla speranza, Benedetto XVI presenta la figura dell’africana Giuseppina Bakhita, canonizzata da Giovanni Paolo II. Prima schiavizzata da padroni terribili (“ogni giorno veniva fustigata fino al sangue”), una volta liberata “Bakhita venne a conoscere un «padrone» totalmente diverso – nel dialetto veneziano, che ora aveva imparato, chiamava «paron» il Dio vivente, il Dio di Gesù Cristo”. “Ora lei aveva «speranza» – scrive il Papa – non più solo la piccola speranza di trovare padroni meno crudeli, ma la grande speranza: io sono definitivamente amata e qualunque cosa accada – io sono attesa da questo Amore”. Come Bakhita, i primi cristiani e poi, via via, tutti i credenti, vivono un’esperienza trasformante: “Gli uomini che, secondo il loro stato civile, si rapportano tra loro come padroni e schiavi, in quanto membri dell’unica Chiesa sono diventati tra loro fratelli e sorelle… Anche se le strutture esterne rimanevano le stesse, questo cambiava la società dal di dentro”. Tutto cambia, nella prospettiva della speranza, anche come senso complessivo delle cose, degli eventi: “La vita non è un semplice prodotto delle leggi e della casualità della materia – scrive Benedetto XVI – ma in tutto e contemporaneamente al di sopra di tutto c’è una volontà personale, c’è uno Spirito che in Gesù si è rivelato come Amore”.
IL RIFIUTO DELL’ETERNITÀ. “Pazienza, perseveranza, costanza” sono tre caratteristiche dei credenti che hanno ricevuto la comunicazione della “sostanza delle cose future, e così l’attesa di Dio ottiene una nuova certezza. È attesa delle cose future a partire da un presente già donato”. La “vita eterna” diviene così la discriminante tra credenti e non credenti. “Forse oggi molte persone rifiutano la fede semplicemente perché la vita eterna non sembra loro una cosa desiderabile. Non vogliono affatto la vita eterna, ma quella presente, e la fede nella vita eterna sembra, per questo scopo, piuttosto un ostacolo”, scrive Benedetto XVI, aggiungendo che per costoro “vivere sempre, senza un termine – questo, tutto sommato, può essere solo noioso e alla fine insopportabile”. La prospettiva dell’eternità non va considerata in chiave “individualistica”, come si trattasse di “una salvezza eterna soltanto privata”. “Questa vita vera, verso la quale sempre cerchiamo di protenderci, è legata all’essere nell’unione esistenziale con un «popolo» e può realizzarsi per ogni singolo solo all’interno di questo «noi». Essa presuppone, appunto, l’esodo dalla prigionia del proprio «io», perché solo nell’apertura di questo soggetto universale si apre anche lo sguardo sulla fonte della gioia, sull’amore stesso – su Dio”.
IL REGNO DELLA RAGIONE. Gli ultimi secoli sono stati caratterizzati dallo sviluppo scientifico e, annota Benedetto XVI citando Bacone, “la restaurazione del «paradiso» perduto non si attende più dalla fede, ma dal collegamento appena scoperto tra scienza e prassi… grazie alla sinergia di scienza e prassi seguiranno scoperte totalmente nuove, emergerà un mondo totalmente nuovo, il regno dell’uomo”. La “concretizzazione politica di questa speranza” trova nella Rivoluzione francese e nell’Illuminismo due tappe fondamentali, quali avvento del “regno della ragione e della libertà”. Con Engels e poi a maggior titolo con Marx “essendosi dileguata la verità dell’aldilà, si sarebbe ormai trattato di stabilire la verità dell’aldiqua. La critica del cielo si trasforma nella critica della terra, la critica della teologia nella critica della politica”. Gli sviluppi del pensiero contemporaneo, secondo Benedetto XVI, pongono sempre più la questione della “ragione”: “Quand’è che la ragione domina veramente? Quando si è staccata da Dio? Quando è diventata cieca per Dio?”. Nell’Enciclica il Papa risponde così: “Un «regno di Dio» realizzato senza Dio – un regno quindi dell’uomo solo – si risolve inevitabilmente nella «fine perversa» di tutte le cose descritta da Kant… per questo la ragione ha bisogno della fede per arrivare ad essere totalmente se stessa: ragione e fede hanno bisogno l’una dell’altra per realizzare la loro vera natura e la loro missione”.
VERSO LA VITA NUOVA. “Chi ama Dio non può riservare il denaro per sé. Lo distribuisce in modo divino … nello stesso modo secondo la misura della giustizia. Dall’amore di Dio consegue la partecipazione alla giustizia e alla bontà di Dio verso gli altri”: è questa una delle declinazioni della speranza, secondo Benedetto XVI, che lega la salvezza individuale alla “relazione con gli altri”. Per giungere a un tale livello di apertura di cuore il Papa esorta quindi alla “preghiera come scuola della speranza”. “Pregare non significa uscire dalla storia e ritirarsi nell’angolo privato della propria felicità – annota -. Il giusto modo di pregare è un processo di purificazione interiore che ci fa capaci per Dio e, proprio così, anche capaci per gli uomini”. L’Enciclica esorta attivamente alla speranza. Dice il Papa: “Io posso sempre ancora sperare, anche se per la mia vita o per il momento storico che sto vivendo apparentemente non ho più niente da sperare. Solo la grande speranza-certezza che, nonostante tutti i fallimenti, la mia vita personale e la storia nel suo insieme sono custodite nel potere indistruttibile dell’Amore e, grazie ad esso, hanno per esso un senso e un’importanza, solo una tale speranza può in quel caso dare ancora il coraggio di operare e di proseguire”. In questa visione, “le tenebre sono come luce”, aggiunge, e la sofferenza può rappresentare “un cammino di purificazione e di maturazione, un cammino di speranza”.
IL MORALISMO DEI NOSTRI TEMPI. Riflettendo sul “giudizio come luogo di apprendimento e di esercizio della speranza”, Benedetto XVI richiama un tratto dell’epoca contemporanea. “L’ateismo del XIX e del XX secolo – scrive – è, secondo le sue radici e la sua finalità, un moralismo: una protesta contro le ingiustizie del mondo e della storia universale. Un mondo, nel quale esiste una tale misura di ingiustizia, di sofferenza degli innocenti e di cinismo del potere, non può essere l’opera di un Dio buono”. Le critiche all’ateismo, come al teismo dei pensatori della scuola di Francoforte (Horkheimer e Adorno), escludono “che possa essere trovato un qualsiasi surrogato immanente per Dio, rifiutando allo stesso tempo però anche l’immagine del Dio buono e giusto”. Si tratta sempre di una prospettiva senza speranza, e Benedetto XVI prosegue: “La protesta contro Dio in nome della giustizia non serve”, richiamando famosi passi di Dostevskij e Platone. Piuttosto, indica un percorso di discernimento: “Nella gran parte degli uomini – così possiamo supporre – rimane presente nel più profondo della loro esistenza un’ultima apertura interiore per la verità, per l’amore, per Dio. Nelle concrete scelte di vita, però, essa è ricoperta da sempre nuovi compromessi col male”. Il Papa allora chiede: “Che cosa avviene di simili individui quando compaiono davanti al Giudice? Tutte le cose sporche che hanno accumulate nella loro vita diverranno forse di colpo irrilevanti?”.
L’INCONTRO CHE SALVA. La risposta, nella parte finale dell’Enciclica, ridona il senso della speranza cristiana. “L’incontro con Lui (il Cristo) è l’atto decisivo del Giudizio. Davanti al suo sguardo si fonde ogni falsità. È l’incontro con Lui che, bruciandoci, ci trasforma e ci libera per farci diventare veramente noi stessi… Nel dolore di questo incontro, in cui l’impuro ed il malsano del nostro essere si rendono a noi evidenti, sta la salvezza”. La prospettiva finale è quindi di guardare con fiducia all’aldilà: “Alle anime dei defunti (tuttavia) può essere dato «ristoro e refrigerio» mediante l’Eucarestia, la preghiera e l’elemosina”. Secondo il Papa “che l’amore possa giungere fin nell’aldilà… è stata una convinzione fondamentale della cristianità attraverso i secoli”. Del resto, aggiunge che “nessuno pecca da solo. Nessuno viene salvato da solo”. “Così la mia intercessione per l’altro non è affatto una cosa a lui estranea, una cosa esterna, neppure dopo la morte”. Maria, nell’accogliere l’annuncio, diviene così “madre della speranza”. “Quale persona potrebbe più di Maria essere per noi stella di speranza – lei che con il suo «sì» aprì a Dio stesso la porta del nostro mondo?”.