Toscana
Suicidio assistito, un altro passo verso la cultura della morte
Padre Maurizio Faggioni riflette sulla legge regionale da poco approvata: "Questa legge, nel tutelare un sedicente diritto alla morte e nell’affermarne la sua ragionevolezza, rafforza la cultura dello scarto e umilia i malati e le loro famiglie nella fatica quotidiana di vivere la malattia con dignità e amore"

Il 12 febbraio 2025, la Regione Toscana, prima fra tutte le Regioni, ha approvato un testo legislativo sul suicidio assistito che si presenta come una attuazione della sentenza 242 del 2019 della Corte costituzionale. Con questa sentenza la Corte, vicariando una asserita latitanza del Parlamento, dichiarava non punibile l’assistenza al suicidio a certe condizioni, fra le quali la dipendenza del paziente da trattamenti di sostegno vitale e la presenza di sofferenze fisiche e psichiche intollerabili.
Dal momento che si chiedeva il parere previo di un Comitato etico territoriale e si attribuiva al Servizio sanitario il compito di vigilare sull’esecuzione tecnica del suicidio, la Toscana ha ritenuto che ci fossero spazi per un intervento regionale.
Questo intervento, però, è andato ben oltre le indicazioni della Corte costituzionale perché si parla del suicidio assistito come un diritto della persona, un diritto a darsi la morte, il «right to die», come dicono i bioeticisti di lingua inglese, e, di conseguenza, si prevede che il Servizio sanitario nazionale non solo vigili sulle modalità di esecuzione del suicidio, ma siano gli stessi medici e infermieri del Servizio sanitario nazionale a preparare tutto quanto serve perché possa autosomministrarsi la morte un paziente affidato alle loro cure. Deriva paradossale dell’idea di sanità e di cura.
La reazione dei vescovi toscani è stata immediata e chiara: un «triste primato» e una «sconfitta per tutti» che non risponde alla storia della Toscana, da sempre all’avanguardia per la cura e il sostegno alle persone in condizioni fragilità. Si sono registrate reazioni di indignazione da parte di associazioni e movimenti dell’area cattolica e molti medici e giuristi, anche su queste pagine, hanno espresso la loro contrarietà a una legge che ferisce l’inviolabilità della persona a partire dal valore fondamentale della sua vita, oscura il senso di umanità che dovrebbe stare nel cuore di ogni società e stravolge il profilo del medico affidandogli un atto che è estraneo al suo ruolo e alla sua identità.
Non entriamo nella questione della legittimità costituzionale dell’intervento della Regione Toscana e neppure sulle norme concrete, ma vogliamo piuttosto ripercorrere la genealogia che ha condotto a questa legge. Si tratta di una strategia portata avanti con metodo da alcuni ambienti culturali, medici e politici che, passo dopo passo, ha eroso nell’etica pubblica il rispetto incondizionato per la vita e ha introdotto l’idea che possano darsi vite umanamente indegne per le quali l’unica soluzione sana sarebbe la morte, tanto la morte data a se stessi quanto la morte data a chi la chiede.
Servendosi con abilità di casi drammatici e ripetendo ossessivamente un mantra letale, hanno inoculato nella sensibilità comune la persuasione che morire con dignità coincida con eutanasia e suicidio assistito.
Ricordiamo anzi tutto la storia di Eluana Englaro. In stato vegetativo dal 1994, il padre iniziò nel 1999 una lunga battaglia legale per sospendere l’alimentazione e l’idratazione artificiali e così causare la morte della figlia. Intervenne alla fine la Cassazione nel 2007. Si specificò che quei trattamenti minimali volti a sostenere il soffio vitale erano mezzi proporzionati e non costituivano un accanimento e si sottolineò che nessuna vita è indegna di fronte alla legge. Si introdusse, allo stesso tempo, il seme velenoso dell’eutanasia affermando che nutrizione e idratazione potevano essere sospese e così procurare la morte, se questa era stata la volontà di Eluana a partire dal suo modo di intendere la dignità stessa della persona.
Per evitare pericolosi, ma frequenti equivoci, ribadiamo che ci sono situazioni in cui sospendere o non iniziare un certo trattamento, persino di sostegno vitale, è giusto perché la buona medicina sa quando è bene cessare di lottare e quando bisogna accettare i limiti umani e il sopraggiungere della morte. Ben diverso è diventare noi stessi intenzionalmente causa della morte attraverso la sospensione di un trattamento, la cosiddetta eutanasia passiva. La legge 2019 del 2017, senza essere esplicitamente eutanasica e avendo, anzi, aspetti positivi, di fatto apriva la strada a questa possibilità.
Un passo ulteriore per legittimazione della volontà di morte è legato alla storia di Fabio Antoniani, noto come il Dj Fabo. Ritrovatosi tetraplegico e cieco dopo un incidente del 13 giugno 2014, nel febbraio del 2017 fu accompagnato da Marco Cappato, dell’Associazione Coscioni, in Svizzera dove il suicidio assistito, compiuto nel privato, non è perseguito. Qui si innesta la sentenza della Corte costituzionale del 2019 che partendo dalla distinzione – in sé accettabile – fra istigazione e aiuto al suicidio, alla fine si risolveva in una piena depenalizzazione dell’aiuto al suicidio.
La legge toscana ha compiuto un altro passo: darsi la morte ed essere aiutati al suicidio è un diritto e per questo è affidato ai medici e agli infermieri del Servizio sanitario nazionale. Il passo successivo sarà ovviamente l’eutanasia di chi non può eseguire da solo il suicidio, neppure aiutato: c’è già un movimento per un referendum in questo senso.
Un ultimo passo, secondo questa logica, dovrebbe essere la possibilità di sopprimere coloro che, come un cerebroleso, non possono chiedere la morte, ma che – si argomenta – se potessero chiederla, la chiederebbero. Un piano inclinato nel quale la velocità cresce sempre più.
Si dice, non senza ragione, che la richiesta di morte da parte dei pazienti, nella stragrande maggioranza dei casi, può essere prevenuta con le cure palliative che si fanno carico della persona in modo totalizzante.
Questo è vero, ma il percorso verso la legalizzazione dell’eutanasia è una sfida che non può ricevere una risposta solo medica.
Qui è in gioco una visione della persona e della sua dignità. Siamo di fronte a un’espressione di quella che papa Francesco chiama la cultura dello scarto, una cultura che destituisce di valore i fragili e i deboli.
Di fatto, nei Paesi che hanno da più tempo introdotto il suicidio assistito, come l’Olanda, la maggioranza delle richieste di morire non proviene da malati, ma da anziani sfiduciati, emarginati e depressi. Il senso di dignità e di indegnità di ciascuno di noi sono modulate dalla cultura e dallo sguardo di chi ci circonda e non deve essere una bella esperienza sentirsi indegni perché si è sofferenti o disabili o inutili o ingombranti.
Sarà necessaria allora una mobilitazione delle coscienze e una rigenerazione della cultura in cui siamo immersi.
Noi cristiani vogliano annunciare, con la parola e con fatti concreti, una visione della persona e uno stile di vita che si basano sul riconoscimento del valore e della dignità di ciascuno, vogliamo contribuire a costruire una società che includa e non escluda e che si prenda cura particolare delle vite più fragili, vogliamo modellare una cultura capace di percepire la vita della persona, di ogni persona, nella luce della sua intangibile dignità.
Siamo convinti che il suicidio e l’aiuto al suicidio rappresentano un’esperienza tragica che può essere giudicata secondo verità solo dal Signore il quale scruta e comprende le contraddizioni del cuore umano e la potenza devastante del dolore, ma il rispetto per il mistero del dolore non può tramutarsi in un diritto alla morte.
Questa legge, nel tutelare un sedicente diritto alla morte e nell’affermarne la sua ragionevolezza, rafforza la cultura dello scarto e umilia i malati e le loro famiglie nella fatica quotidiana di vivere la malattia con dignità e amore.