Vita Chiesa

Don Francesco Zaccaria: essere «Chiesa senza paura»

Don Francesco Zaccaria sarà a Firenze, a settembre, per parlare ai preti fiorentini. Il suo libro propone una «bussola» per aiutare le comunità cristiane a superare sospetti e diffidenze verso la società di oggi

Aiutare i cristiani a superare sospetti e paure verso il mondo di oggi, condizione essenziale per abitarlo e amarlo come testimoni del Vangelo. È questo l’obiettivo di «Chiesa senza paura», il libro di don Francesco Zaccaria pubblicato dalle edizioni Messaggero di Padova. Professore di teologia pastorale presso la Facoltà teologica pugliese, parroco di Savelletri di Fasano nella diocesi di Conversano-Monopoli dove coordina gli uffici pastorali della curia, membro della presidenza del Cammino sinodale delle Chiese in Italia, don Francesco Zaccaria sarà a Firenze ai primi di settembre, per la tre giorni di formazione del clero: e in vista di quell’appuntamento l’arcivescovo Gherardo Gambelli ha invitato i preti fiorentini a leggere, in questi mesi estivi, proprio «Chiesa senza paura». Un libro sicuramente pieno di spunti, come spiega il suo autore.
Don Francesco, nel suo libro parla di una Chiesa capace di abitare il tempo di oggi senza averne paura. Quali sono le paure da superare?
«Direi fondamentalmente la paura di sentirsi assediati da un nemico: il tempo di oggi è certamente caratterizzato da una grande pluralità di voci, di idee, di proposte, spesso anche discordanti. Tuttavia non dobbiamo pensare a questa pluralità necessariamente come una minaccia, anzi, in un mondo dove la Chiesa è diventata minoranza e una voce tra le tante, essa ha l’occasione di riscoprire l’essenziale e la bellezza del suo messaggio, non partendo da posizioni di privilegio o autorità, ma secondo lo spirito della gratuità e della libertà evangelica. Il mondo oggi non è un nemico, l’unico nemico che ha la Chiesa è il peccato, solo quello è chiamata combattere, dovunque si annidi, fuori, nella società, ma anche al suo interno».
Come si annuncia il Vangelo in questo contesto plurale? Cosa significa essere, come lei scrive, «evangelizzatori senza paura»?
«Il Vangelo è una proposta di salvezza, di pienezza, di vita per tutti, ed è una proposta che lascia liberi, che si basa sulla fedeltà dell’amore di Dio e sulla libertà dei destinatari di questo amore. Oggi che essere cristiani non è più (o quasi) una convenzione sociale, oggi che non esiste più (o quasi) una religiosità “sociologica”, cioè più o meno indotta dall’ambiente familiare, culturale e sociale, il Vangelo può ritrovare la sua forza originaria di proposta di grazia libera e liberante. Gli evangelizzatori senza paura sono coloro che si mettono alla ricerca dei segni di Vangelo ovunque siano presenti, nelle persone e negli incontri dove forse non ci si aspetterebbe di trovarli. Il Signore semina ovunque la presenza del suo Regno di amore, di pace, di riconciliazione: oggi per essere evangelizzatori in un mondo plurale non dobbiamo “fabbricare” la presenza di Dio, ma imparare sempre di più a “scoprirla”, a “svelarla”, come dice papa Francesco in Evangelii Gaudium (n. 71)».
Lei invita a guardare al presente non cercando le ombre ma i segni di speranza. Il Giubileo, che ha per tema proprio la speranza, potrà aiutare in questo?
«Il Giubileo della speranza ci aiuterà a riscoprire questo sguardo sull’umanità, più fiducioso e meno pessimista. L’ottimismo non è un atteggiamento da semplici o da sciocchi, ma è figlio della virtù teologale della speranza (lo diceva già Paolo VI), della speranza cioè che il Signore regna nonostante tutti i segni di male che ci sono dentro di noi e attorno a noi; l’esercizio di un discernimento dei segni di bene è un vero esercizio spirituale, oggi più necessario che mai, è un dono che va richiesto a Dio e una pratica che va coltivata con il nostro impegno. Il pessimismo e il lamento cronico, del quale purtroppo noi cristiani spesso siamo cultori, non convince e, soprattutto, non evangelizza nessuno».
Il Cammino sinodale, che le Chiese in Italia stanno facendo non senza fatiche e diffidenze, può spingere le nostre diocesi e le nostre comunità in questa conversione pastorale?
«Certamente sì, perché il cammino sinodale è innanzitutto un grande esercizio di ascolto, di ascolto della voce di Dio nella voce dei fratelli e delle sorelle, di tutti i fratelli e le sorelle. Questo è il primo dono che ci sta facendo questo tempo sinodale: una Chiesa che ascolta; proprio questo hanno detto molti che si sono lasciati coinvolgere nelle iniziative del Sinodo. Il secondo frutto, questo sì un po’ più difficile da portare a maturazione, è la crescita delle nostre comunità come comunità capaci di discernimento. È questo il senso della fase sapienziale e profetica del Cammino sinodale delle chiese in Italia: creare spazi e luoghi ecclesiali per il discernimento comunitario, per l’approfondimento e la maturazione delle scelte insieme, per dare compimento agli insegnamenti conciliari che vedono tutti battezzati come soggetti attivi e responsabili nella chiesa e nel mondo».
C’è una sinodalità da vivere dentro la Chiesa e una sinodalità «col mondo», tutta da scoprire. Quale delle due è la più difficile da realizzare?
«Direi che sono entrambe facce della stessa medaglia: si cresce come Chiesa capace di camminare insieme nella misura in cui ci esercitiamo a camminare insieme con tutti “nel mondo”, e viceversa. Forse è vero che nella realtà pastorale e nei documenti degli anni del post-concilio si è messo più accento sulla capacità di dialogo “ad extra”, si pensi ai grandi passi mossi negli ultimi sessant’anni nel campo del dialogo ecumenico e interreligioso; con questo Sinodo ci siamo accorti che abbiamo più da recuperare nel dialogo intra-ecclesiale, ma ripeto: non c’è una dimensione della sinodalità che sia più importante o urgente dell’altra, entrambe si tengono o cadono insieme».
In questi giorni, alla Settimana sociale di Trieste si è cercato di capire anche il ruolo dei cattolici nella società. Il Vangelo, lei nota, porta anche un messaggio sociale da annunciare. C’è una paura da superare anche in questo? Un “ritrarsi” della fede nella sfera privata?
«Direi che questo rischio è evidente, insieme ad altre tendenze che portano la fede “alla ritirata” dalla società: il rischio di chiudersi all’interno in forme sempre più elitarie e fondamentaliste, il rischio di rinunciare al dialogo e all’incontro con voci e culture diverse dalle nostre, il rischio di ridurre la religione a una sub-cultura o a una contro-cultura. Questi fenomeni non sono in atto solo in Italia e solo nella Chiesa ma, come faceva già notare il sociologo Olivier Roy qualche tempo fa, sono presenti in tutti i continenti e in tutte le grandi tradizioni religiose. Noi come cristiani e come cattolici non possiamo proprio permetterci di cadere in queste trappole: la fede cristiana deve rimanere una proposta accessibile, dialogante, aperta, ragionevole e soprattutto impegnata per il bene di tutti, a difesa dei valori del Vangelo e di coloro che il Vangelo predilige, cioè i poveri e gli scartati, ed è alleata con tutti coloro che nella società contribuiscono al raggiungimento di questi obiettivi. La Chiesa non cerca nemici, ma fratelli e sorelle con cui condividere il cammino verso il pieno compimento del Regno di Dio, del suo sogno di giustizia e di pace per tutta l’umanità e per tutto il creato».