Vita Chiesa

Gli artisti dal Papa: alle sorgenti della bellezza

Sabato 21 novembre Benedetto XVI ha incontrato nella Cappella Sistina, in Vaticano, artisti di tutto il mondo (nella foto). Tra i toscani anche il pittore Filippo Rossi e il filosofo Sergio Givone. Abbiamo raccolto le loro testimonianze. Sull’incontro e il discorso del Papa proponiamo anche una riflessione di Pietro De Marco. di Pietro De Marco

In pagine essenziali dedicate alla croce e alla nuova «estetica» della fede l’allora card. Ratzinger (Ferito dal dardo della bellezza, in Il cammino verso Gesù Cristo, 2004, ted. 2003) rifletteva sul contrasto tra un passo del Salmo 44 («Tu sei il più bello tra i figli dell’uomo…») e le parole di Isaia («Non ha bellezza né apparenza…»), nel percorso della liturgia delle ore della settimana santa. La manifestazione del Figlio è nella bellezza o nella iniquità? La bruttezza del volto irriconoscibile conduce alla Verità?  D’altronde: la realtà non è forse iniqua? Rispondeva Joseph Ratzinger che la Rivelazione è nella dialettica dei due volti. Infatti, senza la Bellezza, l’irriconoscibile uomo dei dolori non è trasceso dal Risorto. La sola iniquità della Croce, come la sola bruttezza del Mondo,  sarebbero dunque menzogna; ma «la verità e non la menzogna è l’estrema “affermazione” del mondo». Proseguiva: «È un trucco astuto della menzogna quello di presentarsi come l’unica verità, quasi che fuori e al di là di essa non ne esista alcun’altra. Soltanto l’icona del Crocifisso, in sé aperta alla resurrezione, è capace di liberarci da quest’inganno, oggi così prepotente».

Nel discorso della Sistina agli artisti Benedetto ha come ripreso ed esteso quelle note precedenti il pontificato. L’arte scuote, ferisce («come un dardo»), fa soffrire, risveglia l’uomo «aprendogli nuovamente gli occhi del cuore e della mente, mettendogli le ali, sospingendolo verso l’alto» e, richiamandolo al suo destino ultimo, «lo riempie di nuova speranza». In questo orizzonte il Papa può evocare il dictum di Georges Braque: «L’arte è fatta per turbare» (troubler , in Le jour et la nuit, Cahiers, 1917-1952,  Paris, Gallimard, 1952). Solo in questo orizzonte, sottolineo, poiché la formula suggerisce più frequentemente ai nostri contemporanei che «l’arte deve scomporre e rompere la forma, mostrificare per far vedere, per evitare la “distrazione” dell’attenzione» (Jonathan Crary, citato da Judit Török). Così trovo detto in apertura di un ciclo di mostre-provocazioni, che pretendono astutamente di far danzare la ricerca di verità, contro le «convenzioni», sul confine della pornografia, dell’autoerotismo, dei travestimenti/mutazioni di identità, dell’estetica del nulla.

Per Benedetto invece, in questa pratica senza trascendenza del perturbante, coltivata anche dalla critica sull’onda di rivolte filosofiche esauste, l’arte si vuole «abbagliante fino allo stordimento», «imprigiona [gli uomini] in se stessi, e li rende ancora più schiavi, privi di speranza e di gioia». Facilmente si potrebbe riconoscere il senso e il fallimento dell’installazione di Wallinger, nella cripta del Duomo di Milano, a partire dalla  presunzione-illusione dell’artista e dei suoi committenti di educare con una estetica del nulla la nostra attenzione all’Incarnazione.

Contro l’abitudine dell’artista a praticare, e del pubblico a subire, assieme ai proclami di disalienazione, l’ideologia della cancellazione e la quotidianizzazione dell’abietto, e magari presso i teologi ad autenticarle evangelicamente, Benedetto XVI ripropone la via pulchritudinis, «una via della bellezza che costituisce al tempo stesso un percorso artistico, estetico, e un itinerario di fede, di ricerca teologica». Una proposta anzitutto per gli artisti, che capiscono perfettamente cosa sia pulchritudo, anche se la rinnegano; la sua idea e la sua identificazione restano infatti possibili, nonostante la rivoluzione concettualista, i suoi pervasivi depistaggi.

Il Papa fa perno su Gloria di Hans Urs von Balthasar: «[La Bellezza] ha preso congedo dal moderno mondo degli interessi, per abbandonarlo alla sua cupidità e alla sua tristezza.  Essa è la Bellezza che non è più amata e custodita nemmeno dalla religione».  Nell’annunciare agli artisti la ricchezza non surrogabile, e la necessità, del dialogo con la Rivelazione, troviamo dunque un invito a non avere paura. E la «paura» da superare non è quella per l’abisso della perdita, della delocazione, che anzi l’artista ama (dire di) mettere in scena; è, al contrario, la paura della Bellezza. «Non abbiate paura di confrontarvi con la sorgente prima e ultima della bellezza, di dialogare (…) con chi, come voi, si sente pellegrino nel mondo e nella storia verso la Bellezza infinita!».

Mi sia permesso di dire così: questa realtà pellegrinante verso la Bellezza è la Città di Dio, che ha convocato molto presto gli artisti a sé, e che gli artisti hanno servito ed esaltato.

La distanza, la marginalità, la lotta contro la Città di Dio, a servizio di altre Città o del solo artista, ha portato l’arte occidentale, oggi non ieri, a subire «la legge della formazione degli idoli», secondo la formula di Hans Sedlmayr. 

L’arte si è piegata a più Idolbildungen nell’ultimo mezzo secolo, ora deificandosi, ora, consapevole della impossibile autodeificazione, nel tentativo uscire da sé, perdersi, abolirsi. Ma finzione di onnipotenza, estetismo e «disperazione» (nel celebrare, anche solo manieristicamente, l’assenza di speranza, il negativo, la polvere, come teorizzano alcuni) restano. Anche quando l’arte si fa azione-lezione, opera-comportamento: tanto è evidente la sua inanità pratica e, ad un tempo, la sua condanna all’impermanenza come «opera».

Il gioco disordinante e maligno del trickster (studiato da Arpad  Szakolczai e Agnes Horvath) si nega alla grazia. L’artista «libero» dalla Bellezza è irretito da se stesso (il Gehlen di Quadri d’epoca). Il dis-ordine ferisce l’anthropos con un dardo mortale (Christopher Alexander, Nikos Salingaros). La funzione perturbante apre illusoriamente al sacro; lo falsifica e infine lo allontana. In effetti essa gioca la partita del postumano e la sua divinizzazione.

Si discute in queste settimane sulla differenza tra arte convocata al dialogo e arte convocata per edificare il tempio cristiano e decorarne le pareti. Fasi diverse, certo, ma una sola realtà. La  intercomunicazione tra arti e Città di Dio è certamente preliminare alla urgente ricerca di nuova e migliore arte sacra. Se le chiese hanno bisogno della visibile Bellezza, è  altrettanto evidente – anche se non è stato così negli ultimi anni – che l’artista non può veicolare negli spazi sacri surrogati del divino, idoli del non-senso o simboli di «decostruzione» umana e cosmica, insomma il Brutto che si oppone alla Pulchritudo. 

Ma vi è un momento che precede, e che è più vasto delle ragioni del dialogo e della collaborazione: in Benedetto la convocazione degli artisti è anzitutto l’annuncio all’arte di una salvazione delle sue grandezze e miserie e dei suoi stessi dèmoni, nella loro ricomposizione sotto la volta (la «Bellezza infinita») dell’ordine cristiano di senso.

LA TESTIMONIANZA/1Filippo Rossi: «La gratitudine per una chiamata inattesa»

«E’ una missione importante, e una grande responsabilità quella che il Papa ci ha affidato come artisti: portare speranza in un mondo che ne ha sempre più bisogno». Filippo Rossi, pittore e storico dell’arte fiorentino, era il più giovane tra gli artisti presenti allo storico incontro di sabato scorso nella Cappella Sistina. «Una grande occasione, per me, e anche una bellissima sorpresa: ho avvertito il senso di una chiamata personale, il coronamento di un percorso di espressione del sacro attraverso l’arte che sto portando avanti da diversi anni».

La cosa che lo ha colpito, però, è stato il vedere il suo stesso senso di gratitudine, di sorpresa per questo invito anche in artisti più affermati di lui: «C’erano intorno a me i più grandi nomi dell’arte contemporanea, felicissimi del fatto che la Chiesa si rivolga a loro: l’aria che si respirava era quella di una disponibilità sincera a mettersi a disposizione, di lavorare insieme». Una voglia di «aprirsi al sacro» che ha contagiato anche tante persone lontane da percorsi di fede: artisti che hanno riconosciuto il valore dell’appello che il Papa ha rivolto loro.

L’«arrivederci» finale con cui (come già aveva fatto Paolo VI) il Papa ha chiuso il suo discorso non è parso quindi un gesto formale: «Ravasi ci ha già dato alcune indicazioni concrete in questo senso – spiega Filippo Rossi – a partire da una presenza della Chiesa alla prossima Biennale di Venezia».

Ci sono i presupposti, quindi, per riprendere un cammino comune tra arte e fede? «Sicuramente – afferma Rossi – anche perché sia Ravasi che il Papa sono stati molto sinceri nell’ammettere che a un certo punto c’è stata una frattura, e che è utile e necessario per il bene di tutti ricomporla». Proprio la Chiesa, però, spesso guarda con diffidenza verso l’arte contemporanea… «In parte è vero – riconosce Rossi – c’è l’idea ad esempio che l’arte astratta non sia adatta ad esprimere contenuti religiosi. Io invece, che vengo da una formazione di arte figurativa, ho preso la strada dell’astrattismo con la convinzione che l’arte astratta ha tanti strumenti (simboli, immagini archetipe…) per eprimere un messaggio che può essere anche, come nel mio caso, un messaggio di fede». Anzi: l’arte astratta costringe l’autore a mettersi in gioco, a spiegare il sigificato della propria opera che può essere non immediatamente percepibile da chi la osserva. L’importante è che, come ha detto il Papa, anche nella raffigurazione del dramma o del dolore ci sia uno sguardo al mistero, uno spiraglio di speranza. D’altra parte, ricorda Rossi, anche la prima arte cristiana non era figurativa ma fatta di simboli: immagini che, proprio per la loro forza evocativa, ancora oggi ci parlano.

Chi volesse sapere qualcosa di più di questo giovane artista fiorentino e delle sue opere può consultare il sito www.filipporossi.info

R. B.LA TESTIMONIANZA/2GIVONE: «Se si allontana dallo spirito, l’arte diventa muta»di Riccardo Bigi

Tra tanti artisti, un filosofo. Sergio Givone (docente di estetica all’università di Firenze e autore, oltre che di numerosi saggi, anche di alcuni romanzi pubblicati da Einaudi) ha ascoltato con un interesse e un piacere particolari, sabato scorso, le parole del Papa nella Cappella Sistina. «Un incontro molto bello per tanti aspetti: non solo per il discorso di Benedetto XVI, che è stato una vera lezione magistrale, ma anche per il luogo in cui si è svolto e per il clima di attesa che Antonio Paolucci e monsignor Ravasi, fin dal giorno prima, hanno saputo creare».

Un incontro che può servire a riprendere quel dialogo tra arte e fede che, nel mondo contemporaneo, ha attraversato momenti difficili…

«Ho apprezzato il fatto che, sia nelle parole del Papa che in quelle di chi ha parlato prima di lui, nessuno ha nascosto la consapevolezza di una rottura avvenuta nell’ultimo secolo non solo tra arte e Chiesa, ma tra arte e mondo dello spirito, con tutto quello che questo mondo significa: valori simbolici, tradizione, il problema metafisico… Rinunciando a tutto questo l’arte sembra di colpo essersi fatta muta, incapace di dare voce alle istanze profondamente religiose presenti nell’uomo».

Benedetto XVI ha sottolineato con forza il fatto che il cristianesimo ha trovato nelle arti, fin dall’antichità, un alleato preziosissimo. Oggi è possibile rinsaldare questa alleanza?

«La Chiesa ha bisogno dell’arte, così come l’arte ha bisogno di lasciarsi interrogare dalla fede: questo è il nucleo del messaggio del Papa che è partito proprio dalla constatazione molto realistica, anche se dolorosa, della frattura di questo rapporto: che non è la rottura di qualcosa che può non esserci ma di qualcosa di necessario, qualcosa che è nell’ordine delle cose. Lo ha sottolineato Benedetto XVI, lo ha sottolineato monsignor Ravasi e prima ancora lo ha mostrato la scelta del passo che Castellitto ha letto all’inizio dell’incontro: un passo di Giovanni Paolo II di grande forza speculativa ma anche di grande passione estetica, la riflessione di un artista che pensa».

Anche l’arte ha bisogno della fede?

«L’arte, ci ha detto il Papa, ha una vocazione, una missione, ancora di più: una essenza religiosa. Anche quando si fa negatrice di determinati contenuti di fede. Anche quando sembra lontanissima, anche quando esplora le dimensioni dell’abbandono, dell’oblio, della non-fede. Anche lì l’arte rivela la sua natura religiosa perché sempre e comunque, sia testimoniando il sì, sia testimoniando il no, invita ad alzare lo sguardo, a guardare a quella dimensione di mistero che è la dimensione che l’arte cerca in tutte le cose, nelle grandi cose e nelle piccole cose, nel visibile e nell’invisibile. Come ci ha spiegato Ravasi, non è che l’arte dà corpo all’invisibile: ce lo rivela nel visibile, ce ne mostra la presenza. Porta il visibile, ciò che ci sta intorno, la nostra vita, a sprigionare una forza di rivelazione. L’arte fa questo: sia nei piccoli fatti quotidiani che nei grandi eventi della storia l’arte vede qualcosa che normalmente non si riesce a vedere ma che c’è. Non tira giù dal cielo un’idea platonica ma rivela la bellezza, la forza, la tragedia della vita. Ci costringe quindi a compiere questo movimento trascendente, a guardare verso un mistero che ci abbraccia tutti, credenti o non credenti, atei o religiosi. Se l’arte è questo, allora ha un rapporto necessario con la religione: direi di più, è essa stessa un fatto religioso».

Spesso però l’arte contemporanea sembra assolutamente distante da questo tipo di percorsi…

«Non sempre l’arte contemporanea è consapevole della propria forza spirituale; non sempre è consapevole di avere per oggetto il mistero, l’enigma della vita. Anche quando crede di fare altro, quando sembra voler cancellare tutto questo, quando dice di volgere le spalle al mistero, ce ne parla ancora di più. Su questa base è stato inevitabile da parte del Papa il richiamo al carattere ambivalente dell’arte. Niente come l’arte è inquietante, perché obbligandoci ad alzare lo sguardo compie un’opera tutt’altro che pacificante. Ci fa trovare un Dio che perdona, ma anche un Dio che giudica: ci fa vedere il bene e il male, e quindi ci impone delle scelte, delle responsabilità. Allo stesso tempo, niente come l’arte è capace di dare speranza. Qualunque cosa faccia l’arte, anche quando dà voce al nichilismo, al non senso, attinge per fare questo a quel momento di creatività che è il momento essenziale dell’aprirsi alla speranza. Anche quando si fa negatrice di senso, anche quando rappresenta il male di vivere, getta luce sul buio che cerca di rappresentare».

Per contro la Chiesa, che in tanti periodi della sua storia ha affidato all’arte il proprio messaggio, oggi sembra meno decisa nel farlo…

«In questo senso c’è stato alla fine di questo incontro una offerta da parte della Chiesa, fatta con molta delicatezza. Il Papa ci ha detto: “la Chiesa è qui, la Chiesa custodisce una tradizione di linguaggio, di simboli, di contenuti, con i quali è possibile dare voce a ciò che altrimenti è impossibile esprimere”. Un patrimonio che il Papa ha messo, con molta semplicità, a disposizione degli artisti perché ne possano attingere nel loro lavoro».

Discorso del Papa agli artisti