Toscana

«Salviamo la Domenica» anche dal flop delle liberalizzazioni

«Una sciagura che rischia di far chiudere decine di migliaia di commercianti». Non usa mezzi termini Alessandro Giacomelli, presidente di Confesercenti Prato, nel commentare la liberalizzazione degli orari dei negozi prevista dal Governo nel decreto «Salva Italia». La possibilità di aprire indiscriminatamente la domenica e nei festivi sta mettendo in ginocchio le piccole e medie imprese del commercio e dei servizi, «a guadagnarci è solo la grande distribuzione», sostiene Giacomelli senza alcun timore di smentita.

Così la Confesercenti, a livello nazionale, ha lanciato la campagna «Libera la Domenica». Per far capire il senso dell’iniziativa hanno scelto uno slogan molto diretto, dallo stile colloquiale e schietto come lo sono molti commercianti: «Domenica sempre aperto? Ma anche no!». Il progetto, che vede il sostegno della Cei e a livello locale delle Diocesi, è quello di presentare in Parlamento una proposta di legge di iniziativa popolare per chiedere l’abrogazione della norma. «Vogliamo tornare alla precedente previsione, quando erano le Regioni e i Comuni, enti vicini al territorio, a decidere in base alle esigenze i giorni più adatti per aprire nei festivi», spiega Giacomelli.

La campagna firme, ne occorrono 50 mila, è stata presentata a Firenze – a confermare il pieno appoggio della Chiesa c’era il direttore dell’Ufficio di pastorale del lavoro don Giovanni Momigli – e a Prato con il vescovo Franco Agostinelli. Le parrocchie pratesi e fiorentine sono così mobilitate per raccogliere adesioni. Di volta in volta saranno resi pubblici gli orari e i nomi delle parrocchie dove sarà effettuata la raccolta. Ma anche in altre parrocchie toscane ci si sta muovendo.

Perché questa contrarietà? «Abbiamo subito denunciato – sottolinea il presidente Giacomelli – che la liberalizzazione selvaggia degli orari dei negozi non avrebbe aumentato né i consumi né i posti di lavoro. I fatti ci hanno dato ragione: i consumi continuano a cadere e la disoccupazione è a livelli record. L’eccesso delle aperture ha avuto l’effetto di penalizzare i piccoli e medi esercizi e mette in discussione i valori e la qualità della vita delle persone e delle famiglie».

A Prato, con il vescovo Simoni prima e oggi con il suo successore Agostinelli, il tema è molto sentito. «Non tutte le domeniche e non tutta la domenica» fu il compromesso che il vescovo Simoni lanciò alcuni anni fa affinché la pur corretta richiesta di lavoro festivo per alcune categorie dovesse comunque essere bilanciata con il «diritto al riposo e il diritto-dovere per tanti credenti di santificare le feste».

Motivi etici e fondate preoccupazioni di perdere il lavoro convivono in questa «alleanza» tra commercianti, vescovi e sacerdoti. «Le piccole e medie imprese del commercio erano già in sofferenza prima di questo decreto – ricorda Giacomelli –, abbiamo cercato anche noi di tenere il passo della grande distribuzione e fronteggiare la concorrenza tenendo aperto la domenica ma i costi di gestione sono maggiori dei ricavi. Purtroppo il periodo è grave per tutti e lo dimostra il fatto che anche i saldi, a fine mese faremo un bilancio effettivo, sono andati male».

E se la vostra proposta non dovesse essere accolta cosa accadrebbe? «Quello che potrebbe accadere sta già accadendo – conclude il presidente di Confesercenti –, si calcola che nei prossimi cinque anni sono a rischio oltre 80 mila negozi in tutta Italia. Se chiuderanno saranno tutti posti di lavoro persi. Possiamo permetterci tutto questo?».

Non è una battaglia clericale, ma la difesa di valori umani

«Noi non siamo contro le domeniche lavorative in assoluto ma contro la loro liberalizzazione non governata. Perché non si tratta di una battaglia clericale o della difesa della Messa festiva, tant’è vero che anche molti commercianti di religione ebraica partecipano all’iniziativa. La questione è più generale: non facciamo che parlare di persona e di famiglia, ma se i ritmi di lavoro impediscono alle persone e alle famiglie di stare insieme almeno un giorno alla settimana è segno che il lavoro, da strumento di dignità, si è trasformato in strumento di ricatto». Monsignor Giancarlo Maria Bregantini, presidente della Commissione episcopale per i problemi sociali e il lavoro, spiega così l’adesione della Chiesa italiana alla campagna lanciata dalla Confesercenti.

Anche tra i vescovi italiani nessuno si illude di «difendere» la sacralità del giorno del Signore, semplicemente tenendo chiusi i negozi. La questione è ovviamente molto più complessa. Se le persone preferiscono trascorrere la domenica in un centro commerciale, piuttosto che viverla come giorno dedicato alla famiglia, agli affetti, al riposo e alla preghiera, è perché quel «senso» della festa forse lo hanno già smarrito. Ma ogni provvedimento che tende ad omologare la domenica a tutti gli altri giorni, a riempirla di cose futili, sposta il confine ancora un po’ più in là.

È questo che preoccupa i vescovi, che anche qui in Toscana sono intervenuti spesso su questo tema. Lo ha fatto, ad esempio, mons. Simone Giusti, vescovo di Livorno, che già nell’autunno del 2009 aveva chiesto alla parti sociali che se proprio si decide di far lavorare anche la domenica, lo si faccia almeno su base volontaria. Concetti ribaditi più volte da mons. Gastone Simoni, che aveva coniato anche una sorta di slogan: «Non tutte le domeniche e non tutta la domenica». Sempre Simoni partecipò nel febbraio 2010 ad un confronto tv con Turiddo Campaini, presidente Unicoop, tra i primi a sollevare il problema sul fronte «laico». E all’indomani del 1° novembre 2012, festività di Tutti i Santi, che aveva visto l’apertura di numerosi negozi e centri commerciali, aveva lanciato un appello assieme a mons. Franco Agostinelli, che di lì a pochi giorni gli sarebbe succeduto alla guida della Diocesi di Prato: «Come altre volte in passato chiedo di non aumentare ma semmai di limitare le aperture nei giorni festivi».

Un’altra voce che si è levata forte in difesa della domenica è stata quella del presidente dei vescovi toscani, il card. Giuseppe Betori. Grande eco ebbe il suo discorso in occasione dell’«omaggio» all’Immacolata l’8 dicembre 2010, quando chiese di «reagire e respingere questo tentativo di riduzione dell’identità della persona a quella di consumatore», anche perché «non essendo cresciute le risorse a disposizione e non essendo queste in ogni caso infinite, è solo illusorio offrire più numerose possibilità di consumo. Tutto si traduce in un aggravio dei costi, prima di tutto umani, della distribuzione». In quell’occasione rispose pubblicamente anche il governatore della Toscana, Enrico Rossi, assicurando che avrebbe fatto il possibile per «inserire nella normativa attuale la tutela di alcune festività legate alla nostra identità civile e religiosa oltre che alle locali tradizioni, la tutela dei diritti dei lavoratori del settore e di una pausa festiva da dedicare alla cultura, ai rapporti umani e forse un pò anche al silenzio».

E lo scorso Natale, il primo con tanti negozi aperti, grazie al decreto «Salva Italia» il card. Betori è intervenuto nuovamente. «Meraviglia – ha affermato nell’omelia del giorno – come non ci si accorga che l’ulteriore libertà che avremmo così conquistato, quella di poter acquistare beni anche il 25 dicembre – non essendo a quanto pare sufficienti gli altri 364 giorni dell’anno –, questa conclamata libertà abbia come prezzo un peso imposto a qualcun altro: la libertà dell’altro offesa e impedita, donne e uomini privati di un tempo del tutto singolare da dedicare agli affetti familiari».