Venerdì Santo: perché l’adorazione della Santa Croce
È giusto adorare uno strumento di morte? La risposta del liturgista
Vorrei chiarire alcuni dubbi di coscienza riguardo alla liturgia dell’adorazione della croce del Venerdì Santo. Non comprendo come si possa parlare di «adorazione» di ciò che pur è degno della massima considerazione e venerazione e, giustamente, di esaltazione in quanto strumento attraverso il quale Cristo ci ha redenti, ma che rimane pur sempre strumento materiale. Mi sembra che non possa neanche essere addotto il motivo che si tratta di un “tutt’uno” della croce con Cristo crocifisso. Mi chiedo: se — giustamente – non si adora la beata vergine Maria quale «strumento umano» mediante il quale il Verbo divino è entrato nel mondo, come possiamo pensare di adorare lo strumento materiale con il quale Egli ci ha redenti uscendo dal mondo? Si tratterebbe di una stortura che inclina verso la violazione del primo comandamento. Certamente invece si potrebbe parlare dell’adorazione del «Mistero della croce», alla maniera di come si parla dell’adorazione del Mistero del Natale.
Lettera firmata
Risponde don Roberto Gulino, docente di Liturgia
Ringraziamo il nostro amico lettore che ci permette di richiamare l’attenzione su un gesto liturgico previsto nella celebrazione della Passione del Signore che viviamo ogni Venerdì santo.
Sappiamo come il Triduo pasquale «risplende al vertice dell’anno liturgico» (Norme per l’anno liturgico e il calendario, n. 18) e in questi giorni così importanti «la Chiesa celebra solennemente i grandi misteri della nostra redenzione e, attraverso celebrazioni peculiari, fa memoria del suo Signore crocifisso, sepolto e risorto» (Messale romano, n. 1, pag. 136).
La liturgia ci propone questo tempo come un unico grande giorno liturgico: la celebrazione del giovedì sera della Messa «In coena Domini» non ha una conclusione, il Santissimo sacramento – dopo la distribuzione della comunione e l’orazione dopo la comunione – viene portato all’altare della reposizione e viene adorato durante tutta la notte e il giorno successivo.
La celebrazione della Passione del Signore non ha un inizio «ufficiale» con il segno di croce, ma il ministro che presiede, dopo la prostrazione solenne davanti alla croce in presbiterio, giunto alla sede inizia direttamente con la preghiera colletta, omettendo anche l’invito «Preghiamo», e alla fine non conclude con la benedizione finale e il congedo, come di consueto.
E anche la solenne veglia di pasqua non prevede un segno di croce iniziale, ma direttamente una monizione introduttiva alla benedizione del fuoco, proprio a sottolineare la continuità liturgica di questi tre momenti che costituiscono un unico atto liturgico che ci permette di rivivere la grazia dell’unico mistero pasquale, scandito da tappe diverse («celebrazioni peculiari») ma strettamente, intimamente e indissolubilmente collegate tra loro («fa memoria del suo Signore crocifisso, sepolto e risorto»: cena-morte-risurrezione sono un trinomio salvifico unitario).
In questo contesto possiamo iniziare a capire come mai la Chiesa parla di «adorazione» della Santa Croce (il Messale riporta volutamente in questo caso le due lettere maiuscole) – termine che troviamo già nel sacramentario Gelasiano antico, nel VII secolo, senza quell’articolazione della teologia scolastica medievale, da san Tommaso d’Acquino in poi, che distinguerà con precisione il culto riservato a Dio, dalla venerazione verso Maria e i santi (cfr. Summa Theologica, III Parte, quaestio 25, articolo 4) – recuperando una visione cara ai primi secoli e ai padri della Chiesa che sottolineava l’imprescindibile unitarietà del rapporto cenacolo-calvario-sepolcro vuoto.
Nel 1955 durante la riforma dei riti della Settimana santa la commissione di esperti voluta da papa Pio XII aveva proposto di sostituire il termine «adorazione» della Santa Croce con «venerazione», ma volutamente fu scelto di non modificare il testo latino e di lasciare libertà di traduzione nelle diverse lingue nazionali: il Messale francese, per eliminare ogni possibilità di dubbio al riguardo, all’invito «Ecco il legno della croce, al quale fu appeso il Cristo, Salvatore del mondo», fa seguire l’acclamazione dei fedeli «Venite, adoriamo il Signore» esplicitando così il termine ultimo dell’adorazione, scelta non adottata da tante altre conferenze episcopali, come quella italiana, che ha mantenuto l’originale latino «Venite, adoriamo».
Il motivo di tale scelta è da ricercarsi nella visione unitaria delle celebrazioni del triduo e nella realtà della croce del Signore che da sempre è stata associata alla sua presenza salvifica. A titolo di esempio riportiamo l’Inno dei Vespri che la Chiesa ci indica nella Settimana santa, il Vexilla regis, che nell’ultima strofa acclama «Ave, o croce, unica speranza, in questo tempo di passione accresci ai fedeli la grazia, ottieni alle genti la pace». Questo testo, attribuito a Venanzio Fortunato (530-609) – che ritroviamo anche ai Vespri della festa dell’esaltazione della santa Croce – si riferisce alla croce di Cristo non tanto come strumento materiale della sua passione e della sua morte, ma come strumento di salvezza strettamente collegato con Colui che l’ha resa tale. «Accresci ai fedeli la grazia, ottieni alle genti la pace» sono parole rivolte non tanto alla croce in sé, che da sola ben poco potrebbe fare, ma a Colui che attraverso di essa ha redento l’umanità: nella croce è evocato il Signore stesso con la sua potenza di redenzione.
Consideriamo infine due ulteriori aspetti non meno importanti. Il primo: per l’adorazione della Santa Croce troviamo l’indicazione chiara che limita tale gesto, a differenza di quando è rivolto al Santissimo Sacramento, a un periodo di tempo ben definito e circoscritto («La genuflessione… è riservata al SS. Sacramento e alla Santa Croce, dalla solenne adorazione nell’Azione liturgica del Venerdì nella Passione del Signore fino all’inizio della Veglia pasquale» – Ordinamento Generale del Messale Romano, n. 274).
Il secondo: la possibilità di esprimere la nostra adorazione della Santa Croce con «una semplice genuflessione o un altro segno adatto, secondo l’uso della regione, come per esempio baciando la Croce» (Messale romano, n. 18, pag. 157).
Entrambe queste sottolineature ci aiutano a comprendere come il termine «adorazione» è rivolto alla Santa Croce solo nell’unico giorno dell’anno in cui volutamente il tabernacolo rimane vuoto, esprimendo quindi in essa la presenza salvifica del Signore, e può essere vissuto con altre modalità gestuali oltre la genuflessione, mai previste per l’adorazione al Santissimo Sacramento, in cui non abbiano mai neanche limitazioni temporali.
Per questi motivi non credo si possa parlare di una stortura che inclina verso la violazione del primo comandamento, ma di un gesto che esprime l’amore e l’adorazione verso il Signore e il suo mistero pasquale, fonte della nostra salvezza.