Toscana
La storia di Khaled, morto lontano da casa senza giustizia
Lo hanno incontrato per la prima volta quando nell’inverno dello scorso anno la parrocchia ha deciso di aprire due stanze ai senza fissa dimora che avessero bisogno di un letto dove passare la notte e di una doccia calda. “Così è diventato uno di famiglia”, dice don Andrea Cerretelli, parroco dell’Immacolata Concezione a Galcetello, zona residenziale a nord di Prato nata con l’espansione urbanistica della città negli anni Settanta. Quella che il sacerdote ha voluto raccontare a Toscana Oggi è la storia di Khaled, marocchino di 46 anni, arrivato in Italia venti anni prima, morto alcuni giorni fa alla fine di una esistenza travagliata e piena di sofferenze come lo sono quelle di molti migranti economici che vengono nel nostro Paese in cerca di una vita migliore. “Ma soprattutto la sua è stata una vicenda costellata di ingiustizie e per questo ho sentito il bisogno di raccontarla, perché rende bene l’idea di quanto la burocrazia e le leggi possano essere disumane se usate come strumenti di potere”, sottolinea don Andrea.
Come è morto Khaled? “È morto all’ospedale di Prato, dopo un mese in terapia intensiva, non per il Covid – racconta ancora il parroco – ma per un batterio ugualmente aggressivo, lo stafilococco. Aveva contratto una polmonite. Sarebbe stata superabile in un soggetto ancora giovane come era lui, ma era molto pericolosa in una persona immunodepressa a causa di una cirrosi epatica in stadio avanzato”. Ecco, il nostro protagonista aveva qualche problema con l’alcol, non lavorava e non aveva un permesso di soggiorno. Insomma, era “un ultimo tra gli ultimi” che soffriva di una malattia molto contagiosa tra le persone fragili come lui: era un invisibile. Eppure in Marocco aveva una buona famiglia e anche un mestiere, era un tecnico meccanico, aveva studiato e lavorava nell’impresa del padre. “Ma poi a casa sua le cose non erano andate come pensava e dunque il miraggio dell’Italia, dove abitano dei cugini, era stato forte”, aggiunge don Andrea. Giunto nel nostro Paese Khaled trova un impiego in Romagna, in una officina meccanica, purtroppo però lavorando a nero. Ecco la prima ingiustizia. “Nessuno gli indicò il modo per ottenere il permesso di soggiorno, nessuno lo aiutò a regolarizzarsi – dice don Andrea – poi si spostò a Milano e a Palermo. In Sicilia, in un Centro di accoglienza, gli avevano messo in mano una carta per fare la domanda di permesso di soggiorno per motivi umanitari ma due in divisa (Polizia? Carabinieri? Chi lo sa) lo fermarono, lui gli presentò quella carta, e uno di loro gliela strappò sotto gli occhi! Che poteva fare, ribellarsi? Chi l’avrebbe difeso? E però può darsi che fosse una bugia, inventata da lui. E certo, qualche bugia Khaled l’avrà pure detta!”. Ma le sue disavventure non finiscono qui, perché a Firenze – ci stiamo avvicinando a Prato – il giorno di capodanno 2015 un autobus gli passa sopra un piede e l’uomo rimane menomato. Avrebbe avuto diritto a un risarcimento che gli avrebbe permesso di tornare a casa – ormai il suo desiderio era quello – ma per colpa della sua condizione di “invisibile” non è riuscito a far valere le sue ragioni. Decide di avvalersi di un avvocato ma l’assicurazione si appiglia ad alcune mancanze: l’uomo non ha codice fiscale. E non poteva averlo perché al momento dell’incidente non aveva permesso di soggiorno. Si va per via giudiziaria e la legge dà torto a Khaled ed è pure costretto a pagare le spese processuali.
Dopo varie vicissitudini, l’uomo arriva a Prato ed entra in contatto con il centro d’ascolto della San Vincenzo della parrocchia di Galcetello. “Siamo nel febbraio 2019, avevamo da poco dato vita alla nostra attività di accoglienza dei senzatetto e Khaled fu il primo ospite – ricorda don Andrea – inizia così un rapporto molto bello, abbiamo avuto occasione di conoscere il suo cuore buono. Ci siamo impegnati nell’assisterlo e anche nell’aiutarlo a ottenere il passaporto e la carta di identità del Marocco, che non aveva più”. Le sue condizioni di salute però iniziano a peggiorare, almeno tre volte la parrocchia chiama l’ambulanza per farlo trasportare al pronto soccorso. Si cerca di fargli avere un permesso di soggiorno per motivi sanitari ma anche questa volta niente da fare: nella relazione che il medico invia alla Questura per il rilascio del documento c’è scritto che tornare in Marocco avrebbe compromesso il percorso sanitario che stava facendo in Italia. Non è stato sufficiente. Siamo nel 2020, sempre nel mese di febbraio, Khaled cade in stazione mentre sta per prendere il treno e si frattura l’omero. Il parroco decide di ospitarlo in canonica, dove risiederà per alcuni mesi fino a quando, “l’aggressivo stafilococco” gli attacca i polmoni e l’uomo, con una condizione di salute già compromessa, muore all’ospedale di Prato.
Anche l’ultima parte della storia, da morto, gli riserva un brutto scherzo. C’era da avvertire la mamma della morte del figlio. “Abbiamo chiesto di poter vedere il cellulare di Khaled, in custodia nel reparto, per poter ricavare il numero a cui telefonare. Anche qui la legge avrebbe detto che si violava la privacy, che era necessario l’intervento della polizia e dei carabinieri, ma poi, grazie a Dio, qualcuno ha avuto la sensibilità e siamo stati esauditi. Sì, c’era il rischio di lasciare che una mamma per un mese non sapesse nulla del suo figlio e solo alla fine venisse a sapere che era morto”.
Don Andrea ha voluto raccontare questa storia per “sfogarsi”, dice esattamente così: “ho voluto tentare di rendere un po’ di giustizia a Khaled, che certo di errori ne avrà fatti, ma aveva iniziato una nuova strada e avrebbe meritato di concluderla felicemente, a casa sua, accanto alla sua mamma”.