Vita Chiesa
Giornata malato: la sofferenza spinge a cercare un senso
Don Massimo Angelelli, direttore dell’Ufficio per la pastorale della salute della Cei, riflette sul legame tra speranza e malattia
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Quest’anno la XXXIII Giornata mondiale del malato che ricorre oggi, 11 febbraio, memoria liturgica della Beata Vergine Maria di Lourdes, cade all’interno dell’Anno giubilare. Non a caso “’La speranza non delude’ e ci rende forti nella tribolazione” è il titolo del Messaggio di Papa Francesco per la Giornata. Un invito a declinare la speranza all’interno del mondo della sofferenza e della cura. Come? Lo chiediamo a don Massimo Angelelli, direttore dell’Ufficio nazionale per la pastorale della salute della Cei.
Don Angelelli, quale relazione ci può essere tra speranza e malattia?
Nell’esperienza della malattia la speranza nasce dal senso che vogliamo attribuire a quella sofferenza. “Che senso ha? Perché a me?”, la prima domanda che si pone il malato, e in quel perché c’è tutta una domanda di senso. Se io riesco ad illuminare di senso questa mia esperienza, allora posso attribuire un valore positivo ad un’esperienza che di per sé sembra esserne priva. Attraverso il messaggio di quest’anno il Papa ci fa capire che la ricerca di senso che scaturisce dalla malattia è in fondo ricerca di Dio, della Sua presenza che illumina la sofferenza e genera speranza.
Il Papa propone un trittico: incontro dono, condivisione, definendo la malattia “un incontro che ci cambia”. In che senso?
Quando la malattia irrompe nella vita di una persona ne sconvolge l’esistenza; si modificano gli orizzonti, la percezione di te stesso, le relazioni. Il primo passo della persona malata è stabilire una nuova relazione, diversa dalla precedente, con sé e con gli altri. Cambiano contesto e prospettive, e cambia anche la relazione con Dio. Se c’era, può diventare più solida o essere messa in crisi; se non c’era, la malattia può essere l’occasione in cui rivolgersi al Signore in cerca di risposte.
Al capezzale del malato si impara a sperare e a credere, afferma ancora Francesco. Come è possibile?
È possibile per tutti coloro che si avvicinano ai sofferenti senza pregiudizi, in un atteggiamento di ascolto. Comprendo bene quello che dice il Papa perché l’ho vissuto nella mia esperienza di cappellano ospedaliero. Accompagnando molti malati ho imparato a sperare perché ho visto la grazia operare nelle loro vite. Noi percepiamo l’idea della sofferenza come una disgrazia, in qualche modo una punizione. Non è così: la malattia è un’esperienza della vita e come tale va vissuta. Non ha un valore positivo ma può diventare un’occasione per rivedere il proprio stato di vita. Accanto ai malati impariamo moltissimo.
Come si fa ad essere “angeli di speranza” in una corsia d’ospedale dove l’organizzazione sanitaria impone ritmi frenetici a medici e infermieri, spesso costretti a turni massacranti?
Nella sanità ciò che oggi manca è il tempo, che è il luogo in cui nascono, maturano e vivono le relazioni. In una stanza d’ospedale si rinsaldano spesso rapporti tra genitori e figli, tra fratelli che per mille motivi si erano allentati. La malattia ti toglie il tempo, sai di non averne più molto; quello che ti resta a disposizione devi pertanto “spenderlo” bene. Così le persone si mettono in viaggio per recuperare affetti e relazioni e il tempo diviene il bene più prezioso che un malato ha a disposizione, tanto che non basta mai.
Relazioni, appunto: quanto è importante nella cura la componente relazionale?
È strategica, fondamentale. Dall’esperienza del Covid abbiamo imparato la netta distinzione fra terapia e cura. La prima riguarda la dimensione biologica: “se hai dolore te lo tolgo. Se hai una malattia la combatto con i farmaci”. La cura ha invece una dimensione più profonda ed è fatta di vicinanza, empatia, compassione: avviene all’interno della relazione. Se io vengo guarito dalla mia patologia ma vivo la mia esperienza da solo, non mi sento curato. Ho bisogno di qualcuno, non di qualcosa. Una componente essenziale, purtroppo silenziata e azzerata dall’attuale organizzazione sanitaria. Oggi ci troviamo di fronte a malati che, nonostante somministriamo loro una terapia, non si sentono curati; a familiari che si rendono conto che il loro caro soffre, ma nessuno lo guarda; a curanti chiamati ad erogare terapie nel modo più rapido ed efficiente possibile mentre vorrebbero soprattutto prendersi cura delle persone. Oggi insoddisfazione e scontento serpeggiano anche tra il personale sanitario: lo conferma il calo dei giovani che scelgono le professioni di cura.
Come intervenire?
È tutto il modello organizzativo, troppo incentrato sul concetto di prestazione, che deve essere cambiato. Non è solo questione di risorse economiche; oggi la sanità pubblica ha bisogno di un pensiero nuovo e coraggioso, che tenga insieme bisogni (e diritti) dei cittadini e diritti dei curanti.
Venerdì 7 febbraio è tornato l’appuntamento con la preghiera di ringraziamento a Dio per i curanti “Invece un samaritano”. Quest’anno giubilare però, l’appuntamento si moltiplica snodandosi lungo 11 primi venerdì del mese, fino al 5 dicembre. Perché?
Istituendo la Giornata mondiale del malato, Giovanni e Paolo II ci ha ricordato che sono i malati i protagonisti della preghiera. Vogliamo pertanto rimettere al centro il malato orante: ecco perché l’ora di preghiera eucaristica parte dalle cappellanie degli ospedali. Preghiamo insieme agli infermi, che anzitutto chiedono al Signore ciò di cui hanno bisogno, ma preghiamo soprattutto per ringraziare Dio dei curanti. Non lo fa nessuno: lo vogliamo fare noi, con più insistenza in questo Anno Santo, insieme ai malati.
Oggi è previsto il voto, in Consiglio regionale della Toscana, sulla proposta di legge popolare sul suicidio medicalmente assistito, promossa dall’Associazione Luca Coscioni…
Se si continua a tagliare i fondi alla sanità o a non investirli correttamente, non si riuscirà a curare chi ne ha bisogno. Quando una persona è assistita in maniera adeguata, con un efficace percorso di palliazione, possibilmente a domicilio, non chiede di morire. La risposta migliore che possiamo offrire alla sofferenza di queste persone è aiutarle, non a morire, bensì a vivere senza dolore e con dignità. Senza dolore grazie alle cure palliative, e con la dignità degli affetti e delle relazioni. Dai nostri 25 hospice ci ritorna la testimonianza unanime che, se accompagnate in maniera adeguata, le persone non chiedono mai di morire.