Toscana

Konè dal Mali in Toscana, “qui mi sento finalmente a casa”

Il giovane lascia il Mali nel 2012 a 17 anni e raggiunge la Libia. Dopo varie peripezie viene venduto come schiavo, poi finisce in un centro di detenzione. Nel 2016 fugge su un barcone che rischia di affondare. Così arriva a Castelnuovo Garfagnana. E la sua vita riparte. Oggi fa il pasticcere e il fornaio

Il giovane Konè Moussa fuggito dall'Africa oggi vive in Garfagnano dove lavora come pasticcere e fornaio

Konè Moussa è nato in Mali l’11 marzo 1995 ed è arrivato in Italia il 28 agosto 2016. Le date, gli orari, i chilometri di cammino, i giorni di prigionia, le tappe del suo viaggio le ricorda con estrema precisione e le racconta con uguale calma.

Nel 2012, a 17 anni, Konè sceglie di lasciare il Mali; trascorre due mesi in Algeria, poi tra la fine del 2012 e l’inizio del 2013 raggiunge la Libia: il confine tra i due paesi non può essere attraversato che a piedi, da Dabdab, ultimo paese dell’Algeria, Konè raggiunge dopo nove ore di cammino Ghadames, primo villaggio della Libia. Là trova lavoro come aiuto muratore, ma è troppo pesante per la sua giovane età e dopo due mesi si mette alla ricerca di qualcosa che implicasse il guardare gli animali, come ad esempio un pastore.

Konè incontra un uomo che sta cercando persone che vogliano fare proprio quello e accetta subito, ma servono altre quattro persone. «Io ero in Libia da poco e quel poco lo avevo trascorso lavorando, non conoscevo nessuno. Così gli ho indicato casa mia e gli ho detto di venire a trovarmi quando avesse trovato gli altri quattro uomini». E così alle 17 del giorno stesso l’uomo si è presenta a casa di Konè con le altre quattro persone necessarie. Il lavoro implicava il trasferimento in un altro villaggio: dalle 20, una prima macchina copre due ore di viaggio fino a Nalut; vengono poi fatti scendere per un’ora, fino all’arrivo di una nuova vettura sulla quale viaggiano per un’altra ora.

«Siamo così arrivati a Kabaw, nel deserto del Sahara, l’uomo ci ha fatti scendere e ci ha detto di aspettare lì. Dopo un’ora sono arrivati tre uomini, di cui uno vestito da militare, con un fucile in mano, e un algerino, che avrebbe fatto da traduttore parlando sia francese che arabo».

È stato in quel momento che Konè e gli altri hanno scoperto di essere stati venduti come schiavi al «generale» Salah, e che il lavoro sarebbe stato di contadini. I tentativi di protesta sono stati subito interrotti.

«La paura ha preso il sopravvento e abbiamo iniziato a piangere, ma non potevamo fare altro che seguirlo. C’era un altro ragazzo del Mali, Bala, che ogni giorno mi diceva che dovevamo scappare, che là saremmo potuti morire senza che nessuno sapesse dove eravamo». Scappare però era pressoché impossibile, gli uomini di Salah passavano armati a controllare più volte al giorno, minacciando di far arrestare o di uccidere chi avesse tentato la fuga, i cellulari erano stati confiscati e intorno c’era il deserto.

È dal figlio del generale, completamente ignaro della realtà dei fatti, che Konè e Bala scoprono dove si trovano, quanto dista Tripoli e un’altra città a metà fra la capitale e loro. I due, dopo un anno da prigionieri, organizzano così la fuga.

«Dopo l’ultima ronda, intorno alle nove di sera, abbiamo preso dei vestiti e qualcosa da mangiare e ci siamo messi in cammino. Abbiamo camminato senza fermarci, con la paura che ci trovassero e ci uccidessero, facendo circa 70 o 80 chilometri. Arrivati in un paese ci siamo rifugiati in una casa abbandonata e Bala, nonostante gli avessi detto di aspettare, è andato a cercare qualcuno che ci portasse a Tripoli. Un tassista ha acconsentito». Il tassista accetta di portarli a Tripoli, all’ambasciata del Mali. Ma la curiosità di Bala fa sì che vangano scoperti al secondo posto di blocco e condotti dai militari in un di centro di detenzione, con persone di ogni parte dell’Africa.

Anche nella prigione, lavorano come schiavi. Arriva però dopo qualche mese il «venerdì fortunato» come lo chiama Konè, quello che gli ha permesso di essere qui oggi a raccontare questa storia. L’uomo che lo aveva assunto per quel giorno non dice né alla madre né alla moglie che di fatto Konè è uno schiavo e se ne va, lasciandolo a lavorare con le due donne in casa. «Sua madre allora mi ha detto che una volta finito quello che stavo facendo sarei potuto andare. Ho colto l’occasione e sono scappato non appena sono andate alla moschea».

Konè giunge a Tripoli dove per qualche mese lavora in una farmacia come tuttofare e viene ospitato dal proprietario, che lo paga regolarmente. Quando la farmacia chiude, parlando con altre persone, si apre la prospettiva dell’Italia. Per quel viaggio Konè utilizza i suoi risparmi, 1500 dinari. Viene prima portato in un posto lontano dalla città dove si ritrova insieme a una vasta moltitudine di persone, poi una notte di agosto si imbarca su un gommone che già alla partenza prendeva acqua insieme ad altre 130 persone, inclusi neonati e donne incinte. «Stavamo già affondando che neanche erano terminate le operazioni di salvataggio», ma finalmente il 28 agosto 2016 Konè sbarca a Lampedusa.

In Italia capisce che può finalmente studiare, sa che la lingua è la via d’accesso primaria all’integrazione. Viene mandato al Centro di accoglienza migranti di Castelnuovo Garfagnana (Lucca), là ottiene il diploma di scuola media e inizia a lavorare. Ha voglia di assumersi le sue responsabilità, di vivere una vita fuori dalle «agevolazioni» del Centro di accoglienza, così prende una casa in affitto, ma la voglia di studiare è ancora forte. Frequenta una scuola alberghiera serale e si diploma.

Adesso, oltre a lavorare al Centro di accoglienza migranti, Konè lavora come fornaio e pasticcere, è parte della consulta giovani e della protezione civile e si «sente finalmente a casa, parte di una comunità che ha per tanto tempo sognato».