Firenze
Tutti i santi: mons. Gambelli, tutti chiamati alla santità
L’arcivescovo di Firenze, mons. Gherardo Gambelli, ha celebrato la Messa nella Solennità di Tutti i Santi nella cattedrale di Santa Maria del Fiore. La celebrazione è stata accompagnata dall'esecuzione della "Missa Solemnis" di Mozart
Già il Concilio Vaticano II, nella Costituzione dogmatica Lumen Gentium, ci ricorda che tutti siamo chiamati, ognuno per la sua via, a una santità la cui perfezione è quella stessa del Padre celeste. Lo ha detto monsignor Gherardo Gambelli nell’omelia per la Messa di Tutti i Santi celebrata nella cattedrale di Santa Maria del Fiore a Firenze.
Di seguito il testo dell’omelia
La preghiera colletta che abbiamo recitato all’inizio della celebrazione, dopo il canto del Gloria, ci aiuta a capire la bellezza e l’importanza della festa di oggi: “O Dio onnipotente, che doni alla tua Chiesa la gioia di celebrare in un’unica festa i meriti e la gloria di tutti i santi, concedi al tuo popolo, per la comune intercessione di tanti nostri fratelli, l’abbondanza della tua misericordia”. Contemplando la gioia dei santi e delle sante del cielo nella gloria di Dio, noi siamo attratti dal loro esempio e sostenuti dalla loro preghiera nel cammino di fede. Il Concilio Vaticano II, nella Costituzione dogmatica Lumen Gentium, ci ricorda che tutti siamo chiamati, ognuno per la sua via, a una santità la cui perfezione è quella stessa del Padre celeste. Mettendoci in ascolto della Parola di Dio, noi riceviamo il dono dello Spirito Santo che ci trasforma interiormente, rendendoci capaci di accogliere la presenza del Signore nella nostra vita che non vuole entrare in noi per mutilare o indebolire, ma per dare pienezza. Il cammino della santità è un percorso di umanizzazione, un sentiero che conduce alla libertà e alla gioia profonde e durature. La parola “beati”, che ricorre per otto volte nel vangelo di oggi, potrebbe essere tradotta più efficacemente con “felici”. Felici sono i santi che si sono messi alla sequela di Gesù, quella moltitudine immensa di cui ci parla il libro dell’Apocalisse, che canta il canto di Mosè, il servo di Dio e il canto dell’agnello (Ap 15,3). Papa Francesco, parlando agli studenti universitari, fa riferimento all’importanza del canto partendo dagli scritti di Omero: “Ulisse, per non cedere al canto delle sirene, che ammaliavano i marinai e li facevano sfracellare contro gli scogli, si legò all’albero della nave e turò gli orecchi dei compagni di viaggio. Invece Orfeo, per contrastare il canto delle sirene, fece qualcos’altro: intonò una melodia più bella, che incantò le sirene”. La bellezza della santità consiste in questa capacità di intonare una melodia più bella. Lo spartito per eseguire questo canto nuovo è proprio il vangelo delle beatitudini. In esse si delinea il volto di Gesù che siamo chiamati a far trasparire nella quotidianità della nostra vita. Potremmo dire che le beatitudini sono come una biografia di Gesù. Cerchiamo dunque di contemplare brevemente questo volto del Cristo partendo da tre aspetti significativi della vita di Gesù.
Il primo è quello che si delinea a partire dalla sesta beatitudine: “Beati i puri di cuore perché vedranno Dio”. Gesù è un puro di cuore. Ha uno sguardo pulito quando osserva la realtà. Riesce a vedere per esempio il desiderio di cambiare vita di Zaccheo, mentre gli altri vedono in lui solo il capo dei pubblicani. Riesce a vedere l’amore di una donna che gli lava i piedi con le sue lacrime, mentre gli altri vedono una prostituta. Lo sguardo puro di Gesù è il frutto di un amore casto, non possessivo che è sempre capace di vedere al di là delle apparenze, riconoscendo il bene che c’è in ogni persona. È importante per noi imparare a lasciarci guardare così da Gesù, che non ci giudica mai ed è capace di accoglierci anche in quei luoghi della vita in cui noi stessi facciamo fatica ad accettarci. Tante volte nella vita facciamo esperienza, purtroppo, che ci sono baci e abbracci tossici, che soffocano invece di esprimere un vero amore. Gesù stesso viene tradito con un bacio. Nella seconda lettura di oggi l’apostolo Giovanni ci ricorda che è la speranza a renderci puri: “Chiunque ha questa speranza, purifica se stesso, come egli è puro”. La speranza è quella virtù teologale che possiamo chiedere come dono al Signore, che cresce in noi attraverso l’ascolto della Parola di Dio, compresa quella parola incarnata vissuta dai santi e dalle sante di tutti i tempi. Uno dei biografi di San Domenico di Guzman racconta che san Domenico era un uomo molto simpatico perché era casto. Era, cioè, un uomo puro di cuore: “Durante il giorno nessuno era più socievole, nessuno più affabile con i fratelli e con gli altri. Di notte nessuno era più assiduo e più impegnato nel vegliare e pregare”.
Un altro aspetto della vita di Gesù che viene messo in luce dalle beatitudini è quello della mitezza: “Beati i miti perché erediteranno la terra”. È quell’atteggiamento di quelle persone che hanno fatto esperienza di Dio come l’unico Signore del mondo e della storia e per questo non hanno bisogno di maltrattare gli altri per sentirsi importanti: “Voi sapete che coloro i quali sono considerati i governanti delle nazioni dominano su di esse e i loro capi le opprimono. Tra voi però non è così, ma chi vuole diventare grande fra voi sarà vostro servitore, e chi vuol essere il primo tra voi sarà schiavo di tutti”. Il sostantivo “mitezza” nel Nuovo Testamento si trova spesso associato alla “moderazione”, in greco epieíkeia. Il Cardinal Carlo Maria Martini definiva l’epieíkeia come rispetto, affabilità, accessibilità, moderazione, duttilità ed equilibrio nell’applicare le leggi, i regolamenti; è la capacità di saper prevedere anche le opportune eccezioni nei regolamenti. È condiscendenza verso i deboli, non nel senso negativo del termine, quasi si volesse giocare al ribasso con la legge, col diritto, con l’osservanza. Proprio perché ama la legge, l’osservanza, il diritto, la persona che vive l’atteggiamento della moderazione comprende chi è debole, si rende conto che non ce la fa e vorrebbe aiutarlo a fare di più; si mette dunque sullo stesso gradino dell’altro per sostenerlo in modo che salga un altro gradino, che compia un passo avanti. Chi ha l’epieíkeia vorrebbe che il carcere non fosse un luogo che umilia e deprime, bensì uno strumento che riconcilia, riabilita, restituisce il detenuto alla famiglia e alla società. È un atteggiamento che guarda alla legge tenendo conto sì della sua rigorosa osservanza, però soprattutto del fine per cui è nata.
Il terzo e ultimo aspetto della vita di Gesù su cui possiamo riflettere è quella della misericordia: “Beati i misericordiosi perché troveranno misericordia”. Gesù manifesta la sua misericordia soprattutto nel perdono, spezzando la logica della reciprocità della legge del taglione e assumendo piuttosto quella della gratuità della grazia. “Se amate quelli che vi amano, quale gratitudine vi è dovuta? E se fate del bene a coloro che fanno del bene a voi, quale gratitudine vi è dovuta?”. Non è facile saper perdonare, ma possiamo camminare sulla strada di Gesù, lasciandoci trasformare da Lui, iniziando a dire più di frequente la parola “grazie” nella nostra vita.
Una coppia di giapponesi si sposò in tarda età e, con grande gioia e sorpresa, ebbe un figlio. Lo allevarono con tutto l’amore e la cura possibile e, pur essendo molto poveri, lo mandarono alla scuola di un saggio perché crescesse anche nello spirito. Il ragazzo, tornato a casa, aveva un unico desiderio: sdebitarsi in qualche modo con i suoi genitori. “Che potrei mai fare,” chiese loro, “di realmente gradito per voi?” “Niente ci è più caro della tua stessa presenza!” risposero i vecchi, “Se però vuoi proprio farci un regalo, procuraci un po’ di vino. Ne siamo golosi, e son tanti anni che non ne beviamo un goccio!” Il ragazzo non aveva un soldo. Un giorno, mentre andava nel bosco a far legna, attinse con le mani l’acqua che precipitava da un’enorme cascata e ne bevve: gli parve avesse il sapore del vino più dolce e schietto. Ne riempì un orcio che aveva con sé e tornò in fretta a casa. “Ecco il mio regalo!” disse ai genitori, “Un orcio di vino per voi.” I genitori assaggiarono l’acqua e, pur non sentendo altro gusto che quello dell’acqua, gli sorrisero e lo ringraziarono molto. “La prossima settimana ve ne porterò un altro orcio!” disse il figlio. E così fece per molte settimane di seguito. I genitori stettero al gioco: bevevano l’acqua con grande entusiasmo ed erano felici di vedere il sorriso fiorire sul volto del figlio. Avvenne così un fatto: i loro acciacchi scomparvero e le loro rughe si appianarono, quasi quell’acqua avesse qualcosa di miracoloso.