Toscana

Sant’Egidio, card. Martinez Sistach: Oriente e Occidente tornino alle loro radici

Dopo l’apertura ieri in Palazzo con gli importanti interventi Grande imam Al-Tayyeb e del fondatore di Sant’Egidio, Andrea Riccardi, stamani il confronto si è spostato in Palazzo Medici Riccardi.

Nel concludere i lavori il presidente di Sant’Egidio, Marco Impagliazzo, ha parlato della necessità di modificare la propria visione gli uni degli altri: l’Occidente dell’Oriente e viceversa. «C’è una fiducia di ricostruire e una storia nuova da iniziare», spiega e aggiunge «che è necessario superare la rassegnazione che viene dalla paura dell’altro e dalla crisi». Intanto l’incontro tra Oriente e Occidente è iniziato e c’è una prima base comune: il rifiuto della violenza e della guerra. Adesso ci vorrà una seconda base: l’autocritica. Indispensabile, a giudizio del presidente di Sant’Egidio, sarà anche «educare i giovani in maniera nuova». «La realtà è terribile, ma le nostre ambizioni sono grandi», conclude Impagliazzo ricorrendo al proverbio arabo che «una mano sola non applaude: per questo bisogna essere insieme».

Tra i numerosi interventi della mattinata conclusiva, quello del cardinal Lluis Martinez Sistach, arcivescovo di Barcellona, che ha proposto una serie di suggerimenti: andare tutti alle rispettive fonti delle nostre credenze; che le credenze si sforzino a spiegarsi; creare una tradizione di convivenza; aiutare le autorità civili nella gestione del pluralismo religioso nelle nostre società.

Di seguito l’intervento integrale dell’intervento del cardinale Lluis Martinez Sistach:

I fatti successi in Francia il 7, 8 e 9 gennaio scorso, e la realtà del cosiddetto Stato Islamico, tra gli altri, mettono nel primo piano dell’attualità uno degli aspetti del nostro incontro sulla convivenza tra Oriente e Occidente in un mondo globalizzato: i rapporti tra cristianesimo e islam.

In questo contesto, vorrei  proporvi alcuni suggerimenti per la vostra riflessione, sperando che da essa possano sorgere idee e proposte valide per l’azione, soprattutto nei rapporti tra le Chiese e confessioni cristiane e l’Islam.

1. Primo suggerimento: andare tutti alle rispettive fonti delle nostre credenze.

È stato recentemente a Barcellona, a tenere una conferenza, il Padre Vincent Feroldi, delegato episcopale dell’Arcidiocesi di Lione per le relazioni con i musulmani. In una dichiarazione per il settimanale diocesano Catalunya Cristiana, ha detto quanto segue: «I terroristi usano il linguaggio religioso e rivendicano l’Islam; ma la mia esperienza e il lavoro che ho fatto per molti anni con la comunità musulmana, mi permettono di dire che i musulmani che io conosco non sono terroristi. Sono uomini e donne di pace, e l’Islam non è la religione della violenza». E si chiedeva: «Come possiamo far capire questo, quando i fatti internazionali e gli attentati di Parigi ci dicono il contrario?» (Cf. Catalunya Cristiana, 22/03/2015, p 6 e 7 ..).

Cercherei di rispondere a questa domanda dicendo che le religioni devono fare un «ressourcement», un ritorno alle fonti, ai testi ispirati da Dio, ai testi originali, che sono la norma e il contenuto fondante e fondamentale delle nostre credenze. In una parola, andare ai mistici di ogni religione – ai rappresentanti del sufismo nella religione islamica -, essi ci conducono a Dio, all’essenziale, alla  fede in un Dio buono e fonte di bontà, un Dio clemente e misericordioso, che vuole il bene per i suoi figli e la pace, e non la violenza. I mistici sono i più validi interpreti del senso di ogni credo e di ognuna delle tradizioni religiose, perché le guardano nel loro significato profondo e dalla loro esperienza di Dio.

Sembra davvero necessaria una reinterpretazione dei testi dell’Islam, alla luce di ciò che viviamo oggi, nel XXI secolo. La Chiesa cattolica lo ha fatto con la Bibbia. I teologi musulmani hanno il compito di reinterpretare il Corano a partire dal contesto culturale attuale. Ma dobbiamo essere consapevoli che questo è un compito a lungo termine. Non si possono bruciare le tappe, ma il suo inizio è inevitabile e voci dello stesso Islam ne sono coscienti e lo reclamano.

Penso che possiamo distinguere tre tipi di Islam: l’Islam identitario, l’Islam politico e l’Islam spirituale. Attualmente, attraverso i fatti internazionali, quello che appare è, soprattutto, l’Islam politico, un Islam di rottura, di opposizione all’Occidente e con una volontà di organizzare la vita della società nel suo complesso a partire dalla religione. O sei musulmano, o sei infedele. 

L’Islam identitario si manifesta come una volontà di mantenere la propria cultura contro la forza di livellamento della globalizzazione. Ha la sua forza, soprattutto, nei settori di giovani immigrati dal Maghreb verso l’Europa – che hanno fallito a scuola e spesso si trovano in situazione di disoccupazione – influenzati dalle  accuse contro le potenze coloniali. Rappresenta inoltre un’accusa contro l’Europa e la sua imposizione colonizzatrice a paesi di cultura propria e differente dagli antichi colonizzatori. Nella nostra diocesi abbiamo avuto una religiosa – la sorella Teresa Losada, religiosa delle Suore Missionarie di Maria, ormai defunta – che fu una profetessa del diritto degli immigrati a mantenere la loro cultura materna arabo-musulmana e, in particolare, dei diritti degli immigrati musulmani a mantenere la loro lingua, i loro costumi e le loro forme culturali, dall’infanzia alla maturità.  E allo stesso tempo, dava direttive affinché l’Islam si potesse inculturare e adattarsi al contesto di ogni luogo, in modo da non essere un ghetto permanente nella nuova società che li ospita. La sua fondazione si chiamava appunto Byat-al-Taqafa, ovvero, Casa della Cultura. 

La cultura è un fattore di scoperta dell’altro e della convivenza, quello che Papa Francesco chiama la «cultura dell’incontro».

Infine, vi è l’Islam spirituale. Sono uomini e donne che vogliono vivere la loro religione, ma sono contenti di vivere in Europa. Non vogliono invadere nulla, ma aspirano a vivere in pace la loro fede e in pace con i cristiani o con i fedeli di altre religioni; un mondo di pace, in cui sia possibile vivere insieme nella diversità. Essi chiedono di avere i loro imam, le loro moschee, e la loro richiesta è ragionevole, come ho dichiarato io stesso di recente.

Per quanto riguarda la Chiesa cattolica, il decreto Nostra aetate, del Concilio Vaticano II afferma che «la Chiesa non rifiuta nulla di quello che, in queste religioni non cristiane, è vero e santo. Considera con sincero rispetto i modi di agire e di vivere, i precetti e le dottrine che, quantunque discrèpino molto da quelli che la Chiesa mantiene e propone, tuttavia riflettono, non raramente, una  scintilla di quella Verità che illumina tutti gli uomini «(N 2). E continua affermando che «non possiamo invocare Dio, Padre di tutti, se ci rifiutiamo di comportarci fraternamente con alcuni uomini, creati ad immagine di Dio» (n.5). 

E infine chiede ai cristiani che «con prudenza e carità, attraverso il dialogo e la collaborazione con i seguaci di altre religioni, riconoscano, preservino e promuovano quei beni spirituali e morali, nonché i valori socio-culturali che si trovano in essi» (n.2).

2. Secondo suggerimento: che le credenze si sforzino a spiegarsi. Anche in questo caso mi riferisco alle dichiarazioni del padre Feroldi che disse quanto segue: «La mia amicizia con i musulmani in Francia mi spinge ad incoraggiarli a parlare e a farsi conoscere. Devono spiegare che cosa è, per loro, l’Islam. Ma questo, che sembra facile, non lo è affatto».

La Chiesa cattolica è una istituzione che ha un capo, il Papa. E possiamo dire che quando il Papa parla, lo fa a nome o per tutti i cattolici-romani. Nell’Islam la grande difficoltà è che non vi è una autorità interpretatrice ufficiale e vincolante. 

Ogni musulmano è responsabile delle sue azioni davanti a Dio, e gli imam agiscono, per lo più, come consiglieri. Perciò non si può parlare di un solo Islam, ma di molti Islam. Ci sono molte correnti e molti modi di intendere e vivere l’Islam.

Dopo gli attentati di Parigi, molti imam hanno fatto un appello per la pace ed hanno aperto le porte delle moschee per parlare e trovarsi con la gente. La chiave sta nel poterci conoscere. E dovremmo anche parlare della convenienza di azioni comuni a livello umanitario. Faccio due esempi della mia diocesi: il Gruppo di Lavoro Stabile di Religioni (GTER), piattaforma di dialogo interreligioso, con una presidenza a rotazione, che ha già compiuto dieci anni di vita, e l’attività della Caritas che, di fronte alle gravi necessità della crisi economica, aiuta – in concreto nella mia diocesi – ogni persona bisognosa che le si rivolga, senza che sia un impedimento il fatto di essere di una confessione o di una religione diversa dalla cristiana. 

Un altro modo per abbattere i pregiudizi è intraprendere azioni congiunte. Ci sono molte questioni a livello locale, ma anche a livello internazionale che preoccupano entrambe le comunità e sulle quali è possibile  riflettere e lavorare insieme. 

I fatti di Parigi non devono interpellare soltanto l’Islam, ma anche l’Europa. Dobbiamo chiederci quali valori ha l’Europa di oggi. A malapena sono riconosciute le radici cristiane del nostro continente. L’ideale dei padri dell’Unione Europea ha poco a che vedere con i valori attuali, che danno la precedenza all’economia di fronte alla convivenza sociale.

3. Terzo suggerimento: creare una tradizione di convivenza. Dobbiamo avanzare nel rendere compatibile la fede islamica con i valori occidentali che sono sempre più universali. Ci sono dei valori umani fondamentali che ci devono unire ai credenti di tutte le religioni, come per esempio, il linguaggio della bontà, della umanizzazione delle relazioni, della comprensione e il rispetto per ogni persona. Cosa che viene espressa, in qualche modo, nella Dichiarazione Universale dei Diritti Umani. 

È assolutamente necessario che in ogni paese del mondo siano rispettati i diritti fondamentali della persona umana, e in particolare il diritto alla libertà religiosa. 

Questo diritto appartiene ad ogni persona umana in quanto si fonda sulla dignità della stessa e deve poter essere esercitato in privato e in pubblico, da solo o in gruppo, libero da coercizione, sia da parte di individui come di gruppi sociali e di qualsiasi potere umano. 

Se si concede ad una religione un riconoscimento civile nell’ordinamento giuridico della società – è il caso di uno stato confessionale – è necessario che, al tempo stesso, venga riconosciuto e si rispetti il diritto alla libertà religiosa per tutti i cittadini e le comunità religiose (Dignitas Humanae, 6). 

Di fronte al fenomeno della mobilità umana universale, gli stati devono chiedere che si metta in pratica il principio della reciprocità in relazione al rispetto dei suddetti diritti umani. A questo proposito, in una Istruzione del Pontificio Consiglio per la Pastorale dei Migranti e gli Itineranti, si legge: «Nei rapporti tra cristiani e persone che aderiscono ad altre religioni è di grande importanza il principio di reciprocità, inteso non come un atteggiamento puramente rivendicativo, ma come un rapporto basato sul rispetto reciproco e sulla giustizia nei trattamenti giuridico-religiosi. La reciprocità è anche un atteggiamento del cuore e dello spirito, che ci rende capaci di vivere, da tutte le parti, con uguali diritti e doveri. Una sana reciprocità spinge tutti ad essere «avvocati» dei diritti delle minoranze là dove la propria comunità religiosa è in maggioranza» (Erga migrantes caritas Christi, n. 64, 3 maggio 2004). Tuttavia, la reciprocità non è applicabile, come principio giuridico, alla libertà religiosa e si configura con uno strumento che si può seguire fino a  raggiungere un effettivo riconoscimento della libertà religiosa. 

Penso che una delle priorità di questo momento è quella di rendere possibile una vera civiltà della  convivenza. Questo non era così necessario nei tempi di cristianità, ma oggi è imprescindibile. Per raggiungere questo scopo, il ruolo dell’Europa è cruciale. Perché essa stessa è una comunità umana plurale, e perché attraverso il Mediterraneo ha ereditato antichi scambi con gli altri due mondi presenti sulle rive di questo mare, Africa e Asia. (Cfr Ll. Martínez Sistach, La civiltà della coesistenza, in Cristiani nella società del dialogo e della convivenza Vaticano 2013, 67). 

Il dialogo tra le culture sorge come un’esigenza intrinseca alla stessa natura dell’uomo e della cultura. Questo dialogo non vuol dire che le culture si annullino nella uniformità, o raggiungano una forzata omologazione o assimilazione. Il dialogo interculturale deve tendere a superare l’etnocentrismo, per coniugare l’attenzione alla propria cultura e il rispetto per la diversità.

Rispettare le identità indica un nuovo modo di vivere il cammino della fraternità interreligiosa. Allo stesso tempo che rispettiamo le identità dei fratelli, siamo chiamati a vivere radicati nelle fonti della propria identità. Per ottenere un  dialogo autentico bisogna che gli interlocutori siano consapevoli della propria identità. Se uno di loro non conosce le proprie radici e non conosce né valorizza la propria identità, è facile che vi siano,  da parte sua, due possibili reazioni: o accettare ogni cosa nuova offerta dall’ altro interlocutore senza integrarla alla propria identità o rifiutare tutto, cosa che è un atteggiamento di xenofobia. 

Bisognerebbe trovare delle coordinate minime per delle adeguate relazioni Oriente-Occidente. Una potrebbe essere «la ragione pratica sulla quale si basa la conoscenza morale che è anche autenticamente razionale e non semplicemente l’espressione dei sentimenti soggettivi non-cognitivi». (J. Ratzinger, testo castigliano in S. Madrigal, Il pensiero di Joseph Ratzinger teologo e papa, Madrid 2009, 285). E l’altra sarebbe la protezione della dignità umana, che suppone una precisa concezione degli uomini e delle donne come uguali, e la decisa tutela dei diritti umani.

Converrebbe creare uno spazio interuniversitario interculturale di riflessione e di studio. È noto che nel mondo islamico alcune università mantengono una leadership nello sviluppo del pensiero dell’Islam nel suo aspetto religioso, politico, sociale, artistico e scientifico. In Europa non esistono luoghi interuniversitari permanenti di scambio di esperienze e di studi con lo  scopo accademico di creare e promuovere una conoscenza condivisa che possa favorire delle buone relazioni Oriente – Occidente. L’obiettivo potrebbe consistere in questi tre assi: 1) La conoscenza e la diffusione di nuovi modi di pensare tra l’Islam sociologico e il sistema delle società occidentali; 2) Proposte di linee di cooperazione internazionale negli aspetti tecnici, scientifici ed economici; 3) Lo sviluppo di linee di pensiero sociale per  stabilire sistemi di convivenza condivisa.

La convivenza tra persone di culture diverse non può sottovalutare le credenze religiose e i valori che ne derivano. Per questo, nel nostro mondo, segnato dal fenomeno della mobilità umana, il dialogo interreligioso è sempre più necessario anche per facilitare la convivenza autentica.

Ci tengo a sottolineare l’esempio di rispetto per le differenze che si verificò nell’incontro interreligioso di Assisi del 1986, e i successivi Incontri annuali organizzati dalla Comunità di Sant’Egidio, in cui le varie religioni -cristiane e musulmane, tra le altre- vivono in un vera fraternità, pregano una accanto all’altra, non una contro l’altra, in un dialogo comune, che contribuisce alla vera convivenza e fraternità. Preghiera, dialogo e relazioni umane che generano relazioni cordiali, nelle quali prevalgono la conoscenza reciproca delle persone di diverse religioni e culture e il reciproco affetto. Un dialogo che deve essere planetario e nel quale la finalità dei partecipanti non sia quella di distruggersi reciprocamente, ma arricchirsi per mezzo del patrimonio delle identità religiose, etniche e culturali.

4. Quarto suggerimento: aiutare le autorità civili nella gestione del pluralismo religioso nelle nostre società.

Le autorità civili si trovano  con una realtà in buona parte nuova, soprattutto nei paesi europei di antica tradizione cristiano-cattolica. Le autorità devono gestire una nuova mappa religiosa, molto diversificata, naturalmente negli aspetti che li riguardano come autorità civili: luoghi di culto, sale di riunioni, situazioni di ordine pubblico, legalità di certe pratiche, etc.

A mio parere, le autorità dovrebbero trovare nelle religioni un atteggiamento di franca cooperazione nel quadro della libertà religiosa e del principio, patrimonio dell’umanità pronunciato da Gesù Cristo: «Date a Cesare ciò che è di Cesare e a Dio ciò che è di Dio «(Lc. 20, 25). A questo possono aiutare notevolmente le istanze di dialogo interreligioso create dalle stesse istituzioni religiose.

Nella mia città di Barcellona, vi è un tempio dedicato al patriarca Abramo, costruito in occasione delle Olimpiadi del 1992. Penso che la memoria del grande padre dei credenti è un’icona della civiltà della convivenza tra i discendenti di Abramo, i figli di Isacco e i figli d’Israele.

Concludo con una citazione del professor Andrea Riccardi, fondatore della Comunità di Sant’Egidio, che può essere applicata anche all’Islam: «La grande sfida del cristianesimo contemporaneo è vivere nel pluralismo religioso». 

Dobbiamo superare questa sfida perché l’Islam e il Cristianesimo devono lavorare insieme per proteggere e difendere la dignità della persona umana, minacciata dal materialismo e dal secolarismo. Il lavoro congiunto da svolgere è enorme. La posta in gioco è la dignità della persona umana e il rispetto dei loro diritti fondamentali. Stanno in gioco l’uomo e la donna creati ad immagine e somiglianza di Dio. Si tratta di una missione comune all’’Islam e al Cristianesimo.

+ Lluís Martinez Sistach