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La “missione” di Taizé sui fronti di guerra in Ucraina

Fr. Matthew: “A fianco di chi soffre, per non spegnere la speranza”

Missione di Taizé in Ucraina (foto Taizé)

Taizé in Ucraina. A fianco delle persone che soffrono per la guerra. In ascolto del “grido” di dolore che sale dalle zone di conflitto. Con i giovani, soprattutto, che non hanno smesso di lottare. Non è tempo ancora di parlare di “guarigione”. Ma è tempo di ascolto e preghiera. È fr. Matthew, priore della Comunità di Taizè, a raccontare al Sir, l’esperienza che alcuni fratelli della comunità stanno facendo in Ucraina. “Sono stato a maggio”, ricorda, “e da quella visita è stato molto chiaro che dovevamo tornare perché c’erano molte persone che cercavano occasioni per pregare e incontrarsi. Non abbiamo grandi possibilità di portare aiuti umanitari. Quello che però possiamo fare è offrire la possibilità di pregare e di stare insieme, coinvolgendo anche persone di diverse chiese e gruppi”. Il 25 settembre sono partiti tre fratelli. Resteranno fino al 7 novembre. Sei settimane di permanenza e in viaggio in diverse parti del paese. Da Kiev, a Poltava, Zaporizhzhia, Dnipro Odessa…

Che cosa vi ha spinto a essere presenti in questa terra ferita dalla guerra?
Per noi è qualcosa di molto importante. Taizé è stata fondata in tempo di guerra. Quando mi sono chiesto cosa aveva da dire oggi lo Spirito alla nostra comunità, questa memoria delle origini è tornata. Siamo pronti a correre un rischio? A stare con le persone che soffrono nelle zone di conflitto? A pregare con loro, ad ascoltarli, a camminare insieme? Sono poche le persone che stanno andando in Ucraina in questo momento. E c’è negli ucraini oggi questa sensazione di essere dimenticati.

Cosa avete trovato?

Prima di tutto, un’incredibile resilienza nelle persone. Questa è la cosa più impressionante: vedere come le persone, nonostante le difficoltà della guerra ma attraverso gesti molto semplici, come la solidarietà, l’accoglienza, la gentilezza verso gli altri, riescono a mantenere viva la loro speranza. Abbiamo visto e incontrato tante persone pronte a dare il loro tempo e tutte le loro energie per sostenere coloro che hanno sofferto fisicamente o mentalmente a causa della guerra. C’è la paura dell’inverno che sta arrivando. Ma c’è anche una forte determinazione. Ho parlato con alcuni giovani. Mi hanno detto che sentono la responsabilità di andare avanti per coloro che hanno dato la vita e la determinazione a continuare nella speranza che la pace, con la giustizia, possa essere raggiunta.

Le vite di questi giovani sono state completamente distrutte dalla guerra. Per tanti anche il percorso di studio si è interrotto o ha subito un forte cambiamento. Che cosa le hanno detto?
I giovani che abbiamo incontrato, sono stati molto fermi nella convinzione della necessità di continuare la lotta. Chi nei primi mesi di guerra ha lasciato il paese, andando a vivere in Polonia, o altrove in Europa, è spesso tornato perché ha capito che c’era una chiamata a stare con la propria gente. Ma c’è anche tanta paura. Ricordo in particolare di un giovane che si è preso la cura di un orfanatrofio. Mi ha confidato la difficoltà di pensarsi sul fronte. Molte erano le sue domande: se dovesse un giorno ricevere la chiamata ad andare nell’esercito, chi si sarebbe preso cura degli orfani? Come avrebbe potuto prendere in mano un’arma? Quindi sì, c’è anche la paura. Non tutti sono fatti per essere soldati, ma tutti possono trovare il loro modo di aiutare il Paese in questa situazione.

Ci sono poi le ferite dell’odio che una guerra inevitabilmente lascia nelle menti e nei cuori delle persone. Dalla vostra esperienza di Taizé, come si curano queste ferite?
Penso che dobbiamo essere molto, molto pazienti. Non è ancora il momento di parlare del dopoguerra. Ciò che è importante ora, è stare con le persone. E ascoltare i loro sentimenti. Penso alle preghiere dei Salmi dove ci sono espressioni molto forti, anche di odio e di rabbia. Anche questo fa parte della preghiera del Popolo di Dio. Non possiamo parlare di “amare il nemico” quando il nemico ti sta uccidendo le persone più care. Verrà sicuramente il momento in cui queste domande saranno affrontate, ma non è ora. Quello che possiamo fare noi adesso è metterci in ascolto. Ma non spetta a noi dare un metodo o un consiglio. Ora è importante stare con loro e ascoltare questo grido.

Cosa fa e come agisce la preghiera in una zona di conflitto?
Ero in una scuola cattolica. Ai bambini è stato chiesto di pregare, e tutti hanno pregato per la pace. Alcuni hanno pregato per i loro padri o i loro zii, che erano al fronte. È chiaro che la guerra non ha spento in loro il desiderio di pace. La preghiera apre spazi di guarigione. E i leader delle Chiese che abbiamo incontrato, hanno molto chiaro questa forza trasformatrice della preghiera.

Che cosa vi hanno chiesto le persone e i giovani che avete incontrato?
La cosa che veniva chiesta più volte, è: non dimenticateci. Raccontate cosa avete visto e fate sapere quello che stiamo vivendo. Perché questa è la grande paura: essere abbandonati.

Come l’ha cambiato personalmente questa esperienza?
Ho visto la verità di ciò che sta accadendo. C’è un’aggressione. Di fronte a questo scenario, mi è venuto in mente l’esempio di Fr. Roger, il nostro fondatore, che durante la seconda guerra mondiale ha offerto ospitalità a quelle persone che erano in pericolo o che soffrivano. Dopo la guerra, ha accolto i prigionieri tedeschi che erano nei campi vicini. Credo che sia per me un esempio che parla molto chiaramente. Nella situazione attuale, la cosa importante è stare con coloro che soffrono in Ucraina. Dopo, vedremo cosa è possibile fare e come farlo. Ciò che mi ha cambiato è stato vedere la speranza che c’è ancora in queste persone nonostante tutta la sofferenza che viene inflitta loro. E noi ora siamo chiamati a sostenere questa speranza.