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Parwana, “via dai Talebani per crescere liberi i miei figli”

La storia di una giovane nata a Herat. Nel 2021 è scappata con la sua famiglia dall’Afghanistan occupato nuovamente dagli estremisti religiosi. Adesso vive a Firenze: «Senza l’aiuto della Caritas, niente sarebbe stato possibile»

Parwana, è nata ad Herat, ha 33 anni e la bellezza intensa delle donne mediorientali, modi eleganti uniti a una volontà d’acciaio. Il suo nome nella nostra lingua vuol dire farfalla, sulle ali della libertà è volata via dal suo Paese all’indomani del ritorno del regime, insieme a tutta la sua famiglia. A causa delle armi, è cambiata in un momento la vita di Parwana e della sua famiglia, in fuga dall’Afghanistan occupato nuovamente dai talebani. L’abbiamo incontrata a Firenze.

«Il 15 agosto 2021 i talebani hanno ripreso il controllo dell’Afghanistan, sin da subito hanno imposto delle sanzioni e restrizioni alle donne, ci sono stati interdetti gli spazi pubblici, il lavoro e lo studio. Io e 3 delle mie sorelle per difendere i nostri diritti, abbiamo organizzato una prima manifestazione il 2 settembre, davanti agli uffici delle autorità locali. Eravamo in venti, alla manifestazione erano presenti quattro talebani che ci hanno sorvegliato, senza intervenire. Dopo 2 giorni, ci hanno contattati in tanti per organizzare una manifestazione ancora più grande, che si è svolta il 7 settembre, a cui hanno partecipato 600 persone compresi uomini e ragazzi. In quell’occasione però i talebani ci hanno aggredito, imponendoci il silenzio e minacciandoci di arresto, distruggendo o sequestrando i nostri telefoni. Due giornalisti afghani molto importanti che erano presenti in piazza, sono stati arrestati e sono stati sequestrati i loro telefoni, scoprendo così tutta la rete di organizzatori, tra cui me e le mie sorelle. Dopo la manifestazione i talebani hanno preparato un elenco con tutti i nomi dei partecipanti, tra cui i nostri, che hanno affisso ovunque per minacciarci. In quel momento abbiamo capito di non essere più al sicuro, volevamo scappare via, ma era difficile farlo tutti insieme, al contempo non potevamo accettare di essere divisi, eravamo preoccupati per la sorte degli altri – spiega Parwana. – Siamo entrati in contatto con l’organizzazione Pangea che ci ha aiutato, grazie a loro siamo partiti alla volta di Kabul il 18 settembre per entrare in una struttura protetta, in cui io e la mia famiglia siamo rimasti sette mesi, successivamente siamo stati trasferiti in un’altra struttura in Pakistan. Il trasferimento in Pakistan è stato molto difficile perché i permessi per uscire dal Paese, che prima costavano pochi dollari, sono arrivati a costare 4000 dollari, tutti volevano scappare. In Pakistan siamo rimasti un anno e tre mesi, sempre in una struttura protetta, successivamente insieme ad altre 300 persone siamo stati aiutati dalla Caritas per venire in Italia, grazie ai corridoi lavorativi».

È grazie all’intervento della Caritas se la vita di Parwana e della sua famiglia migliora dopo un periodo burrascoso: viene trovato un lavoro a suo marito e tutti posso seguire delle lezioni di lingua italiana per quattro mesi, prima del loro arrivo in Italia.

«Il 23 maggio 2023 finalmente siamo atterrati a Roma, siamo stati prima ospitati in un appartamento a Tavarnuzze e ora siamo a Firenze. Sono felice di essere in Italia, al sicuro, l’aspetto più importante per me è aver trovato i diritti in Italia, io posso fare tante cose da sola, cose che nel mio Paese ora non sono possibili. Mi sono rimessa a studiare perché i miei titoli sono trascritti in arabo e non sono riconosciuti, in Afghanistan lavoravamo tutti, donne e uomini: io ho studiato Economia per sei anni a Dubai, lavoravo in contabilità ed ero impegnata per i diritti delle donne. Mio marito è ingegnere civile, ha studiato ad Harvard, lavorava nella società elettrica del governo, mia sorella maggiore che ora è in Germania, era preside di una scuola di 5000 studentesse e aveva studiato informatica in Cina, mia sorella minore, che ora vive a Milano, è designer grafica, anche lei ha studiato in Cina, suo marito è medico dentista. In questo momento per me la cosa importante è sentirmi al sicuro, dalla tv vedo le notizie dell’Afghanistan, ogni giorno 4 ragazzi su 10 si tolgono la vita, sono giovanissimi, oggi la vita per le donne è difficile, addirittura non è più possibile uscire di casa senza marito o figli, anche solo per andare dal medico – sottolinea la donna. – Prima dell’avvento dei talebani la nostra vita non era così, potevamo uscire, studiare, lavorare, vestirci come volevamo, a Kabul per noi musulmani, il velo non era obbligatorio, la mia famiglia è sempre stata molto libera in questo aspetto, ora è molto difficile. Oggi i genitori cercano di pagare per far trasferire i propri figli in paesi sicuri, per poterli far studiare fuori dall’Afghanistan, ma sono solo pochi fortunati, i trasferimenti possono arrivare a costare anche 10.000 dollari per ragazza. I miei figli vanno tutti a scuola, sono integrati, sono contenti, sono molto studiosi e tranquilli, non mi fa piacere che vedano in tv le notizie sull’Afghanistan, perché si rattristano – conclude la giovane. – In Italia ho trovato tante persone gentili che ci hanno aiutato, Firenze in particolare è una città a misura d’uomo. Senza l’aiuto della Caritas, niente sarebbe stato possibile, ci hanno dato tutte le opportunità: il mese successivo al nostro arrivo in Italia, i miei bambini frequentavano già i centri estivi per integrarsi e conoscere altri bambini, siamo venuti via dall’Afghanistan anche perché loro crescessero liberi».

Parwana e la sua famiglia sono in Italia grazie al progetto Sai (Sistema accoglienza integrazione) che ha come ente titolare il Comune di Firenze e come enti attuatori la Fondazione solidarietà Caritas e la Cooperativa il Girasole, che si rapportano direttamente con il Servizio centrale del ministero dell’Interno: «Può accogliere richiedenti asilo vulnerabili (in minor parte) e persone che hanno già ottenuto un permesso di soggiorno – spiega Paolo Santagata, coordinatore Progetto Sai ordinari della Caritas Firenze. – Oltre a fornire l’accoglienza, l’obiettivo principale del progetto è quello di inserire gli ospiti accolti all’interno della società attraverso l’attivazione di corsi di formazione, italiano, tirocini e inserimenti lavorativi grazie alle competenze dell’équipe multidisciplinare. Il progetto Sai del Comune di Firenze può ospitare un massimo di 121 persone, perlopiù uomini singoli, ma ci sono anche donne singole e nuclei familiari. La durata dell’accoglienza è in media di un anno e tre mesi per i singoli e di due anni per le famiglie. Alla fine del percorso l’inclusione nella società si completa con la ricerca di un alloggio, grande criticità dei nostri tempi – conclude il responsabile. – Al progetto afferiscono 9 case di accoglienza, differenti per tipologia: ci sono strutture comunitarie H24, piccole strutture in semi – autonomia e appartamenti. Con ogni ospite del progetto viene condiviso un progetto personalizzato, monitorato insieme all’Ente locale».