Vita Chiesa

Parla il postulatore: «Lui era proprio così…»

di Elisabetta Giudrinetti

La prima cosa che colpisce in lui è il sorriso: aperto, fiducioso e sereno. Un sorriso che nasconde la consapevolezza di una grande responsabilità, quella di essere una sorta di avvocato difensore di uno degli uomini più amati del Novecento, di certo uno dei pontefici che più hanno inciso nella storia. Stiamo parlando di monsignor Slawomir (affettuosamente detto Slawek) Oder, chiamato il 13 maggio 2005 dal vicario per la diocesi di Roma, Camillo Ruini, ad assumere l’incarico di postulatore della causa di beatificazione di Giovanni Paolo II.

Da quella data sono trascorsi sei anni e domenica 1° maggio Giovanni Paolo II verrà proclamato beato. Un giorno di grande gioia per la Chiesa cattolica che – a sei anni quasi esatti dalla sua scomparsa, avvenuta il 2 aprile 2005 – potrà dichiarare beato il papa più amato degli ultimi tempi, il pontefice venuto dal’Est, per il quale da subito si levò l’invocazione popolare «Santo subito!».

La conclusione del processo di beatificazione e la celebrazione solenne sono il frutto di un lungo lavoro che ha comportato l’esame di una enorme mole di documenti e l’ascolto di un numero vastissimo di testimoni (114 persone, tra cardinali, arcivescovi e vescovi, sacerdoti, religiosi, suore, laici cattolici, non cattolici e un ebreo) per analizzare un pontificato di quasi ventisette anni e l’intera vita di un personaggio che ha segnato la storia ecclesiale dei nostri tempi.

Ed è proprio monsignor Oder, che ha dedicato quasi sei anni alla preparazione di questo processo, documentandone la fama di santità, le virtù eroiche ed il miracolo necessario per completare la causa, a riassumere la figura di Giovanni Paolo II con la frase «era un vero uomo, ed era un uomo di Dio».

Polacco, nato a Chelmza nel 1960, Slawomir Oder nel 1978 aveva appena completato gli studi al liceo classico e stava preparandosi ad entrare nel Seminario diocesano per dare compimento alla vocazione sacerdotale che, da qualche tempo, stava maturando in lui. Paradossalmente, la sua consacrazione a Dio fu rinviata proprio a causa della nomina di Karol Wojtyla al soglio pontificio, avvenuta nell’ottobre di quell’anno. «La Polonia sembrava impazzita in quei mesi – racconta mons. Oder, ad Arezzo in un incontro dedicato al tema della santità di Giovanni Paolo II, organizzato dalla parrocchia di san Francesco Stigmatizzato (Saione) lo scorso 15 aprile –. Era un momento di grande entusiasmo per noi cattolici polacchi, e non volli rischiare di prendere una decisione che mi avrebbe vincolato per tutta la vita sull’onda di quell’euforia collettiva. Umanamente ebbi paura, e quindi, in accordo con il mio direttore spirituale, mi iscrissi alla Facoltà di Economia e Commercio presso l’Università di Danzica. E da lì vidi nascere e consolidarsi il movimento Solidarnosc guidato da Lech Walesa».

Finalmente nel 1983, Oder entra in Seminario e poi, dopo la laurea in Teologia (e quella in Economia), grazie ad una borsa di studio della Pontificia Università Lateranense, arriva a Roma per laurearsi anche in Diritto canonico. Da allora non ha più lasciato l’Italia ed oggi lavora nell’ufficio legale del Vicariato di Roma con l’impegnativo compito di presidente del Tribunale di appello.

Mons. Oder, lei aveva già seguito un altro processo di beatificazione, quello del martire polacco Stefan Frelichowski ucciso ai nazisti, ma sentirsi affidare dal cardinal Ruini l’incarico di seguire il processo di canonizzazione di papa Wojtyla non è stata proprio la stessa cosa…

«Quando il cardinal Ruini mi chiamò per affidarmi il compito fui letteralmente scioccato, prima ancora che sorpreso. L’ho interpretato come un segno della Provvidenza e, all’iniziale emozione e trepidazione, è ben presto subentrata la gioia. Seguire il processo di una persona così nota e così amata a livello mondiale, così grande dal punto di vista spirituale ed umano mi ha caricato di un’enorme responsabilità. E non sono mancate le difficoltà anche da un punto di vista emotivo».

Essere polacco come il papa l’ha avvertita come una responsabilità in più?

«La mia vita sacerdotale dipende anche da queste origini comuni: a seguito della sua elezione, nel 1978, io ritardai la mia entrata in seminario perché non volevo farlo sull’onda dell’entusiasmo collettivo che si era impadronito della Polonia. Più che di responsabilità maggiore, parlerei di gioia doppia proprio perché sono polacco!».

Ha sentito la pressione mediatica e dei fedeli durante il suo lavoro?

«Sì e da parte di moltissima gente, ma il processo è andato avanti con tranquillità. La stampa, di tanto in tanto, senza alcun fondamento annunciava qualche data per la conclusione del processo, ma in realtà il cammino canonico ha seguito i tempi di Dio e il miracolo è arrivato quando Dio lo ha ritenuto giusto. Lo stesso Benedetto XVI, quando volle conoscermi all’inizio dell’incarico, disse: “Fate presto, ma bene, in modo ineccepibile!” e quella raccomandazione è stata per me una sorta di parola d’ordine che mi ha accompagnato in questi anni».

Perché Benedetto XVI non ha avuto alcun dubbio nel concedere la dispensa dalla regolamentare attesa dei cinque anni dalla morte per l’avvio della causa di beatificazione di Karol Wojtyla?

«Per tre motivi: la fama di santità, che ha accompagnato la figura di Giovanni Paolo II ancor prima di iniziare il processo vero e proprio, l’iniziativa dei cardinali che, nel 2005, al momento di ritirarsi in Conclave per eleggere il suo successore, chiesero per iscritto l’inizio della causa, e la convinzione personale di Benedetto XVI, che – essendo stato il suo collaboratore più stretto – sarebbe diventato per diritto il testimone chiave del processo». 

Ha scoperto cose nuove su Giovanni Paolo II?

«No, non sono emerse cose strepitose. Nel senso che Wojtyla era proprio così: come lo abbiamo conosciuto».

E un aspetto particolare che l’ha colpita?

«Rendersi conto, giorno dopo giorno, testimonianza dopo testimonianza, della sorgente da cui proveniva la sua straordinaria generosità nell’agire: il rapporto con Cristo. Ecco, ciò che mi ha colpito di più, è stato questo aspetto mistico di Giovanni Paolo II: un uomo che viveva la presenza di Dio e che si lasciava guidare dallo Spirito Santo, in dialogo costante con il Signore».

«Sono papa perché vescovo di Roma». Giovanni Paolo II si sentiva più vescovo che papa?«Direi che si sentiva soprattutto sacerdote. Anche se ha sempre avuto un interesse particolare per la sua Diocesi».

Il 1° maggio si avvicina: come fedeli, in che modo possiamo prepararci alla Messa di beatificazione?

«Con la preghiera e vivendo questi giorni di attesa come un tempo di esercizi spirituali in cui approfondire sia le ragioni della fede e dell’amore di Cristo, per vivere realmente un’esperienza particolare con la Pasqua del Signore che, in qualche modo, verrà ancora prolungata in questo evento di beatificazione, perché la Pasqua del Signore è il punto di riferimento per la vita dei cristiani che deve realizzarsi nella vita di ognuno di noi».

Benedetto XVI ha fatto un grande regalo ai giovani di tutto il mondo dichiarando Giovanni Paolo II uno dei patroni della prossima Giornata mondiale della gioventù a Madrid…

«Sì, ed è stato un bel pensiero da parte di Benedetto XVI, che ha ricordato le parole di Giovanni Paolo II, ormai ottantenne, a chi gli chiedeva cos’è la gioventù? “La gioventù – ripeteva Wojtyla –  non è solo un periodo della vita corrispondente ad un certo numero di anni, è anche un tempo dato dalla Provvidenza ad ogni uomo, durante il quale egli cerca, come il giovane ricco del Vangelo, la risposta agli interrogativi fondamentali; non solo il senso della vita, ma anche un progetto concreto per cominciare a costruire la propria vita”. E ancora: “Non ho inventato le giornate mondiali dei giovani. Sono stati i giovani a crearle. Non è il Papa che porta i giovani da un estremo all’altro del globo terrestre. Sono loro che ce lo portano».