Europa
Nato, un’alleanza di cui abbiamo ancora bisogno
Nasceva 75 anni fa, il 4 aprile 1949, all’indomani della Seconda guerra mondiale e della cristallizzazione del confronto politico tra le due superpotenze vincitrici, quando i rappresentanti di dodici paesi (tra questi l’Italia) si ritrovarono a Washington
Auguri Alleanza Atlantica. Il 4 aprile 1949, all’indomani della Seconda guerra mondiale e della cristallizzazione del confronto politico tra le due superpotenze vincitrici, i rappresentanti di dodici paesi si ritrovarono a Washington per firmare quella che in origine doveva essere un’alleanza difensiva della durata di soli venti anni. Sopravvivendo alla crisi di mezza età degli anni ‘90 e del primo decennio del nuovo secolo, al giorno d’oggi la Nato gode di ottima salute, tanto da aver ritrovato vigore con l’allargamento a due nuovi membri dall’inizio della guerra in Ucraina (Svezia e Finlandia), che ne hanno ampliato il peso soprattutto nel Mar Baltico.
Stati Uniti, Canada, Gran Bretagna, Francia, Belgio, Olanda, Lussemburgo, Portogallo, Italia, Norvegia, Islanda e Danimarca furono i primi firmatari. Ora sono trentadue. I vari allargamenti che si sono susseguiti nei decenni successivi sono stati il frutto di varie necessità strategiche e politiche, a iniziare da quelli di Grecia e Turchia nel 1952 e quello della Germania Federale nel 1955, che innescò da parte sovietica la creazione del Patto di Varsavia. Prima della fine della guerra fredda un solo altro paese entrò nell’Allenza, la nuova Spagna democratica che nel 1982 stava lasciandosi alle spalle il periodo franchista.
Secondo il primo Segretario generale della Nato, il diplomatico britannico Hastings Ismay, il suo ruolo era di «tenere dentro di americani, i russi fuori e i tedeschi giù» («to keep the Americans in, the Russians out and the Germans down» nella citazione originale). Uno slogan che riassume il compito ben riuscito fino alla caduta del muro di Berlino nel 1989 e che ha fatto sicuramente breccia negli animi delle popolazioni dei paesi ex comunisti negli anni successivi. È proprio in questi paesi che le seguenti ondate di allargamento sono continuate: nel 1996 sono entrati Ungheria, Repubblica Ceca e Polonia; nel 2004 Bulgaria, Estonia, Lettonia, Lituania, Romania, Slovacchia e Slovenia. Negli ultimi quindici anni poi prima dei nuovi due membri sono entrati Albania, Croazia, Montenegro e Macedonia del Nord, aumentando il peso dell’Alleanza anche nei Balcani.
Questo allargamento è frutto solo della fame espansionistica degli Stati Uniti o quest’ultimo hanno risposto alle richieste di questi paesi che volevano tenere fuori i russi? Non ce ne voglia il prof. John Mearsheimer dell’Università di Chicago, il quale scrisse sulle pagine di «Foreign Affairs» nel 2014 che l’espansione della Nato a Est era alla base della guerra in Ucraina, ma la risposta giace nella seconda parte della domanda. E come potrebbe essere altrimenti: basta studiare la storia di quella parte di Europa per capire che la loro richiesta era legittima: i segni lasciati da decenni di dominazione sovietica, che prese molto presto la forma della dominazione russa, erano stati troppo profondi e traumatizzanti. Gli Stati Uniti e l’Alleanza hanno fatto l’unica cosa giusta da fare e se proprio dobbiamo rimproverarli, li si può accusare di averlo fatto in maniera troppo precipitosa. Sappiamo che il prof. Mearsheimer vorrebbe controbattere, ma non potendo ci permettiamo l’impudenza di suggerirgli la lettura dello storico inglese Alan John Percival Taylor, che nel suo «The Struggle for Mastery in Europe» suggeriva che le grandi potenze fossero schiave delle decisioni dei loro alleati più piccoli.
Si può ulteriormente obiettare all’allargamento verso Est con l’esistenza di un accordo informale non rispettato tra Stati Uniti e Russia per evitare questo sviluppo. A questo vorremmo dire che la crisi attuale tra Russia e Occidente, nonostante quello che sostengono dalle parti di Mosca, non è da ricollegare a questa promessa mancata: ben più danni hanno fatto altri aspetti, a partire dai modelli economici che venivano applicati alle democrazie occidentali, non adatti alle economiche di quei paesi in cui per decenni lo stato aveva sopperito alle lacune produttive e basate sull’industria pesante e non sui consumi. Questi hanno presentato il modello democratico come portatore di instabilità e povertà e i paesi che lo incarnavano come nemici della società russa.
Le sfide per il futuro dell’Alleanza sono state elencate nel nuovo Concetto Strategico adottato dopo il summit di Madrid del 2022. Si tratta del peso acquisito nuovamente dalla deterrenza in Europa affiancata dallo stesso tempo dalla necessità di non innescare escalation con la Russia; le azioni nel quadrante dell’Indo-Pacifico, quest’ultime legate al confronto con la Cina ma che si collegano anche con gli eventi nel Vecchio Continente; politiche militari coordinate tra tutti gli alleati. A queste si aggiunge la paura che dall’altra sponda dell’Atlantico un buffo ma pericoloso personaggio possa decidere di ritirarsi. Uno scenario terribile che sicuramente non fa gli interessi degli Stati Uniti, ma che nella disgrazia potrebbe rivelarsi un’occasione per l’Europa per prendere le redini di uno strumento internazionale necessario per evitare che il nuovo mondo multipolare voluto da alcuni paesi extraeuropei, possa relegarla ad un ruolo secondario.