Firenze
Natale, la nostra gioia non dipenda dalle circostanze
L'editoriale per il Natale dell'arcivescovo di Firenze Gherardo Gambelli
Il primo novembre alla fine della Messa nella Solennità di Tutti i Santi, uscendo dalla Cattedrale, incrocio una mamma che cammina davanti a una bambina e la invita a raggiungerla con la voce squillante: «Manina!». Esito un attimo, aspettando che le loro mani si stringano.
Poi, osservando il volto stanco della bambina le tendo la mia mano, ci salutiamo scambiandoci un sorriso. La mamma ci guarda un po’ perplessa e, dopo essersi ricongiunta alla figlia, riprende il cammino senza voltarsi indietro. Quest’incontro suscita in me una riflessione su come i bambini ci insegnino una condizione essenziale per essere pellegrini di speranza: l’arte di rallentare per cogliere il senso della vita. Troppo spesso, purtroppo, ci ricordiamo che Dio si è fatto bambino solo a Natale e il nostro alzare il piede dall’acceleratore somiglia a uno “stop and go” per poi correre più veloci. I drammi della storia che stiamo vivendo ci interpellano a un sussulto di coscienza che ci scuota dal torpore e dall’inerzia di chi pensa di potersi salvare da solo.
Durante il tempo d’Avvento abbiamo meditato un bel testo della lettera di san Paolo ai Filippesi: «Siate sempre lieti nel Signore, ve lo ripeto: siate lieti. La vostra amabilità sia nota a tutti. Il Signore è vicino» (Fil 4,4-5). L’esortazione dell’apostolo si fonda sul kerygma, cioè sull’annuncio fondamentale, che Dio in Gesù si è fatto vicino, prossimo di ognuno di noi. Proprio perché i doni e la chiamata di Dio sono irrevocabili (cf. Rom 11,29), la nostra gioia non dipende dalle circostanze, possiamo quindi essere lieti sempre. I Vangeli ci mostrano chiaramente tutte le difficoltà e le sofferenze che hanno dovuto sopportare Maria e Giuseppe al momento della nascita di Gesù. Il fatto di non trovare un posto nell’alloggio e quello di dover fuggire in Egitto pochi giorni dopo la nascita avrebbero potuto appesantire i loro cuori negli affanni della vita, gettandoli nello sconforto e nell’amarezza.
Invece, «Maria è colei che sa trasformare una grotta per animali nella casa di Gesù, con alcune povere fasce e una montagna di tenerezza» (EG 286). Lei che ha tanto aiutato suo Figlio a crescere, ora aiuta noi ad accoglierlo nella nostra vita. San Paolo nella lettera ai Filippesi ci ricorda un dono dello Spirito che siamo chiamati a far maturare in noi: l’amabilità («La vostra amabilità sia nota a tutti»). Il termine greco epieíkeia indica più precisamente la moderazione.
Il cardinale Carlo Maria Martini definiva l’epieíkeia come rispetto, affabilità, accessibilità, moderazione, duttilità ed equilibrio nell’applicare le leggi, i regolamenti; è la capacità di saper prevedere anche le opportune eccezioni nei regolamenti. È condiscendenza verso i deboli, non nel senso negativo del termine, quasi si volesse giocare al ribasso con la legge, col diritto, con l’osservanza. Proprio perché ama la legge, l’osservanza, il diritto, la persona che vive l’atteggiamento della moderazione comprende chi è debole, si rende conto che non ce la fa e vorrebbe aiutarlo a fare di più; si mette dunque sullo stesso gradino dell’altro per sostenerlo in modo che salga un altro gradino, che compia un passo avanti.
Quest’attitudine di moderazione ci permette di vivere concretamente l’amore nei confronti del prossimo, di essere operatori di pace. La gloria di Dio va sempre insieme alla pace in terra fra gli uomini e proprio l’amore per tutti i nostri fratelli e sorelle ci permette di crescere nella speranza. Nella bolla di indizione del Giubileo papa Francesco ci invita a riflettere partendo da una domanda sul senso della speranza: «Ma che cos’è la felicità? Quale felicità attendiamo e desideriamo? Non un’allegria passeggera, una soddisfazione effimera che, una volta raggiunta, chiede ancora e sempre di più, in una spirale di avidità in cui l’animo umano non è mai sazio, ma sempre più vuoto. Abbiamo bisogno di una felicità che si compia definitivamente in quello che ci realizza, ovvero nell’amore, così da poter dire, già ora: Sono amato, dunque esisto; ed esisterò per sempre nell’Amore che non delude e dal quale niente e nessuno potrà mai separarmi» (n. 21).
Annunciare la speranza nel nostro mondo è un atto profetico che siamo invitati a compiere con audacia, provando ad accendere o comunque a indicare una luce, piuttosto che a lamentarci per il buio delle tenebre che ci avvolgono. Una breve parabola dei nostri giorni può aiutarci a trovare la forza per farlo oggi. La crisi aveva picchiato duro in città e in famiglia tutti sentivano un nodo in gola. Il papà era stato messo in cassa integrazione e da giorni si parlava solo di come riuscire a risparmiare. A cena si percepiva un silenzio imbarazzato, nessuno aveva voglia di parlare.
Improvvisamente la mamma batté le mani per attirare l’attenzione di tutti: «Tutti in piedi, venite fuori con me!». Sbalorditi, seguirono la mamma fuori, nel piccolo giardino. «Guardate il cielo!» disse lei. Tutti guardarono in su. L’immensa cupola di velluto nero era un trionfo di stelle vive e pulsanti. Fissandolo si provava come una vertigine, come se tutta quella brillante moltitudine li risucchiasse in un vortice senza fondo. Si sentirono piccoli piccoli. Si strinsero l’un l’altro e si abbracciarono. Quell’incredibile spettacolo li soggiogava e li spronava: era tutto così grande, illimitato, senza tempo. Allargava la mente e il cuore, infondeva un nuovo coraggio. «È di notte che si vedono le stelle!» disse semplicemente la mamma.
Sii tu quella luce che vorresti vedere accesa nel mondo! Buon Natale.
*arcivescovo di Firenze