Vita Chiesa
Don Baroni, prete dal cuore grande
di Antonio Lovascio
La grandezza di un personaggio si misura anche dall’eredità spirituale e di valori che lascia. Dalle opere che nascono e crescono per ricordarlo. È il caso di don Franco Baroni(nella foto con Giovanni Paolo II), il prete lucchese morto il 20 maggio 1985, poco più che cinquantenne. Sul letto di sofferenza riuscì a strappare agli amici una promessa. Così le sue ultime volontà in questi 25 anni sono state realizzate dall’Associazione che porta il suo nome, promotrice di tanti momenti di solidarietà. In prima linea nei soccorsi durante l’ultima alluvione di Natale in Lucchesia e Versilia. Ha promosso numerosi spettacoli per i bambini e per le loro famiglie. Ma soprattutto è lievitata come punto di riferimento di centinaia di volontari che ogni giorno si alternano in un faticoso lavoro di assistenza domiciliare ai malati oncologici e geriatrici, compresi quelli colpiti da Parkinson ed Alzheimer. Grazie all’intuizione di don Franco è stato dunque tracciato un solco. Altri gruppi, in Toscana ed in Italia, si sono poi ispirati a questo modello organizzativo. E non a caso Lucca è diventata la «capitale», il centro-motore di tutto il volontariato.
Don Baroni è uno dei preti che è passato nella mia vita non solo sfiorandola, ma… spostandola energicamente verso Dio. Sembrava venisse direttamente dalla fabbrica del Cielo. La nostra amicizia nacque proprio agli inizi di quegli anni Ottanta, a cavallo tra il 1982 e il 1983. Dalla redazione fiorentina di «Avvenire» ero appena passato alla «Nazione». Proprio per la mia estrazione, il direttore Piero Magi ed il caporedattore delle «Province» Riccardo Berti mi inviarono a Lucca con un «mandato speciale». Per la città erano gli anni della «svolta»: da un paio di lustri viveva una profonda trasformazione sociale ed urbanistica, della quale la Chiesa locale ed il mondo cattolico furono sicuramente protagonisti.
Orientati da due Pastori – entrambi fiorentini – che hanno lasciato un segno profondo di rinnovamento: prima «il grande traghettatore del Concilio», monsignor Enrico Bartoletti, che Paolo VI volle ai vertici della Cei; poi il suo successore, monsignor Giuliano Agresti, il vescovo delle scelte coraggiose. Un magistero profetico interpretato da sacerdoti-intellettuali come don Pietro Gianneschi, don Sirio Valoriani, don Arturo Paoli; ma praticato anche da «preti di strada» quali appunto il nostro don Baroni e don Bruno Frediani, fondatore del Ceis e di comunità terapeutiche che hanno salvato tanti giovani dalla droga.
Ho voluto richiamare il contesto ecclesiale dentro cui don Franco ha operato, proprio per far comprendere meglio la «qualità» della sua missione sacerdotale.
«Prete di strada», l’ho chiamato: perchè per oltre 20 anni è stato il cappellano nazionale dei nomadi. Ma evocarlo solo per questo sarebbe un po’ riduttivo. Altrettanto riduttivo mi parrebbe sottolineare esclusivamente il suo percorso di «apostolo itinerante», tra le grandi famiglie storiche dei circhi (Togni, Orfei, Medrano) e quelle più semplici dei giostrai e gestori di luna park. Credo invece che la più appropriata definizione sia quella che ho sentito attribuirgli, dall’alto della sua saggezza mugellana, da monsignor Giuliano Agresti, dopo la morte prematura: «Caro Antonio – mi disse – don Franco non aveva e non ha bisogno di appellativi: è stato il prete che ogni vescovo avrebbe voluto avere! Un «fanciullo» stregato dalla favola del circo. Ma pur nella sua forma atipica di vita, egli era un serio uomo di Chiesa. Fermo e mobile, come conviene ad un “nomade” di Dio».
Partendo dai cosiddetti emarginati, arrivava perfino ad alcune articolazioni dello sport. Con passione seguiva i ciclisti della «Fanini» nelle gare più importanti, anche se il «momento clou» erano le udienze in Vaticano: quando, uno ad uno, presentava i suoi «campioni» al Papa sciatore, Giovanni Paolo II.
Era soprattutto – così si direbbe di questi tempi – un sacerdote di frontiera, perché operava ai margini della società. Geniale, creativo, fedele al suo vescovo e generoso all’inverosimile. Le sue erano giornate piene. A forza di frequentarlo, conoscevo a memoria la sua agenda settimanale. Ovvio, dedicava il sabato e la domenica totalmente alla «sua» comunità (San Michele in Escheto), piccola ma esigente, forse un po’ gelosa dei troppi impegni del pievano. Il lunedì pomeriggio, con l’inconfondibile Fiat 127 gialla, don Franco partiva per Roma. Il suo servizio di assistente ecclesiastico del mondo circense era molto apprezzato dalla Cei e in Segreteria di Stato. Più che nelle stanze dell’ufficio romano della Fondazione «Migrantes», svolgeva la sua azione «sul campo», raggiungendo i suoi «artisti» in giro per l’Italia, per aiutarli a risolvere anche i loro problemi più spiccioli.
A metà settimana, appena rientrato a Lucca, non si scordava di essere l’assistente spirituale dei Vigili Urbani; e delle più diverse incombenze che gli affidavano i suoi parrocchiani. Quando dalla collina calava in città, faceva spesso un salto in redazione. Era di casa alla «Nazione», in piazza del Giglio; al punto che, affettuosamente l’avevamo soprannominato «il nostro giornalista di complemento». Spesso portava ghiotte notizie: quant’era orgoglioso dei suoi «scoop»!
Il mondo della stampa e della televisione lo affascinava: forse perché in esso vedeva il crocevia delle sue molteplici attività pastorali, lo strumento ideale per diffonderle. Per primo dotò gli operatori dello spettacolo viaggiante di un giornalino periodico. Grande comunicatore per vocazione, intuiva la forza dei mass media. Li sapeva usare, senza farsi mai strumentalizzare. Conquistò l’amicizia di molti giornalisti: però non tollerava steccati editoriali. Felice quando, tre o quattro volte all’anno, insieme a monsignor Pietro Gianneschi, riusciva a raccogliere in un’agape fraterna, a San Michele in Escheto o in Arcivescovado, cronisti di testate concorrenti, giuristi, magistrati, professionisti ed amministratori, che potevano così confrontarsi con il vescovo su alcuni temi sociali e pastorali scottanti. Uno più di tutti polarizzava queste conversazioni e le sue preoccupazioni: quello dell’accoglienza degli zingari. «Caldo», meglio dirompente, com’è oggi nelle nostre città l’argomento-immigrazione.
Era pure sensibilissimo alle attese ed ai problemi dell’infanzia. Con un chiodo fisso: l’idea di creare a Lucca un’apposita area riservata al circo ed al Luna Park, «sfrattati» dal verde attorno alle Mura. Non si dette pace finchè – nell’autunno del 1983 – il sindaco Mauro Favilla non lo accontentò, destinando allo spettacolo viaggiante uno spazio accanto al grande parcheggio di via delle Tagliate. Il Piazzale che appunto dal 1995 è dedicato a don Baroni. Un prete dal cuore grande tanto da non riuscire a sottrarsi ai bisogni del prossimo. La sua totale dedizione agli altri lo portò a morire anzitempo. Ma appena iniziato il suo «calvario» in ospedale, implorò medici e operatori del Volontariato a lui più vicini di creare un’Associazione finalizzata all’assistenza dei malati di tumore e degli anziani.
Due sogni, in pochi anni, sono diventati due fantastiche realtà. Importanti come l’insegnamento che don Franco ci ha dato, con esemplari testimonianze improntate al coraggio e all’ottimismo. Col suo caratteristico sorriso stampato in volto come un’icona, sia quando portava parole di conforto a chi soffriva, sia che dovesse regalare – con le sue iniziative – un po’ di felicità ai più piccoli, sempre in cima ai suoi pensieri.