Vita Chiesa
La morbida corteccia di padre Balducci
di Giovanni Spinoso
Ho sempre immaginato che per cogliere il vero padre Ernesto Balducci si dovesse superare quella sua corazza di cui sembrava armato. Una corteccia che portava con grande disinvoltura. Anzi, quella corteccia, certamente morbida, gli doveva essere cara. Lo connotava, lo proteggeva, preservava nella loro integrità le ricchezze preziose che aveva dentro di sé. Ricchezze che Ernesto Balducci ha valorizzato prendendo esempio da suo padre Luigi, minatore, vissuto e ammalatosi nelle viscere della terra, per portare a casa il pane quotidiano per la famiglia. Talenti coltivati nel paese dove era nato il 6 agosto 1922: Santa Fiora, in provincia di Grosseto, sulle pendici del Monte Amiata, un vulcano spento. Terra aspra e impegnativa che a fatica si riesce a modellare. Un paese dove il silenzio faceva quasi paura al piccolo Ernesto, mentre l’accendersi nella notte dei lumi nelle celle dell’antico convento delle Clarisse lo conquistava. «Era come se mi affacciassi all’altro versante della vita», disse Balducci intervistato da Luciano Martini.
Silenzio e stupore si percepiva anche quell’aprile 1992 il giorno che il feretro di Ernesto Balducci tornò dal Duomo Firenze per l’ultimo saluto terreno nella natìa Santa Fiora. C’era una luce incredibile in quella Chiesa; c’era un sottofondo musicale che sottolineava armonia e senso di ringraziamento.
Ricordo che scelsi di comporre un servizio televisivo per la Rai, in modo inusuale. Di fronte alla bara del sacerdote dall’eloquio straordinario e irripetibile, di fronte allo scolopio educatore per anni ed anni, evitai la pur minima parola. Solo musica e immagini: semplici scorci di quel feretro in terra, al centro di navate possenti, con bagliori di luce, che sembravano dirigere quei brani di musica classica, da lui preferiti.
Quante volte avevo sentito dall’altare della Badia Fiesolana, in San Domenico, il suo fiume di parole irrorare i fedeli, quello zampillare spontaneo di idee e concetti sempre concatenati. E ti domandavi dove nascesse quella sorgente inesauribile e quale fosse il segreto della sua origine.
Una risposta credetti di trovarla quel 6 marzo 1992 alla Badia Fiesolana dove Ernesto Balducci fece memoria, nel trigesimo, di uno dei suoi più cari amici, padre David Maria Turoldo, Servo di Maria, spirato il 6 febbraio. Balducci era rimasto scosso dall’ultimo loro incontro all’ospedale San Pio X a Milano, quando intravide quei grandi occhi azzurri dietro tutti quei fili, macchinari e tubicini che lo tenevano ancora in vita. Come se fossero la negazione dell’uomo, della persona.
Ebbi la sensazione allora che padre Balducci avesse avuto una sorta di presentimento, per una fine che non avrebbe desiderato sperimentare, quella di spirare, come padre David, avviluppato dai fili della tecnologia medica.
E invece, nell’ospedale di Cesena due mesi e mezzo dopo, quasi volesse cercare la grande mano del suo amico poeta, si ritrovò per due lunghe notti (dal 23 al 25 aprile), nelle stesse condizioni, intubato in una sala di rianimazione, in seguito al un gravissimo incidente in auto alle porte di Faenza.
È lì che padre Balducci si spogliò anche della sua morbida corazza. Per condividere anche lui senza «armature» i patimenti di tutti quegli uomini e donne che nel nostro pianeta avevano subito nei tempi dei tempi ogni sorta di tribolazioni, fame, sete, torture, ingiustizie, carcere; e ancora l’ignoranza, il buio della ragione, la follia razziale, l’odio , i campi di stermino, le fosse comuni…
Tutti quegli oppressi del Pianeta ai quali lui, sacerdote e scrittore, aveva dato voce e «liberato» attraverso gli scritti su «Testimonianze», negli innumerevoli incontri pubblici, nelle interviste giornalistiche, con i suoi numerosi libri e nella corrispondenza privata con tanti laici, copiosissima.
Ed ecco allora farsi più chiaro il perché nel fondare nel 1958 la rivista «Testimonianze» padre Balducci l’aveva sottotitolata «quaderni mensili di spiritualità». Spiritualità intesa come la capacità di vedere tutte le cose nella prospettiva della fede. Si coglie meglio quella pur sofferta fedeltà alla sua comunità dei Padri Scolopi, come sottolineò lo stesso Cardinale Silvano Piovanelli, all’indomani della morte, quasi 20 anni fa. Ecco quella condivisione puntuale delle preghiere comunitarie e la celebrazione eucaristica testimoniata da padre Giancarlo Rocchiccioli. Quei corsi di aggiornamento sulla spiritualità in ogni dove, fino alla riunione dei Superiori maggiori di tutto l’Ordine dei Padri Scolopi, a Salamanca nel luglio del 1989.
Sul pensiero spirituale e il contributo di idee di padre Balducci si possono già apprezzare dei saldi contributi critici. Parliamo dei «Diari» (1940-1978), tomi a cura di Maria Paiano, i primi due per le Edizioni di Leo Olschki, il terzo (1945-78) per la Morcelliana. Ci riferiamo poi agli studi storico-scientifici di Bruna Bocchini Camaiani, «Ernesto Balducci. La Chiesa e la modernità», Laterza, Bari, 2002; e di Luciano Martini, «La laicità nella profezia. Cultura e fede in Ernesto Balducci», edizioni di Storia e Letteratura, Roma, 2002.
Nei «Diari» si intravedono, quasi alla fine della loro stesura (4 agosto 1977), passaggi che fan riflettere non solo gli studiosi. Quando padre Balducci annota di avere l’impressione di «vivere una svolta e non per un progetto volontario ma per una emersione dal mio fondo di uno strato di me rimasto finora represso e dimenticato»: una rinuncia alla «bramosia dell’azione», a favore di «un’attitudine più contemplativa».
«Quella dimensione contemplativa, che ascolta, ma poi dona quello che ha ascoltato», come ha sottolineato padre Giancarlo Rocchiccioli, nel suo ricordo di padre Balducci, su «Toscana Oggi» del 9 maggio 2010.